IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XLI, 1999, Numero 2, Pagina 75

 

 

L’Europa e la guerra nel Kosovo
 
 
La guerra del Kosovo ha messo ancora una volta in evidenza la totale impotenza degli Stati dell’Unione europea, e lo ha fatto in modo particolarmente drammatico perché per la prima volta questi si sono trovati direttamente coinvolti in un conflitto che si è svolto nel cuore dell’Europa. L’immagine dell’Unione europea esce gravemente compromessa dalla vicenda del Kosovo. E’ stata l’Europa con la sua divisione e la «politica di potenza» dei suoi governi a promuovere attivamente la disgregazione della Jugoslavia nel 1991. E’ stata l’Europa che, preso atto della propria incapacità di risolvere il problema bosniaco, ha chiamato nella regione, nel 1995, gli Americani i quali, non dobbiamo dimenticarlo, erano assai riluttanti a lasciarsi coinvolgere nel groviglio dei conflitti etnici della penisola balcanica. E infine l’Europa, che non avrebbe voluto la guerra, è stata costretta a subirla perché gli Americani, una volta chiamati nei Balcani, non erano disposti a tornarne sconfitti, e a giocarsi così la credibilità che devono conservare in quanto unici responsabili del mantenimento dell’ordine mondiale.
In Europa, sotto l’effetto della guerra, si stanno moltiplicando le voci favorevoli alla creazione di una «identità europea di difesa». Ma il problema viene affrontato — quando viene affrontato — senza mettere in discussione il dogma della sovranità. La prospettiva della difesa europea viene sempre e rigorosamente inquadrata nell’ottica intergovernativa: viene vista cioè come un fatto di integrazione tra i comandi militari, di standardizzazione degli armamenti, di rafforzamento dei corpi multinazionali e, soprattutto, di miglioramento della collaborazione tra i governi dell’Unione (per esempio attraverso l’incorporazione dell’UEO nell’Unione europea, cioè di un organismo intergovernativo in un altro organismo intergovernativo). Ma il fatto è che la difesa, cioè il monopolio della forza fisica, si identifica con il cuore stesso della sovranità dello Stato. Ne discende che fino a che l’Unione europea sarà composta da molti Stati sovrani, vi saranno tante difese nazionali — inefficienti e velleitarie — quanti saranno gli Stati che ne faranno parte, cioè non vi sarà alcuna difesa europea. E il solo elemento di unione tra le politiche di sicurezza degli Stati dell’Unione sarà costituito dalla comune dipendenza dagli Stati Uniti, i cui interessi strategici peraltro non coincidono più con quelli degli Europei, contrariamente a quanto, bene o male, accadeva durante la guerra fredda.
 
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Vi è quindi identità tra difesa europea e Stato federale europeo, e fino a quando non lo si riconoscerà i discorsi sulla difesa europea serviranno soltanto a gettare fumo negli occhi e a suggerire l’idea che il tragico groviglio del Kosovo avrebbe potuto essere in qualche modo risolto sostituendo le bombe americane con bombe europee.
Ma è chiaro che non è così. Ciò che sarebbe servito nel recente passato e servirebbe oggi nei Balcani è una forte presenza politica e non militare dell’Europa; è l’esistenza di un disegno generale che consenta alle popolazioni dell’ex-Jugoslavia di vedere, come possibilità concreta, un futuro che non si presenti nel segno del nazionalismo, del sottosviluppo e della dittatura, ma in quello della democrazia e dell’unione tra i popoli.
Un’Europa unita da un vincolo federale potrebbe offrire questa prospettiva, sostituendo la politica dell’unità alla strategia delle bombe, il cui fallimento si sta tragicamente confermando dopo la fine della guerra, e senza far ricorso all’esercito se non per fini umanitari e con compiti di interposizione.
 
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Tutto ciò non significa evidentemente che uno Stato federale europeo non dovrebbe avere un efficiente apparato militare. Creare uno Stato federale europeo significherebbe prima di ogni altra cosa disarmare gli Stati nazionali, quindi trasferire a livello europeo il monopolio della forza. Come è vero quindi che non vi può essere difesa europea senza Stato europeo, così è vero che non vi può essere Stato europeo senza difesa europea. Del resto, quale che sia la politica estera che, nelle diverse contingenze che si dovessero presentare in futuro, farà la Federazione europea, il presupposto della sua efficacia sarà la percezione da parte di tutti che essa sarà condotta da un potere sottratto a qualsiasi egemonia esterna, che abbia cioè il controllo dei mezzi necessari per garantire da sé la propria sicurezza.
Ma, detto questo, l’Europa nascerà come una potenza che avrà come assi della propria politica estera — quantomeno per una prima, lunga fase della sua esistenza — il pacifico allargamento della sua compagine, la diffusione del modello federale come strumento dell’organizzazione della democrazia internazionale, il rafforzamento dell’ONU e la collaborazione politica ed economica tra le nazioni, e non certo l’uso della forza militare. L’esercito europeo sarà tanto più decisivo come fattore di progresso e di stabilità in Europa e nel mondo quanto meno dovrà essere impiegato.
 
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Se l’Europa fosse unita da un vincolo federale, essa potrebbe, contemporaneamente al lancio di un programma serio di ricostruzione delle zone devastate dalla guerra, proporre a tutte le repubbliche dell’ex-Jugoslavia l’ingresso nella Federazione europea. La proposta, oltre a prevedere un inevitabile periodo transitorio per rendere possibile — anche attraverso la ricostruzione — la realizzazione delle necessarie condizioni economiche di compatibilità, dovrebbe contenere due condizioni di natura politica. La prima dovrebbe essere quella dell’adozione inequivoca da parte di tutte le repubbliche di istituzioni democratiche. La seconda quella della disponibilità di tutte le repubbliche ad unirsi in un’unica federazione regionale che diverrebbe come tale uno Stato membro della Federazione europea. Va da sé che questa seconda condizione non dovrebbe essere d’ostacolo all’ammissione separata di alcune soltanto delle repubbliche, in attesa che tutte abbiano ottemperato alle condizioni richieste. Ma esse dovrebbero accettare di unirsi con le altre non appena queste fossero ammesse a loro volta.
E’ opportuno indugiare un attimo su questa seconda condizione, che a prima vista potrebbe sembrare irrealistica. Essa in realtà è di importanza primaria, per due ragioni. La prima è la necessità di evitare che l’adesione alla Federazione europea di un gran numero di staterelli di piccole dimensioni e di trascurabile peso politico svuoti di qualsiasi sostanza l’equilibrio federale tra governo centrale e Stati membri, spingendo la Federazione verso l’accentramento. La seconda — e più importante — discende dalla consapevolezza del fondamento stesso della legittimità della Federazione europea, che sarà il superamento del nazionalismo. Sarebbe grave che essa negasse questo fondamento riconoscendo come propri Stati membri entità la cui esistenza in quanto Stati è stata il risultato della più feroce esplosione di nazionalismo che l’Europa abbia conosciuto dalla fine della seconda guerra mondiale. E a questo proposito deve essere sottolineato che i governi europei hanno dato una deplorevole prova di debolezza e di mancanza di lucidità dichiarando la propria disponibilità all’ingresso nell’Unione europea della Slovenia, cioè della repubblica che, con la sua secessione, ha dato l’avvio alla lunga e sanguinosa tragedia jugoslava.
 
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Nell’ex-Jugoslavia esiste ancora un’opinione pubblica aperta ai valori della democrazia e dell’unità tra i popoli. Non si deve dimenticare che prima della caduta del muro di Berlino la Jugoslavia era considerata di gran lunga il più aperto e il più avanzato tra i paesi comunisti. Al suo interno esistevano certo tensioni nazionalistiche, ma i cittadini della Federazione si sentivano nella loro stragrande maggioranza jugoslavi e tra di loro i matrimoni «misti» erano frequenti quanto quelli tra donne e uomini di diverse regioni in qualunque altro paese europeo. Ma la disgregazione dell’Unione Sovietica e la completa perdita di credibilità del comunismo come fondamento della legittimità dello Stato hanno fortemente indebolito il potere centrale in tutti i paesi dell’Europa centro-orientale, hanno lasciato sul campo soltanto il nazionalismo come fondamento alternativo della legittimità del potere e, in Jugoslavia, hanno dato via libera alle minoranze violente che ne facevano la loro bandiera. Queste minoranze, aiutate dalla politica irresponsabile dei paesi dell’Europa occidentale, si sono impadronite ovunque del potere e hanno fatto di un paese pacifico, pronto ad imboccare la strada dello sviluppo economico e aperto alla collaborazione internazionale il teatro di un’orrenda guerra che è durata otto anni e che sarebbe utopistico sperare che oggi sia finita. Ma la maggioranza silenziosa esiste ancora, e tace soltanto perché non le viene offerto un disegno nel quale riconoscersi e per il quale impegnarsi.
L’Europa può offrirle questo disegno. Basti pensare all’effetto di annuncio che avrebbe in Jugoslavia il lancio da parte di un’Unione europea trasformatasi in federazione del piano del quale sono stati delineati i contorni. Basti pensare alle enormi energie che si sprigionerebbero e alle difficoltà insormontabili difronte alle quali si troverebbero i dittatori della regione. Ma si deve sottolineare con forza che gli stessi effetti non sarebbero affatto raggiunti da una generica offerta di adesione o di associazione all’Unione così come essa è oggi fatta ad alcune delle repubbliche della ex-Jugoslavia. Fino a che l’Unione europea non avrà affermato, con la creazione di un governo federale, la propria indipendenza, essa sarà vista nei Balcani come la longa manus degli Stati Uniti, e non avrà di conseguenza la credibilità necessaria per proporre e far accettare un modello di convivenza che consenta di superare le contrapposizioni tra i gruppi etnici e di avviare la regione in modo sicuro e irreversibile lungo la strada della stabilità, della democrazia e dello sviluppo.
 
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