IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno II, 1960, Numero 1, Pagina 55

 

 

LA TERZA SESSIONE DEL
CONGRESSO DEL POPOLO EUROPEO
 
 
La terza sessione del Congresso del Popolo Europeo ha avuto luogo a Darmstadt nei giorni 4, 5 e 6 dicembre dello scorso anno. Erano presenti circa 100 delegati delle diverse regioni europee che negli ultimi anni hanno organizzato le elezioni primarie. Tra essi i delegati di Capua, Feldbach (Stiria), Ostenda, Darmstadt, Francoforte (università), che sono le città che hanno votato nel mese di ottobre e novembre, portando il numero totale degli elettori del C.P.E. a 400.000 circa.
Riproduciamo qui di seguito i documenti più importanti e le risoluzioni elaborate dal Congresso stesso.
 
 
RIASSUNTO DEL RAPPORTO DEL DELEGATO GENERALE, DEL C.P.E.
 
I
 
Le «impasses» della politica europea nel 1959
L’anno 1959 ha visto, da una parte, un aggravamento della contraddizione tra il regime degli Stati nazionali europei e le false istituzioni europee, e, dall’altra, il manifestarsi di tutta una serie di problemi che avrebbero richiesto, ma purtroppo non hanno avuto, delle soluzioni autenticamente europee. Richiamiamo qui brevemente questi problemi, in ordine crescente di importanza:
1) La crisi di sovrapproduzione del carbone. — La crisi del carbone, dovuta alla concorrenza di altre fonti di energia, e specialmente del petrolio, non può essere affrontata che per mezzo di una politica europea unitaria dell’energia. Però non esiste alcuno strumento per attuare una tale politica, e persino i modesti tentativi dell’Alta Autorità della C.E.C.A. di stabilire una comune politica del carbone sono stati respinti dai governi nazionali, che praticamente hanno rinazionalizzato il settore del carbone, senza riuscire per altro a trovare una via d’uscita alla crisi.
2) Lo sviluppo dell’economia europea. — Esso incontra un ostacolo crescente nelle numerose tappe, clausole e eccezioni che i Governi hanno inserito nel trattato del Mercato Comune. Questi governi avevano creduto, e soprattutto avevano dato a credere, d’esser stati audaci e chiaroveggenti stabilendo un piano di 12-15 anni per eliminare le barriere doganali e i contingenti, coi quali essi avevano circondato i loro paesi. Essi non avevano previsto che soltanto un anno dopo la prima riduzione tutto il piano sarebbe diventato irrimediabilmente timido e conservatore. Perché le industrie possano elaborare e mettere in opera dei piani ragionevoli in vista del mercato comune, il processo di liberalizzazione deve essere accelerato. Perché la Comunità possa sviluppare il suo commercio estero — e la Comunità è il principale centro commerciale del mondo — è necessario modificare le tariffe protezionistiche stabilite dal trattato nei confronti dei paesi terzi. Per stabilire rapporti commerciali sani coll’America le discriminazioni nei confronti della zona del dollaro devono essere abolite. Orbene, non solo non esiste nessuna istituzione europea in grado di elaborare e di aggiornare quotidianamente la politica economica necessaria per realizzare questi obiettivi, (e capace di evitare che lo sviluppo del libero scambio giochi a favore dei cartelli piuttosto che a favore della intera comunità) ma, persino per la semplice accelerazione del processo di liberalizzazione, bisogna mettere in piedi tutto il meccanismo pesante e inefficace degli accordi diplomatici e intergovernativi.
3) L’assistenza ai paesi sottosviluppati. — Fino ad ora tale aiuto è stato soprattutto una preoccupazione degli Stati Uniti d’America e, per ragioni politiche opposte, dell’U.R.S.S. In Europa esso non è stato dato, e in una misura necessariamente insufficiente, che dai paesi che possiedono delle colonie, nella prospettiva superata e pericolosa della conservazione di ciò che resta degli antichi imperi coloniali. Nel 1959 tuttavia gli Stati Uniti si sono accorti che questo compito va al di là delle loro possibilità, e hanno invitato i paesi democratici europei a contribuirvi in proporzione alle loro risorse. Non si tratta né di una elemosina da dare ai paesi più poveri, né di una nuova forma di colonialismo, ma di un’operazione di risanamento politico-sociale su vasta scala e di ampio respiro, che non può essere affrontata che da potenti comunità politiche che sentono la loro responsabilità nel gioco della politica mondiale. Orbene, non esiste nessuna istituzione europea in grado di dare all’Europa questo senso di responsabilità e di incanalare per un periodo molto lungo una parte delle sue risorse verso i paesi sottosviluppati secondo un piano di solidarietà che non abbia più niente a che vedere col vecchio colonialismo.
4) Il cammino dell’Africa verso l’indipendenza. — Esso è proseguito a un ritmo accelerato e irreversibile. Il recente riconoscimento da parte del governo francese del diritto dell’Algeria all’autodeterminazione, sebbene non sia stato seguito finora da nessun atto concreto apre anche per questo sventurato paese la prospettiva dell’indipendenza a scadenza abbastanza breve. Il grande pericolo che minaccia oggi l’Africa è la proliferazione di una moltitudine di piccoli Stati sovrani, poveri e dotati di scarsa vitalità, che voterebbero l’Africa all’anarchia e all’avvelenamento della molteplicità delle sovranità. L’Europa, interessata più di tutti gli altri continenti all’avvenire dell’Africa, dovrebbe appoggiare lo sforzo delle élites africane che vorrebbero arrivare alla formazione di grandi comunità federali, capaci di rimpiazzare gli antichi imperi pur conservando il beneficio, che quelli avevano portato, delle grandi dimensioni delle unità politiche. Orbene, non solo non esiste nessuna istituzione politica europea in grado di fare questa politica, ma le potenze coloniali europee, Gran Bretagna, Francia, Belgio, accentuano la politica dello spezzettamento dei territori africani, di mano in mano che questi si sottraggono alla loro dominazione, e appoggiano sistematicamente le cricche favorevoli alla nascita di piccoli Stati satelliti degli antichi Stati metropolitani.
5) La nuova fase della politica mondiale. — Essa può essere caratterizzata in questo modo: il pericolo della guerra atomica spinge le due grandi potenze mondiali, e più in generale i due blocchi di Stati rispettivamente democratici e comunisti, a cercare dei modus vivendi che permettano loro di sviluppare i loro antagonismi in modo da evitare la guerra totale. Decise ormai a rispettare reciprocamente la loro esistenza, le due grandi potenze, e correlativamente i due complessi democratico e comunista, non rinunciano però, e non possono né devono rinunciare, ad approfittare di tutte le difficoltà o crisi dell’avversario per favorire il suo indebolimento e per allargare la loro influenza. Pertanto superare le proprie contraddizioni e stabilire un ordine politico, economico e sociale stabile e forte diviene il primo dei compiti degli uni e degli altri. Benché in sé l’esperienza democratica disponga di maggiori possibilità che l’esperienza comunista di raggiungere alla lunga questo obbiettivo, essa è, nella fase attuale della politica mondiale, quella che è più in pericolo di subire maggiori sconfitte nella tale o nella talaltra parte del mondo, a causa dell’estrema pigrizia colla quale il mondo democratico affronta le proprie malattie. Il punto nevralgico nella politica mondiale è oggi costituito dall’anarchia politica che regna al livello della politica estera tra gli Stati dell’Europa democratica, perché i più importanti tra essi non sono più abbastanza forti per essere degli attori della politica mondiale, ma lo sono abbastanza per creare delle situazioni pericolose. La coesistenza competitiva — l’equilibrio mondiale tra mondo democratico e mondo comunista — che giocherebbe irresistibilmente in favore del primo, se l’Europa fosse federata, gioca in favore del secondo finché l’Europa resta divisa e i suoi Stati continuano a pensare e ad agire secondo le categorie anacronistiche della sovranità, della potenza, della grandezza, dell’unità nazionale. Finché l’Europa occidentale resta un vuoto politico, un peso morto per gli Stati Uniti, un campo di manovre per l’U.R.S.S., il pericolo di una guerra totale continua a gravare su tutta l’umanità malgrado tutti gli incontri e le conferenze spettacolari che la diplomazia mondiale organizza periodicamente. Orbene, non esiste nessuna istituzione federale capace di mettere fine a questa anarchia e di fare dell’Europa quel fattore fondamentale, di pace d’ordine e di libertà, di cui hanno bisogno non soltanto l’Europa ma il mondo intiero.
 
II
 
l governi nazionali riscoprono l’Europa
Nella loro attività politica corrente i nostri governi nazionali reagiscono ai problemi e alle difficoltà, che abbiamo ora delineato, irrigidendo la propria politica di restaurazione nazionale. Tuttavia la coscienza delle impasses nelle quali essi si sentono spinti ogni giorno di più, li costringe a ricominciare a mettersi alla ricerca di una politica europea, a meditare sull’utilità di un nuovo rilancio europeo. Naturalmente i progetti in corso di elaborazione sono al livello delle capacità dei nostri governi. Ancora una volta essi si preparano a intraprendere delle iniziative la cui apparenza sia l’Europa, la realtà sia la conservazione delle sovranità nazionali. Per rendersene conto basta dare una occhiata alle proposizioni conosciute sotto il nome di Piano Wigny, che sono state sottoposte dal ministro belga ai Consiglio dei ministri delle Comunità e che si trova ora allo studio delle cancellerie. Esse possono essere riassunte così:
1) Creazione di un comitato di collegamento tra i tre cosiddetti Esecutivi delle Comunità.
2) Riconoscimento della qualità di «pre-Consiglio» alle riunioni dei ministri tecnici che hanno sostituito a poco a poco il Consiglio dei ministri nazionali ufficiali delle Comunità, e che prendono praticamente tutte le decisioni.
3) Accelerazione del processo d’abolizione dei diritti doganali tra i 6 paesi e orientamento decisamente libero-scambista del commercio estero della Comunità.
4) Armonizzazione delle politiche estere dei sei paesi mediante riunione periodiche dei Ministri degli Esteri.
5) Creazione d’associazioni tra la Comunità e delle «zone» di paesi sottosviluppati, su base paritetica, in modo che tutti i paesi europei contribuiscano e che i paesi beneficiari, essendo essi stessi associati, e trovandosi di fronte la «zona» europea invece delle antiche metropoli coloniali, non abbiano niente da temere per la loro indipendenza.
6) Elezione diretta dell’Assemblea Parlamentare Europea entro due o tre anni.
Benché certi ambienti sedicenti europei comincino già ad andare in estasi davanti a queste proposizioni — e ci basti rinviare a questo proposito all’ultimo Congresso della tedesca Europa Union — la nostra critica non può essere che severa. Esaminando ciascuno di questi progetti noi possiamo in effetti fare le seguenti constatazioni:
1) Si vorrebbe attenuare quel che vi è d’assurdo nella moltiplicazione degli pseudo-esecutivi europei, ma invece di correggere il loro difetto principale che è la loro mancanza di potere reale, si propongono dei palliativi per la loro malattia secondaria, non si mira affatto ad unificarli, ma ci si contenta di creare ancora un comitato di collegamento tra di essi.
2) Ci si rende conto che i governi nazionali non elaborano alcuna politica economica comune, ma si limitano a incaricare i loro ministri tecnici di ricercare una certa coordinazione fra le politiche nazionali. Ma, invece di proporre la soppressione delle politiche economiche nazionali dei rispettivi ministeri nazionali, si propone di consolidare il metodo della coordinazione, istituzionalizzando le riunioni dei ministri tecnici.
3) Ci si rende conto che l’economia europea esige una integrazione ed una liberalizzazione molto più rapide di quelle considerate dal trattato per il mercato comune. Ma ci si limita a seguire pigramente le tendenze del mercato in un momento di alta congiuntura, proponendo una riduzione del periodo di transizione ed una politica commerciale libero-scambista, senza preoccuparsi in alcun modo di creare il governo che dovrà fare la politica economica, monetaria e commerciale delle Comunità. E questo dopo aver assistito al fallimento della C.E.C.A. al momento della crisi del carbone, dopo aver constatato con quale decisione e con quale energia i governi nazionali si oppongono a una politica economica comune non appena il barometro non è più sul bello stabile.
4) Ci si rende conto che la politica estera dell’Europa è in piena decomposizione nazionalista. Ma, per armonizzarla di nuovo, si arriva all’idea generale di un nuovo consiglio dei ministri nazionali, come se l’esperienza non avesse abbondantemente provato che l’ostacolo a una politica comune è precisamente l’esistenza di ministri degli esteri nazionali laddove non dovrebbe esserci che un solo ministro europeo.
5) Si è capito che la politica di assistenza ai paesi sottosviluppati deve fondarsi da una parte su un’Europa unita, e dall’altra su vasti complessi riuniti di paesi ex-coloniali. Ma l’Europa a cui si mira è la Comunità, dove gli Stati nazionali continuano ad essere i padroni, mentre le «zone» di cui si parla sono soltanto destinate a velare, senza correggerlo, lo sbriciolamento politico dell’Africa.
6) Infine si comincia a comprendere che esiste il diritto del popolo europeo di esprimersi come tale, cosa che i governi e i parlamenti nazionali si sono sforzati fino ad oggi di ignorare. La Commissione Dehousse sta preparando un progetto di legge elettorale comune che dovrà essere adottato dagli Stati sotto forma di trattato, e il piano Wigny chiede ai governi di dichiararsi «in via di principio» favorevoli all’elezione diretta dell’assemblea parlamentare. Dal punto di vista europeo questa proposizione è la più importante fra tutte quelle che dovranno costituire il nuovo rilancio. Mentre le altre non escono dal quadro della normale politica «europea» dei nostri governi, e si riducono tutte ad accordi intergovernativi, le elezioni europee introducono un principio nuovo che esce dal quadro della democrazia nazionale, e che è il principio della democrazia europea.
In effetti in ogni democrazia il popolo è chiamato periodicamente alle urne per una delle due seguenti ragioni, e non può esserlo che per esse: o è chiamato a eleggere gli uomini incaricati di fare le leggi e di governare (elezioni politiche), o è chiamato a votare esso stesso l’adozione di una legge (referendum). E’ attraverso questi mezzi che la democrazia fa partecipare il popolo all’elaborazione della volontà politica della comunità, e che assicura il consenso popolare all’amministrazione degli affari pubblici. Volere delle elezioni europee significa dunque riconoscere non soltanto l’esistenza di affari europei comuni, ma anche che essi non possono essere risolti che attraverso metodi democratici dando al popolo europeo il diritto di scegliere direttamente i propri legislatori, e indirettamente i propri governi. Orbene, il progetto Dehousse-Wigny è ancora una, volta, come tutte le altre iniziative governative in materia europea, un tentativo di dare, e nello stesso tempo di riprendere ciò che si dà. Nel momento medesimo in cui si riconosce il diritto del popolo europeo di esprimersi liberamente in quanto tale, ci si assicura infatti che le elezioni europee siano prive di qualsiasi significato. Ciò che si vorrebbe far eleggere dagli europei non è che l’Assemblea parlamentare, un falso parlamento che non ha né potere costituente né legislativo; che non vota le imposte; che non controlla il governo europeo, per la semplice ragione che esso non esiste; che non è dunque che un’assemblea consultiva. In tutta la storia delle democrazie antiche e moderne non si riscontrano mai delle elezioni popolari per un’assemblea consultiva. I nostri governi vogliono, pare, essere i primi a instaurare questa soperchieria: riconoscere la legittimità della democrazia europea e nello stesso tempo esporla al ridicolo dell’impotenza.
 
III
 
La nostra azione
L’esame delle contraddizioni che colpiscono il regime delle sovranità nazionali, e delle incoerenze dei progetti dei governi nazionali, mostra una situazione che abbiamo più volte analizzato e previsto. Non appena il regime giunge a delle «impasses» e a delle crisi, l’alternativa europea riappare e gli uomini della politica nazionale si sforzano nello stesso tempo di adottarla e di soffocarla, poiché vorrebbero sì l’Europa, ma senza perdere nulla dei loro poteri nazionali. E’ in questi momenti e su questi punti critici che noi dobbiamo sapere inserirei e concentrare la nostra azione. Se osserviamo da vicino tutti i progetti europei ufficiali, possiamo constatare senza difficoltà che quello che pone i governi e i parlamenti nazionali di fronte all’alternativa cruciale è quello delle elezioni europee. Essi sono spinti ad ammetterle poiché l’Europa non è in fin dei conti che l’insieme degli europei; ma ammetterle significa per essi abdicare davanti alla democrazia europea. Essi tentano perciò da un lato di rinviarle, dall’altro di dirottarle sul binario morto di un’Assemblea consultiva.
In questa situazione il C.P.E., colla sua richiesta di un’Assemblea Costituente e di referendum per la ratifica della costituzione, colle sue elezioni primarie, colle sue assise, acquista un’attualità ed un’importanza politica decisive per l’avvenire dell’Europa. Se gli uomini della politica nazionale pensano alle elezioni europee malgrado il corso sempre più nazionale della politica ufficiale dei nostri Stati, ciò dimostra la persistenza di una cattiva coscienza, che obbliga a pensare alla necessità di una democrazia europea. E’ nostro dovere contribuire a che essa si trasformi in una capitolazione di fronte ai diritti del popolo europeo. Il primo passo è stato compiuto presentando il nostro progetto all’assemblea parlamentare ed ai parlamenti nazionali. In questa occasione abbiamo potuto constatare quanta indifferenza e diffidenza dobbiamo ancora vincere. Il secondo passo sarà la ripetizione e la moltiplicazione delle elezioni primarie. Non possiamo che rallegrarci di avere introdotto in Europa questo metodo di agitazione popolare, poiché esso è il solo che ci permette di mobilitare intorno a noi larghi strati popolari e di dare peso politico al Congresso. Riuscire ad ottenere che il Congresso diventi rappresentativo di milioni e milioni di cittadini europei è il solo mezzo di cui disponiamo per obbligare i governi e i parlamenti ad accettare il nostro punto di vista. E’ inoltre il solo mezzo che ci permetterà di presentare il maggior numero possibile di federalisti il giorno in cui delle elezioni politiche europee avranno luogo. Il terzo passo della nostra azione consiste in una pressione metodica che i comitati regionali usciti dalle elezioni primarie devono esercitare sui parlamentari delle loro regioni, sulle municipalità e su tutte le associazioni politiche e sindacali esistenti nelle loro regioni, in modo che l’agitazione per i diritti del popolo europeo diventi permanente.
 
IV
 
Fine della fase sperimentale del C.P.E.
Fino alla sua terza sessione il C.P.E. ha vissuto un periodo per così dire preparatorio e sperimentale, i cui risultati possono essere considerati positivi. Infatti noi possiamo formulare le seguenti constatazioni:
1) Il C.P.E. ha suscitato sulla scena politica un personaggio nuovo: il militante europeo nel senso più stretto del termine, l’uomo che decide di mettere la sua lealtà politica nei confronti del popolo europeo al di sopra di quella dovuta alla sua nazione, e che accetta d’agire politicamente nel suo paese secondo piani e direttive democraticamente elaborate attraverso istanze europee.
2) I militanti del C.P.E. hanno saputo esercitare un’influenza su certe istituzioni e associazioni, interessandole alla loro azione, benché questa non solo non sia stata patrocinata da alcun governo o partito, ma fosse in aperta polemica con in ragione della loro involuzione nazionalista scopetta o velata e del loro europeismo privo di contenuto.
3) Dovunque l’azione del C.P.E. è stata intrapresa, una élite sociale si è prestata a presentarsi nella lista dei candidati per le elezioni primarie, assumendo così la rappresentanza autentica di questa parte del popolo europeo che risponde all’appello del Congresso.
4) Le elezioni primarie del C.P.E., il cui successo è sempre e dovunque stato più che proporzionale ai mezzi impiegati, hanno dimostrato l’esistenza di un capitale di simpatia popolare per l’idea degli Stati Uniti d’Europa e dei diritti del popolo europeo, che era rimasto fino ad allora inutilizzato, e che può essere mobilitato in favore dell’Assemblea Costituente Europea.
5) L’azione del C.P.E. ha esercitato un’influenza decisiva sulla più importante delle organizzazioni europee tradizionali. L’Union Européenne des Fédéralistes (U.E.F.) ha deciso di trasformarsi in movimento federalista europeo unitario (M.F.E.), e deciderà certamente, nelle prossime settimane, di impegnarsi a fondo per l’allargamento e l’approfondimento dell’azione del Congresso. Non sarà che grazie a questa decisione del M.F.E. che il Congresso potrà completare il gran balzo in avanti che la situazione politica attuale esige.
Nel luglio 1956, quando una trentina di federalisti decisero a Stresa di intraprendere questa azione, ciascuna di queste cinque constatazioni non era che una speranza. Oggi, a tre anni e mezzo di distanza, uomini, metodi e strumenti d’azione e possibilità sono presenti. Se noi lo vogliamo seriamente possiamo uscire dalla fase sperimentale, e costruire una vera forza politica europea.
 
RISOLUZIONE GENERALE
La terza sessione del Congresso del Popolo Europeo, riunita a Darmstadt dal 4 al 6 dicembre 1959,
deplora l’incoscienza con la quale gli Stati democratici d’Europa, in un mondo che li sorpassa e che continuerà necessariamente ad umiliarli, si avviano giorno per giorno verso politiche che non hanno altra prospettiva che quella degli egoismi nazionali,
denuncia l’assurda pretesa, che periodicamente riappare, di raggiungere l’unità dell’Europa con degli incontri di ministri nazionali, con Assemblee impotenti dette europee, con semplici riduzioni di barriere doganali,
protesta contro il rifiuto sistematico che si pone al Popolo Europeo di decidere lui stesso del suo destino,
approva che il Comitato Permanente abbia presentato ai parlamenti nazionali una petizione europea che chiede la convocazione di una Assemblea Costituente Europea,
impegna il Movimento Federalista Europeo ad intervenire con tutte le sue forze nella battaglia che il Congresso del Popolo Europeo conduce da più di due anni,
e dà mandato al Comitato Permanente di prendere tutte le misure in vista di: 1) accentuare, conformemente alle decisioni prese a Lione durante la seconda sessione del Congresso, la nostra opposizione alla involuzione nazionalista delle forze che governano i nostri Stati;
2) moltiplicare e rinnovare, in collaborazione più stretta con il Movimento Federalista Europeo, le elezioni primarie, al fine di dare una più larga base popolare alle nostre rivendicazioni;
3) intervenire presso tutti i parlamentari perché si impegnino a sostenere la convocazione della Costituente europea;
4) preparare le forze federaliste alla partecipazione diretta e massiccia alle elezioni politiche europee, il giorno in cui esse avranno luogo.
 
RISOLUZIONE SULLA SITUAZIONE SPAGNOLA
I delegati eletti del Congresso del Popolo Europeo, riuniti a Darmstadt il 4, 5, 6 dicembre 1959 per la loro terza sessione,
constatando che a quattordici anni dalla fine della guerra mondiale e a venti dalla fine della guerra civile in Spagna:
la Penisola Iberica tutta intera si trova privata dei diritti politici che tutti gli Stati civili accordano ai loro cittadini,
e che inoltre, la Catalogna e le Provincie Basche sono private dei più elementari diritti, che in particolare riguardano il libero uso, delle loro lingue al di fuori dell’ambito familiare,
esprimono la loro solidarietà ai popoli della Penisola Iberica, così ammirevoli nella loro lotta contro una ridicola tirannia,
si propongono di mettere in opera tutti i mezzi di cui di spongono per venir loro in aiuto,
e li invitano ad associarsi a loro, nella misura in cui lo possono fare, per l’edificazione di una Europa federata che sola permetterà loro di ristabilire le loro tradizionali istituzioni democratiche e l’esercizio dei più elementari diritti umani.
 
RISOLUZIONE SUL SUD-TIROLO (ALTO ADIGE)
(Su proposta dei delegati austriaci e italiani alla III sessione del C.P.E.)
Avendo constatato che da una parte e dall’altra delle due frontiere politiche che separano i due Stati nazionali, l’Austria e l’Italia, persistono delle incomprensioni che sono l’eredità delle rivalità del passato, e la fonte della intolleranza e dei litigi tra i due popoli,
affermano la loro convinzione che la sola soluzione futura possibile non consiste nella revisione delle frontiere, ma nella loro abolizione nel quadro della federazione europea, nella salvaguardia dei diritti dei gruppi etnici originari.
Solo in questa maniera le minoranze nazionali potranno partecipare alla vita democratica di un’Europa federale.

 

 

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