IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno L, 2008, Numero 3, Pagina 169

 

 

Il significato della battaglia per lo Stato federale europeo
 
 
Ogni trasformazione profonda dei bisogni della società richiede in primo luogo una risposta efficace da parte della politica e della cultura per poter diventare il volano del progresso della civiltà. Quando una risposta adeguata non viene trovata, emergono contraddizioni e crisi spesso drammatiche, che sono destinate a susseguirsi finché questa risposta non matura.
La globalizzazione sembra avere questi connotati. L’umanità, a fronte della profonda interdipendenza raggiunta, non riesce infatti a dotarsi degli strumenti idonei per governare i processi che ne derivano, né riesce a capire quali debbano essere questi strumenti. Ciò avviene proprio in quanto la cultura politica che oggi funge da punto di riferimento teorico è in grado di descrivere i limiti e le insufficienze dell’attuale assetto del potere organizzato nel quadro degli Stati nazionali, ma non di individuarne le cause profonde e quindi di indicare delle alternative.
Molti osservatori, in realtà, capiscono che la sfida fondamentale del nostro tempo riguarda la possibilità di estendere i processi decisionali democratici a livello internazionale. Ma, nella misura in cui il pensiero resta prigioniero dei limiti dell’internazionalismo, sia esso liberale o democratico, esso non riesce a concepire la possibilità di allargare l’orbita dello Stato oltre i confini nazionali, e quindi a pensare, in prospettiva, la concreta realizzazione di un governo mondiale; per questo le riposte risultano sempre inadeguate. Così la crisi dello Stato e della democrazia viene affrontata o cercando di affrancare la politica dal quadro statuale, oppure ipotizzando una diversa organizzazione dei rapporti internazionali che non elimini la dimensione nazionale della politica ma che supplisca alle sue attuali insufficienze.
 
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Queste due alternative sono presenti — se pur in modo ambiguo e confuso — sia nello schieramento conservatore sia in quello progressista. La matrice fortemente economica di una parte del cosiddetto pensiero neo-liberale, ad esempio, spinge quest’ultimo ad abbracciare una visione in cui il superamento della categoria dello Stato è, in astratto, una conquista della civiltà. In questa ottica il libero mercato è capace di autoregolarsi e di sostituire, mediante il libero confronto delle forze che si misurano nella competizione economica, la necessità di un processo decisionale politico articolato. La società civile, anche attraverso le modalità di auto-organizzazione che riesce ad esprimere, scalza completamente la società politica, la cittadinanza arriva ad essere ipotizzata come un requisito che indica il godimento di diritti e libertà civili, non più un legame politico verso istituzioni territorialmente definite — che in quanto tale implica diritti propriamente politici, correlati da specifici doveri. Questa visione — cosiddetta post-moderna — teorizza, come un successo nella versione più conservatrice o come un dato di fatto incontrovertibile in quella più progressista, il drastico ridimensionamento della politica, confinata al ruolo di garante del non-intervento nei liberi processi del mercato. Essa accomuna, al di là dello stato d’animo, i neo-con e i new democrats.
Gli Stati Uniti sono stati la culla e i sostenitori di questa visione. Sin dai tempi della presidenza Reagan, il modello che hanno perseguito si è basato sull’ipotesi che lo stimolo ad un accrescimento della ricchezza collettiva potesse venire dal graduale ritiro dell’intervento statale dall’economia e da una drastica riduzione del ruolo dello Stato sociale, scelte che hanno portato a uno smantellamento di quest’ultimo e a una crescente deregulation. Il crollo dell’Unione sovietica e l’idea che il modello del libero mercato avesse sconfitto il nemico storico rappresentato dall’ideologia della pianificazione e della proprietà pubblica dei mezzi di produzione, unita al fatto di essere l’unica superpotenza in un mondo improvvisamente riunificato, hanno spinto l’America ad imporre il proprio modello ovunque fosse possibile, traendone anche enormi benefici. L’illusione, coltivata con l’Amministrazione Clinton, di riuscire a coniugare questo tipo di politica con una maggiore giustizia sociale, è caduta rapidamente. Al tempo stesso il prezzo pagato da moltissimi paesi, messi in ginocchio dalle contraddizioni che l’imposizione degli standard del Washington consensus alimentava, è stato altissimo. Se da un lato, infatti, questo tipo di politica, ha galvanizzato l’economia, garantendone una crescita complessiva a tassi mai visti prima, dall’altro è stata accompagnata da una distribuzione della ricchezza che ha drammaticamente aumentato il divario tra ricchi e poveri. Non solo, ma il successo conseguito si è rivelato man mano molto più instabile di quanto non si credesse, e i limiti di questo modello, con i rischi e le incertezze che comportava, hanno iniziato a manifestarsi già all’inizio degli anni Duemila. La crisi drammatica, finanziaria ed economica, che stiamo attraversando, e di cui è difficile prevedere gli sbocchi, ne è una diretta conseguenza, al punto da aver iniziato a far vacillare l’intero assunto della fine del ruolo della politica e dello Stato che aveva affascinato destra e sinistra fino a qualche mese fa; senza tuttavia, per il momento, far nascere una riflessione profonda su quali dovrebbero essere le alternative.
 
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Se gli USA sono stati la culla di questa impostazione culturale e politica, l’Europa, o meglio l’Unione europea, ne ha incarnato il prototipo, dando vita a un’organizzazione in cui si concretizzava la prevalenza del mercato sulla politica e in cui prendeva forma l’idea del superamento del vecchio concetto di Stato. La scelta, compiuta a metà degli anni Cinquanta, di avviare l’integrazione economica prima dell’unificazione politica, che portava in sé l’idea di arrivare gradualmente a un mercato unico prima di aver creato le istituzioni politiche sopranazionali per governarlo, ha in qualche modo segnato il destino attuale del vecchio continente. Il fatto poi che la fase della realizzazione del mercato unico coincidesse con il crollo del blocco sovietico e con tutti gli avvenimenti ad esso connessi — incluso l’affermarsi del nuovo credo politico liberista — ha offerto ai nemici del progetto di unificazione politica uno strumento straordinario per allontanare in modo radicale l’opzione dell’unificazione politica. I fatti sono facilmente ricostruibili: l’allargamento ai nuovi membri, unito al mancato approfondimento istituzionale della costruzione europea (benché la moneta ponesse con urgenza la questione della creazione di uno Stato europeo per governare efficacemente la competenza che veniva sottratta a molti dei paesi membri), è stato il grimaldello con cui in particolare i britannici hanno potuto imporre un cambiamento profondo a tutto l’edificio comunitario. Fino ad allora la prospettiva dello sbocco federale aveva sempre guidato le scelte e i parziali passi avanti istituzionali dell’Europa, ma con la diluizione dell’Unione europea in un organismo composto da membri eterogenei, soprattutto dal punto di vista delle aspettative verso la partecipazione al progetto europeo, questa prospettiva è scomparsa. Oggi la maggioranza dei paesi all’interno dell’UE non vuole arrivare alla creazione di una federazione. Se prima la Gran Bretagna si trovava in minoranza a contrastare l’avanzamento del progetto di unificazione — progetto che comunque, gli Stati fondatori della Comunità, con tutti i loro limiti, consideravano ineluttabile — oggi invece essa deve solo accompagnare un processo che porta verso la diluizione della coesione politica. A partire dalla fine degli anni Novanta, il rafforzamento sostanziale dell’aspetto intergovernativo (nonostante, formalmente, una parte delle riforme introdotte nei Trattati dopo Maastricht si ponesse l’obiettivo di accrescere i poteri delle istituzioni europee) è stata la conseguenza inevitabile di un allargamento mal gestito e la condizione indispensabile per superare l’impotenza dei farraginosi meccanismi decisionali dell’Unione.
Il fatto che per gli europei, con il completamento del mercato unico e la creazione della moneta unica, fosse ormai arrivato il momento di compiere il salto verso lo Stato federale europeo e che non ci fossero più passi intermedi da realizzare senza che si ponesse il problema del trasferimento della sovranità, ha reso ancora più facile la vittoria della Gran Bretagna: l’inerzia del potere organizzato a livello nazionale costituisce un freno potentissimo per il completamento del processo di unificazione, e chi è contro ha buon gioco nell’imporre scelte che lo preservano. L’Unione europea ha iniziato così a concepire sé stessa non più come una tappa del processo di unificazione politica degli Stati del continente, ma viceversa come l’esempio per eccellenza dell’organizzazione post-moderna dei rapporti tra paesi fortemente integrati e interdipendenti. La sua struttura indicherebbe al mondo il modello per organizzare e istituzionalizzare la cooperazione tra Stati che vogliono dar vita ad un mercato unico: il trasferimento ad organi comuni delle necessarie competenze, senza contemporaneamente cedere la sovranità. La sovranità — cioè il potere di decidere in ultima istanza — benché svuotata di molta della sua sostanza, rimane infatti nel quadro nazionale, così come nel quadro nazionale rimangono i meccanismi decisionali democratici, cioè legittimati dal consenso e dalla partecipazione diretta dei cittadini. In questo modo il modello non prevede una reale politica economica unica (che implica la competenza della fiscalità) e soprattutto un politica estera e di sicurezza unica, tutti settori in cui è impossibile cedere competenze senza trasferimento di sovranità. Nell’ideologia post-moderna si celebra la fine del sistema europeo degli Stati post-westfaliano, e si inaugura una nuova era in cui l’impossibilità della guerra dovuta ai legami di interdipendenza reciproca rende obsoleto l’hard power delle potenze tradizionali ed esalta il ruolo del cosiddetto soft power.
Tutto questo altro non è se non l’applicazione, benché molto semplicistica, del credo internazionalista liberale in base al quale l’allargamento del mercato, e la condivisione da parte degli Stati di questo obiettivo, rende pacifiche le relazioni internazionali. In questa ottica la pace è semplicemente la conseguenza dell’interdipendenza economica e dei rapporti commerciali sempre più stretti tra paesi liberali. Le uniche condizioni preliminari alla sua affermazione, quindi, sono l’adesione da parte degli Stati agli standard liberal-democratici e l’eliminazione delle barriere alla libera circolazione di beni, merci, capitali e persone. Gli Stati restano sovrani nell’ambito delle loro competenze politiche e le relazioni internazionali si fondano sulla collaborazione che, in un simile quadro, nasce dalla naturale convergenza di interessi.
L’Unione europea, così, da un lato ha dato sostanza alla teoria secondo la quale il fatto che lo Stato — che nella visione liberale è sempre stato soprattutto il potere da contenere in nome della libertà della società civile e degli individui che la compongono — venga radicalmente ridimensionato nei suoi poteri effettivi, fino perdere alcune delle sue caratteristiche classiche (legate in particolare alla relazione con il territorio e all’esercizio della sovranità), rappresenta un beneficio per lo sviluppo e per il «progresso». In questa prospettiva, la circostanza che in questo modo entri in crisi il concetto stesso di democrazia perché gli Stati, perdendo molti dei poteri reali per governare, diventano «polvere senza sostanza» (per citare un liberale classico come Luigi Einaudi) e non riescono più a soddisfare le aspettative dei propri cittadini, non costituisce un problema ma solo l’effetto — in futuro, in ipotesi, riassorbibile — di una nuova realtà più libera.
D’altro lato, poiché in questo rivolgimento delle categorie classiche della politica moderna solo il concetto di demos sembra destinato a rimanere eternamente legato a quello di nazione, svuotandosi di significato insieme a quest’ultima, l’Unione europea diventa la dimostrazione che è inutile, oltre che impossibile, superare il quadro nazionale della politica perché la divisione dell’umanità in Stati nazionali è un fatto ineliminabile (proprio in quanto considerato «naturale»). L’organizzazione del nuovo ordine internazionale è così anticipato dall’UE che mostra la via per realizzare la cooperazione tra Stati ormai pacificati dall’interdipendenza economica e per cercare di armonizzare gli interessi, inevitabilmente diversi e spesso contrapposti, che ciascun paese esprime (fatto questo che di per sé mina la solidità della tesi della loro convergenza «naturale»).
La realtà è che le debolezze e le fragilità dell’Unione europea, che nessuna retorica può nascondere, sono indicative delle contraddizioni insite in questa teoria, che non ha strumenti per dare risposte efficaci al problema di come ridare vigore alla democrazia, né di come estenderla anche al livello internazionale. Esse dimostrano che ciò che alimenta questa visione non è l’esigenza di capire la realtà (premessa necessaria per trovare soluzioni adeguate ai problemi che pone), bensì quella di giustificarla. Non si tratta quindi di un’espressione del pensiero, ma solo di un’ideologia, riflesso della volontà di mantenere lo status quo dei rapporti di forza esistenti a livello mondiale e della crisi dello Stato nazionale europeo nell’epoca della globalizzazione.
 
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Se il neo-liberalismo è un’ideologia che non fornisce criteri di interpretazione utili per capire e affrontare la realtà della globalizzazione, ma ne riflette semplicemente i meccanismi, il fatto per certi versi paradossale è che anche gran parte dei movimenti che in questi anni hanno cercato di opporsi alle contraddizioni scatenate dalla mondializzazione usano categorie di pensiero molto simili. Pur nella gran varietà di posizioni riscontrabili nel cosmopolitismo dei cosiddetti new global, il tratto comune sembra essere quello della ribellione della società civile — che si interpreta come l’unica istanza genuinamente democratica — rispetto al potere politico, accusato di essersi fatto complice degli interessi che traggono profitto dall’unificazione mondiale dei mercati. La «ribellione» avviene in nome di una visione anti-coercitiva della politica, di matrice in ultima istanza liberale, che interpreta la democrazia come cultura civile dell’associazionismo, della partecipazione e della mobilitazione, piuttosto che come un processo politico decisionale a livello statuale. Al limite, la società civile, in quanto luogo autentico della partecipazione e della libertà, è alternativa al potere organizzato, soprattutto quello statale.
Anche in questo caso ritorna quindi la visione post-statuale della politica (in questo caso specificamente della democrazia) e le soluzioni che si propongono per un nuovo ordine internazionale più equo e più giusto non prevedono il rinnovamento e il rafforzamento della politica, bensì l’affermazione della cultura dei diritti, e innanzitutto della priorità dei diritti individuali naturali. La sede preposta a tale affermazione è pertanto la sfera della giustizia. In questa prospettiva, la politica è vista come esercizio arbitrario del potere, e come tale deve essere assoggettata alla morale e al diritto, che la limitano e la contrastano. Sono i tribunali e non i governi o i parlamenti (a meno che questi ultimi non vengano intesi, come spesso accade per il Parlamento europeo, non come istituzioni statuali ma come assemblea preposta alla tutela dei diritti dei cittadini contro i poteri statuali), gli arbitri naturali in questo contesto. I diritti civili cosmopolitici appartengono infatti alla sfera giuridica, e investono la politica solo nel senso che ne stabiliscono i limiti e fissano il perimetro della giurisdizione degli Stati, in modo da garantire la libertà degli individui. In questo modo, nella misura in cui tutti gli Stati trasformano i diritti individuali in norme di diritto positivo, diventa possibile rivendicare il rispetto di tali diritti anche al di fuori delle nazioni di cui si è cittadini, appellandosi alla giustizia.
Questa visione viene applicata anche alla politica sociale, ambito nel quale si invoca il riconoscimento e quindi il rispetto ancora una volta di diritti, rapportandosi anche in questo caso al potere politico in termini conflittuali, con una rivendicazione che ha carattere universale ed astratto e che prescinde dal contesto in cui opera concretamente il governo. L’obiettivo, infatti, non è quello di pensare il modo di rafforzare la politica perché possa far fronte ai problemi che investono la società; in qualche modo si ritiene che la politica abbia sempre risorse sufficienti per dare — se vuole — risposte adeguate, e che il suo problema sia piuttosto quello di un utilizzo distorto dei propri strumenti e quello di agire in modo arbitrario e iniquo. Per questo lo scopo è quello di costringerla a rispettare i diritti di tutti.
Questo grande movimento di opposizione, che raccoglie ampi consensi nell’opinione pubblica, e che tende a porsi come il principale antagonista del quadro di potere esistente, è in realtà dunque prigioniero delle vecchie categorie che alimentano il sistema in vigore. Il presupposto — generalmente non esplicitato — che sorregge la sua visione di un possibile ordine internazionale alternativo è ancora una volta legato al mantenimento della divisione in Stati nazionali, e solo il modo in cui essi dovrebbero organizzare i rapporti reciproci dovrebbe essere oggetto di cambiamenti. Sono sempre gli Stati infatti che, benché ipotizzati come istituzioni dai poteri estremamente limitati sia all’interno che verso l’esterno, comunque governano; e d’altro lato anche in questa visione il popolo è tale solo all’interno dei confini dello Stato nazionale, che, per questa ragione, è il solo soggetto legittimato a prendere decisioni politiche.
L’idea è dunque che a livello globale ci siano questioni che hanno una dimensione mondiale e che investono la popolazione di tutto il pianeta, ma che esse debbano essere risolte sulla base di politiche specifiche (policies), e dunque non attraverso la creazione di un potere politico adeguato alla dimensione dei problemi, ma attraverso forme di governance. La gente (non i cittadini), le popolazioni (non i popoli) si associano e si organizzano in virtù dei problemi globali che li accomunano (siano essi legati all’ambiente, all’emigrazione, allo sfruttamento delle risorse naturali), e per ottenere risposte si rivolgono non tanto ai governi, con forme di pressione diretta, quanto ad istituzioni internazionali che, in quanto organismi super partes, possono far valere i loro diritti.
La risposta alle contraddizioni dell’attuale assetto di potere internazionale risiederebbe quindi nella riforma delle organizzazioni internazionali (per rafforzare il quadro di cooperazione tra gli Stati, soprattutto inserendo forme di partecipazione e consultazione popolare) e nell’istituzione di tribunali internazionali in grado di controllare l’operato degli Stati. Questi ultimi, però, si troverebbero ad agire non nell’ambito di un equilibrio di poteri definiti dalla legge fondamentale di un comunità politica che poggia sulla sovranità popolare, ma in un quadro autoreferenziale, la cui legittimità è legata all’ipotesi dell’esistenza astratta di norme universali che spetta alle corti stesse incarnare ed interpretare. Questo fatto, unito all’idea che la rivendicazione dei diritti non debba avvenire pretendendo la creazione di un meccanismo decisionale democratico in grado di stabilire le norme per regolare la vita della comunità globale (cosa che presupporrebbe l’ipotesi di istituzioni statuali globali), bensì debba essere semplicemente il frutto dell’organizzazione spontanea della società civile che agisce sul potere visto come corpo estraneo o avversario, rende questo tipo di approccio estremamente pericoloso per il futuro della democrazia. Esso sortisce infatti l’effetto di creare le condizioni per svuotare ulteriormente la già scarsa partecipazione alla vita politica democratica negli Stati esistenti e per far emergere oligarchie politiche, economiche o persino appartenenti all’associazionismo spontaneo della società civile o al potere giurisdizionale, che si auto-legittimano e non si sottopongono a nessun controllo democratico, esercitando un enorme potere che diventa, in ultima istanza, arbitrario.
Questo pericolo è ormai denunciato anche da chi — con una posizione minoritaria nel panorama politico mondiale, ma che ha il merito di agitare la questione della necessità di creare istituzioni sopranazionali adeguate al controllo democratico dei processi globali — solleva il problema di adeguare la sfera della politica alla dimensione dei processi economici, e quindi si pone non nell’ottica liberale del contenimento del potere, ma in quella democratica dell’estensione dei meccanismi di partecipazione politica.
 
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La democrazia è un sistema di regole e procedure che fa sì che chi è chiamato ad obbedire alle leggi sia incluso, in maniera diretta o indiretta, nel sistema decisionale che stabilisce tali leggi. Ma nell’epoca contemporanea, essa non può essere pensata senza il riconoscimento del ruolo cruciale dell’azione e della critica pubblica nei meccanismi di formazione della volontà e delle decisioni politiche (quella che Habermas definisce la democrazia deliberativa). Il primo punto — per quanto siano perfettibili i meccanismi che permettono di realizzare la coincidenza tra governati e governanti — è l’essenza stessa della democrazia, quello che stabilisce il principio della sovranità popolare; pensare a forme politiche prive di questa caratteristica significa abbandonare il terreno stesso della democrazia. Anche il secondo requisito, però, è cruciale per permettere alle istituzioni democratiche di funzionare realmente, perché la formazione di una coscienza civile avanzata e la diffusione della cultura liberal-democratica consentono ai cittadini di operare scelte consapevoli in campo politico e di vigilare sugli organi di governo, e quindi di fatto danno sostanza all’istituzione e alle procedure della democrazia. Proprio il fatto che oggi questa formazione pubblica sia sempre meno efficace rappresenta una delle ragioni più gravi della crisi delle nostre democrazie. Sotto questo profilo, la perdita di poteri cruciali da parte degli Stati a causa dei processi globali, svuotando il concetto stesso di sovranità popolare, è sicuramente la prima causa di tale involuzione. Per questo è essenziale riuscire a riportare la vita pubblica democratica ad un livello adeguato, che in prospettiva non può essere che mondiale.
Le difficoltà del pensiero democratico si manifestano proprio su questo punto specifico, quando esso cerca di trovare soluzioni concrete alla necessità di allargare l’orbita della democrazia. I meccanismi che consentono l’espressione della sovranità popolare sono infatti inseparabili dal quadro statuale, ma gli strumenti del pensiero democratico impediscono di pensare l’allargamento dell’orbita dello Stato fino alla dimensione globale. Innanzitutto, la tradizione democratica non ha gli strumenti per pensare il funzionamento concreto di un sistema statuale così vasto da non poter essere gestito con la semplice bipartizione di cittadini-elettori alla base e istituzioni rappresentative al livello di governo, legittimate dal voto popolare. In effetti, solo le categorie del federalismo, che permette di pensare l’ampliamento dell’orbita dello Stato grazie alla coesistenza di molteplici livelli di governo, indipendenti e coordinati, consentirebbero l’organizzazione di una simile struttura. Ma la cultura istituzionale del federalismo, benché applicata già in diversi casi nell’organizzazione interna di Stati che hanno avuto il problema di dover conciliare l’eterogeneità del proprio corpo sociale o le differenze maturate nel corso del processo storico nei diversi ambiti territoriali da cui sono composti, non è ancora accettata come categoria per pensare la possibilità dell’unione di più Stati in un unico Stato, organizzato, appunto, su base federale. Nella storia (con l’eccezione troppo particolare, e per questo non universalizzabile, degli USA) non si è mai realizzata infatti l’unificazione volontaria di Stati che hanno scelto di fondersi in un’unica istituzione statuale.
Inoltre, nella storia non si è ancora realizzata la scissione tra il concetto di popolo e quello di nazione. Per quanto ambiguo e diverso sia il significato che si dà a questo termine, che varia dall’accezione anglosassone a quella continentale, in ogni caso esso si riferisce al fatto che l’identità collettiva è data da un senso di comune appartenenza ad una comunità che è tale proprio per il fatto di avere dei confini (un dentro e un fuori) e di essere definita dalla contrapposizione, per quanto la si possa ipotizzare «pacifica», con l’«altro» che forma una comunità statuale diversa.
E’ opinione ormai ampiamente condivisa che il concetto di nazione sia artificiale e si sia affermato strumentalmente con la rivoluzione francese per giustificare il passaggio della sovranità dal monarca al popolo e per dare un’identità a questo nuovo soggetto politico che si affacciava sulla scena della storia per la prima volta. Il diverso significato che esso ha poi assunto, è dipeso dalla storia degli Stati. La nazione è infatti diventata una categoria molto omogeneizzante nei paesi continentali che hanno sviluppato per ragioni geo-politiche un forte accentramento, e si è invece tradotta in una realtà più aperta laddove la situazione non ha imposto una simile organizzazione dello Stato. Ma resta il fatto che ovunque la nazione ha indicato e indica una comunità di destino rispetto alla quale i suoi membri nutrono una lealtà prioritaria, ed è opinione quasi totalmente condivisa che sia proprio questa identificazione a rendere possibile la solidarietà civica e a motivare il senso del dovere che i cittadini nutrono verso il proprio paese, per il quale sono disposti anche a compiere sacrifici personali. Eliminare questa connotazione di popolo legata all’idea di nazione, per cui un popolo è tale proprio in rapporto all’esistenza di altri popoli, e annullare le identità particolari nei concetti globali di cittadinanza e popolo mondiale, vorrebbe dire, in questa prospettiva, far perdere ogni significato ad entrambi i termini. La stessa nozione di sovranità perderebbe quel requisito essenziale per la sua definizione che è dato dal riconoscimento che le viene da parte degli altri soggetti statuali nel quadro internazionale. Senza limiti esterni e quindi senza caratteristiche particolari, popolo e sovranità non significherebbero più nulla.
Nel momento in cui, a causa dei processi globali, l’idea di nazione appare come un concetto troppo chiuso e limitante rispetto alla realtà eterogenea della società contemporanea, si dovrebbe denunciare questo punto di vista come il tentativo di dare una veste normativa a quella che è solo un’analisi descrittiva della realtà in atto. Eppure, nessuna concezione democratica, neanche la più avanzata, riesce a pensare un concetto universale di popolo e di sovranità. Si pensi, ad esempio, all’idea di Habermas del patriottismo costituzionale: questa nozione permette di concepire una nuova forma di identità collettiva, che non viene più legata a valori etnici, o culturali nel senso delle tradizioni, o in ogni caso a valori in qualche modo chiusi, ma che trova il suo senso nell’adesione ai principi politici universali incarnati dalla costituzione del paese di cui si è cittadini. Una forma di identità aperta, quindi, e adeguata alla realtà di società multietniche in rapida evoluzione; e soprattutto fondata sulla condivisione di principi universali.
Eppure, lo stesso autore nega che questa forma di identità possa avere un carattere universale. Benché tali tentativi di pensare il nuovo siano pervasi dall’idea — e dalla speranza — che questa mentalità e questa forma di adesione alla comunità politica di appartenenza si diffondano in ogni paese, creando quindi un terreno di sensibilità politica comune che renda possibile una convivenza cooperativa e pacifica a livello internazionale, rimane il pregiudizio secondo il quale le comunità statuali — pur potendo in certi casi raggiungere dimensione continentale laddove il quadro statuale esistente si dimostra inadeguato (come in Europa) — debbano rimanere molteplici e che sia impensabile arrivare ad uno Stato mondiale. Questo perché la creazione di uno Stato globale implicherebbe concepire l’umanità come un’entità assolutamente morale, capace di agire esclusivamente sulla base di motivazioni razionali ed etiche, senza lo stimolo della competizione verso l’esterno. Un fatto questo considerato contro il senso comune, in quanto l’esperienza storica non fa che testimoniarci come neppure la solidarietà civica potrebbe svilupparsi e mantenersi senza il senso di comune appartenenza ad una comunità potenzialmente in pericolo.
Al di là delle motivazioni filosofiche complesse, che trovano però una smentita in Kant (che pur prefigurando un nuovo inizio della storia con la creazione della federazione mondiale lo intende non nel senso che cambi la natura umana, ma solo che si creino le condizioni per eliminare la violenza nei rapporti tra gli uomini e quindi per renderli liberi di esercitare il bene), sembra, comunque, che Habermas resti fondamentalmente prigioniero dell’idea tradizionale di popolo come entità definita dalla sua contrapposizione rispetto a chi non appartiene alla stessa comunità. Questa però è solo l’origine storica del concetto di popolo, legata anche alle vicende della Francia rivoluzionaria e a quelle del sistema europeo degli Stati. In sé, invece, l’idea di popolo nasce con una valenza universale, e solo raggiungendo una dimensione globale potrebbe dispiegare interamente le proprie caratteristiche e potenzialità. Anche in questo caso sono le categorie del federalismo che permettono di pensare l’evoluzione di questo concetto dal livello nazionale a quello mondiale, attraverso la categoria del popolo federale. Quest’ultima indica la formazione di una identità a più livelli, non in modo astratto, ma a partire da legami istituzionalizzati tra il cittadino e il territorio in cui risiede, nel cui ambito si esercitano concretamente le responsabilità collettive della gestione della vita sociale e politica locale e si sviluppa la forma più immediata di solidarietà civica. L’unità nella diversità garantita dalla struttura istituzionale federale, articolata in più livelli di governo, renderebbe poi tale identità aperta, cioè idonea a denotare l’appartenenza ad ambiti via via più vasti, fino a quello mondiale, sulla base della condivisione di principi e valori resi concreti dall’architettura istituzionale.
Senza i principi del federalismo non si riesce a concepire la possibilità di uno Stato di dimensione globale, ma senza la prospettiva dell’unità del genere umano attraverso l’istituzione di uno Stato federale non si riescono ad individuare neppure i passi intermedi, e si ipotizzano soluzioni insoddisfacenti e contraddittorie. Perciò chi, nell’ambito del cosmopolitismo democratico, indica in una cittadinanza mondiale e in un potere sopranazionale che controlli gli Stati lo sbocco del processo di democratizzazione delle relazioni internazionali, finisce con il concepire un’architettura istituzionale anti-democratica, molto simile a quella della Società delle Nazioni, che crea un potere arbitrario incapace di realizzare i principi cardine che permettono la coincidenza di governati e governanti — principi che solo all’interno di uno Stato sovrano (uno Stato fondato sulla sovranità popolare) sono possibili. Lo stesso Habermas è costretto a pensare all’evoluzione dei rapporti internazionali in termini di «costituzionalizzazione» del diritto internazionale, con l’idea che gli Stati possano trovare forme di cooperazione strutturata che aboliscano in qualche modo la divisione tra politica interna ed estera. Salvo poi dover ammettere che anche nell’ipotesi che si riuscisse a realizzare un’organizzazione del sistema internazionale in cui tutti gli Stati aderissero a norme di comportamento comuni, questo renderebbe possibile perseguire la difesa dei diritti individuali, rispetto alla quale possono essere sufficienti interventi coercitivi, ma non consentirebbe di fare politica, nel senso di affrontare i problemi (legati all’ambiente, alle risorse energetiche, e così via), e che le questioni fondamentali dovrebbero essere comunque oggetto di negoziati tra potenze.
 
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Senza le categorie del federalismo e il modello dello Stato federale è dunque impossibile concepire l’allargamento dell’orbita dello Stato, e quindi della democrazia, fino al livello globale adeguato alla realtà odierna dei rapporti tra gli uomini. Il fatto che queste categorie siano oggi in gran parte ignorate costituisce un ostacolo sulla via del progresso sociale e civile. Ma è indispensabile sottolineare che la ragione del loro scarso riconoscimento è dovuta al fatto che non si sono ancora affermate storicamente, perché in nessuna area del mondo è stato ancora realizzato uno Stato federale frutto dell’unione volontaria di più Stati nazionali. Se questo era il progetto da cui era partito il processo di integrazione europea, che doveva indicare al mondo proprio la possibilità concreta di una simile unione, il fatto che gli europei abbiano finora rinunciato a realizzare questo obiettivo sembra dimostrare l’impossibilità, o addirittura l’inutilità, di una simile acquisizione. Solo un fatto nuovo e concreto come la realizzazione di uno Stato federale europeo potrà rovesciare questo punto di vista. D’altra parte, solo nella misura in cui capiranno il valore storico dell’impresa che devono realizzare, gli europei saranno in grado di intraprenderla.
Si tratta di una responsabilità enorme, che sinora gli europei si sono rifiutati di assumere. Il fatto è che il progresso della civiltà in questa epoca storica passa per la strettoia della capacità del nostro continente di trovare una soluzione reale al problema dell’allargamento dell’orbita della democrazia a livello sopranazionale, perché in nessun altra area del mondo esistono le condizioni per farlo. Questo è in ultima istanza il significato della battaglia, oggi, per lo Stato federale europeo.
 
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