IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XLII, 2000, Numero 3, Pag. 157

 

 

La potenza economica americana
e la divisione dell’Europa
 
 
Il periodo di incertezza che sta facendo seguito alla lunga fase di espansione dell’economia americana e a quella più breve di svalutazione dell’euro rispetto al dollaro non ci deve far perdere di vista due fattori strutturali, apparentemente contraddittori, che caratterizzano la natura dell’attuale equilibrio economico mondiale e le sue debolezze. Il primo è costituito dalla superiore capacità di espansione dell’economia americana rispetto a quella europea e dal ruolo-guida del dollaro, che permangono al di là dell’andamento della congiuntura. Il secondo è costituito dai costi dell’egemonia economica americana e dalla sua fragilità di fondo.
 
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Le cause della superiorità dell’economia americana nei di quella europea non sono economiche ma politiche. E’ bene premettere che queste cause non hanno nulla a che fare con la flessibilità del marcato del lavoro. La pretesa di spiegare la lunga fase di debolezza dell’euro, e, al di là della debolezza dell’euro, la scarsa dinamicità dell’economia europea imputandola alla rigidità del mercato del lavoro in Europa non è altro che l’ipocrita copertura di un’operazione di propaganda di parte. Negli anni ‘80 l’economia europea era più dinamica di quella americana senza che le norme sui rapporti di lavoro in Europa fossero sostanzialmente diverse da quelle attuali; e il Giappone, dove veniva realizzato il massimo di protezione sociale, veniva considerato un vero e proprio modello di efficienza produttiva. Era anzi proprio quella fase nella quale il rallentamento dell’economia americana veniva da molti imputato, almeno in parte, all’instabilità e all’insicurezza dei rapporti di lavoro negli Stati Uniti.
La vera causa della superiorità economica americana — nel quadro del mondo industrializzato — consiste nel fatto che gli Stati Uniti dispongono di un governo dotato di una forte capacità decisionale e sostenuto dal consenso democratico dei cittadini, che fa di essi la sola potenza in grado di esercitare — seppur con una serie di limiti — un ruolo egemonico a livello mondiale. Ne discende che la loro moneta, in quanto sostenuta da un potere solido e stabile, viene considerata dagli operatori economici di tutto il mondo come lo strumento di pagamento di gran lunga più affidabile nelle transazioni internazionali. Ma questo non è che un aspetto del quadro. Il governo federale degli Stati Uniti è in grado, anche all’interno, di esercitare una imponente azione propulsiva sull’economia reale attuando una coerente politica economica mirata alla promozione dell’interesse generale del popolo americano. Inoltre, attraverso la garanzia del funzionamento apparentemente sicuro di un grande mercato di dimensioni continentali, esso crea le condizioni per l’afflusso verso gli Stati Uniti di capitali in provenienza dal resto del mondo, e in particolare dall’Europa, che vanno ad alimentare ulteriormente l’efficienza del sistema produttivo americano.
 
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Di fronte al governo degli Stati Uniti troviamo la realtà dell’Unione europea, cioè di un’entità politica unita da un legame assai tenue e priva di consenso democratico, e quindi debole e incapace di decidere e di agire. Il Consiglio dei Ministri, che è l’inefficace surrogato di un governo europeo, è assorbito dal problema strutturale di trovare compromessi e mediazioni tra gli interessi divergenti degli Stati membri anziché da quello di promuovere l’interesse generale dell’Unione; e sulla scena politica internazionale l’Unione europea è semplicemente assente. Questa mancanza di un centro politico di decisione rende impossibile, da un lato, sfruttare le enormi potenzialità di sviluppo del mercato europeo (un mercato che, non lo si dimentichi, è assai più esteso di quello americano), perché ciò richiederebbe la presenza di un governo forte ed energico; e, dall’altro, compromette la forza contrattuale delle imprese europee e in generale del sistema economico europeo sul mercato mondiale. Del resto, per dare nuovo slancio all’economia europea e per tentare di recuperare il suo ritardo nei confronti di quella americana, l’Unione non può usare le leve del tasso di cambio e del tasso di interesse, perché l’euro è già relativamente debole nei confronti del dollaro e i tassi d’interesse europei sono già più bassi di quelli americani. Sembra quindi ragionevole pensare che all’Europa non resterebbe che puntare su di una politica di bilancio espansiva, dando impulso agli investimenti pubblici in infrastrutture, finanziando generosamente la ricerca scientifica e sostenendo la domanda — anche a prezzo di una moderata inflazione. Ma questa soluzione è resa impossibile dai vincoli deflazionistici imposti agli Stati dell’Unione europea dal Patto di stabilità. E questi vincoli sono giustificati non certo dall’imperativo dottrinario di ottemperare ai dettami dell’ortodossia economica dominante, ma dal dato di fatto della divisione dell’Europa, che genera in molti governi la fondata preoccupazione che, in mancanza di un unico centro di decisione che si faccia carico dell’interesse europeo, alcuni dei governi dell’Unione, se non vincolati da precise restrizioni, cedano alla tentazione del beggar-my-neighbour, cioè di gestire il proprio bilancio in modo disinvolto e irresponsabile scaricando le conseguenze della loro irresponsabilità sui propri partners, con il concreto pericolo di rimettere in discussione l’euro, di distruggere il mercato unico e di riavviare l’Europa sulla strada dell’anarchia economica e del protezionismo nazionale.
Stando così le cose, è impensabile che l’euro, quali che siano le sue quotazioni, determinate dall’andamento erratico dei mercali valutari, possa assumere il ruolo di moneta mondiale, alla pari con il dollaro, al quale sembrava predestinato. La capacità di una moneta di fungere da mezzo di pagamento nelle transazioni internazionali non dipende certo soltanto dai valori dei parametri con i quali gli esperti usano misurare lo stato di salute di un’economia, né dalle decisioni di un organo tecnico come la Banca centrale europea. Essa si basa sulla fiducia di coloro che la usano, della quale lo stato di salute momentaneo dell’economia può costituire certo un presupposto, ma non il solo. La fiducia in una moneta dipende anche, e soprattutto, dal potere dell’entità che la emette, e quindi dal ruolo che questa gioca nell’equilibrio mondiale, dalla sua forza militare, dalla sua stabilità, dalla sua capacità di promuovere efficacemente le attività produttive tecnologicamente più avanzate, di realizzare le infrastrutture necessarie allo sviluppo e di garantire ai propri produttori le condizioni di una corretta concorrenza sul mercato internazionale. La causa del fatto che l’euro, contrariamente alle di molti non si sia mostrato all’altezza di questa funzione è quindi la mancanza di un governo europeo e di una politica economica europea.
 
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Ma l’egemonia economica americana presenta un’altra faccia, costituita dall’enorme passivo della bilancia commerciale americana, che è finanziato dai capitali che affluiscono verso gli Stati Uniti dal resto del mondo, e in particolare dall’Europa. Ciò significa in sostanza che lo sviluppo dell’economia degli Stati Uniti è in parte finanziato da capitali europei, cioè che si verifica nel lungo termine un trasferimento netto di ricchezza dall’Europa agli Stati Uniti, giustificato dalla garanzia di sicurezza che, almeno nel medio termine e al di là della momentanea volatilità del mercato, dà agli investimenti fatti sul mercato americano la solidità politica degli Stati Uniti. Si tratta di una situazione abnorme, che contrasta in modo stridente con quella che esisteva nei rapporti tra Stati Uniti ed Europa nei primi venticinque anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale, oltre che con quella che ha caratterizzato tutte le egemonie economiche del passato. Normalmente infatti la potenza egemone esercita il proprio ruolo esportando merci e servizi in grande eccedenza rispetto a quelli importati, e investe all’estero una buona parte dei capitali che ne derivano. Essa esercita così un ruolo benefico nei confronti dei paesi sottoposti alla sua leadership, esportando una parte della ricchezza che essa crea. Il fatto che nei rapporti attuali tra gli Stati Uniti e il resto del mondo, e in particolare tra gli Stati Uniti e l’Europa, si stia verificando il fenomeno inverso — cioè che gli Stati Uniti importino ricchezza anziché esportarne — è il segno di una grave fragilità della potenza economica e politica americana.
Se infatti è vero che la forza politica degli Stati Uniti e del loro governo dà agli investitori una garanzia di sicurezza che spiega il fatto che enormi capitali vengano convogliati verso il mercato americano dal resto del mondo, e in particolare dall’Europa, è anche vero, per converso, che il continuo aumento del deficit della bilancia delle partite correnti degli Stati Uniti costituisce un fattore obiettivo di insicurezza e non potrà aumentare al di là di un certo limite senza provocare reazioni di inquietudine — o addirittura di panico — negli investitori, con concreti rischi di gravi conseguenze sull’andamento dell’economia reale. Questa analisi è avvalorata dalla circostanza che il mercato europeo costituisce un’alternativa assai parziale e imperfetta a quello americano, perché la sicurezza che esso offre è comunque di molto inferiore a quella — pur fragile — che offre il mercato americano. Lo dimostra il fatto che le borse europee sono al traino di Wall Street, mentre in una situazione di ragionevole equilibrio il loro andamento dovrebbe compensare quello della borsa americana.
Il fatto è che la condizione di solitudine nella quale gli Stati Uniti si trovano nella gestione delle loro responsabilità mondiali determina un marcato squilibrio tra la forza della loro economia da una parte e il numero e l’importanza degli impegni ai quali devono far fronte dall’altra. Si tratta di una sproporzione che rende impossibile al governo americano gestire la sua influenza sul resto del mondo in modo aperto e progressivo, mediante la diffusione della propria ricchezza, e lo costringe invece ad esercitare un’egemonia immobilista, che si serve di strumenti prevalentemente militari e cerca l’obbedienza delle élites conservatrici dei paesi che vi sono soggetti anziché fondarsi sul solido zoccolo del consenso dei loro popoli. In questo modo gli Stati Uniti d’America, oltre a non contribuire alla prosperità del resto del mondo, non ne garantiscono neppure la sicurezza, se non in modo precario e improvvisato. E va da sé che questo tipo di egemonia, che attira a sé la ricchezza altrui anziché esportare la propria, suscita un numero crescente di resistenze e di focolai di tensione, ed è quindi eminentemente debole ed instabile.
 
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In questo quadro la situazione dell’Europa appare paradossale. Se soltanto i suoi uomini politici sapessero acquisire un minimo di distacco dalle loro inconsistenti controversie interne e intereuropee, essi si renderebbero facilmente conto del fatto che la divisione del continente condanna l’economia europea ad un ritardo strutturale nei confronti di quella americana, impedisce alla moneta europea di fungere, accanto al dollaro, da strumento internazionale di pagamento, compromette il benessere dei cittadini europei e condiziona in modo gravemente negativo il futuro dei giovani. E capirebbero che l’Europa, sottraendosi a causa della propria divisione alle proprie responsabilità internazionali, favorisce le tendenze più nazionaliste e conservatrici della politica americana introducendo un grave elemento di instabilità nel quadro mondiale. Mentre si sottomette agli Stati Uniti, di fatto l’Europa nega loro un aiuto che sarebbe decisivo per la loro stessa prosperità a medio termine, per lo sviluppo del resto del mondo e per la stabilità dell’equilibrio internazionale.
Ma in Europa mancano politici capaci di elevarsi all’altezza di questa visione.
 
Il Federalista

 

 

 

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