IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LIII, 2011, Numero 2, Pagina 120

 

 

UN’ITALIA FEDERALE
IN UN’EUROPA FEDERALE
 
Il federalismo a 150 anni dall’unità italiana
e dopo 60 anni di integrazione europea*
 
 
 
Mario Draghi, nelle sue ultime Considerazioni finali dello scorso maggio, ha ricordato che il deficit di bilancio dell’area dell’euro dovrebbe attestarsi attorno al 4,5% del PIL, meno della metà di quello statunitense e giapponese; ed anche il debito pubblico, pari all’88% del PIL è inferiore a quello statunitense e lontano dai valori giapponesi. Il saldo corrente della bilancia dei pagamenti è pressoché in pareggio e la ripresa economica si sta consolidando, con una crescita non lontana dal 2%. L’euro si trova tuttavia di fronte alla più difficile prova dalla sua creazione.
La crisi globale ha infatti portato alla luce alcune debolezze nella costruzione dell’Unione europea ed il mercato ha preso atto che gli Stati europei, come ha acutamente osservato Paul De Grauwe, non sono più “Stati sovrani” ma non sono ancora Stati pienamente “federati”.
Per analogia si può aggiungere che anche l’Italia si trova in una situazione particolare. Non è più uno Stato unitario ma non è ancora uno “Stato federale”. Non si può stare a lungo in mezzo al guado.
Il nuovo millennio ha infatti posto l’Europa e l’Italia di fronte alla sfida, ineludibile, di completare la transizione in corso facendo il “salto federale” per riprendere il sentiero dello sviluppo economico e sociale o regredire imboccando la via dell’emarginazione dal centro dello sviluppo mondiale e dell’impotenza tipica degli Stati in declino.
Vi è ormai una diffusa coscienza sul passo da compiere, sia in Italia che in Europa, ma non è chiara la via da percorrere, data la difficoltà di tradurre in istituzioni adeguate le nuove forme di solidarietà sottintese dalla scelta federalista.
Mario Albertini ha dedicato tutta la sua azione politica ed il suo impegno di studioso al federalismo, consegnandoci un inestimabile patrimonio intellettuale ma anche due grandi obiettivi, raggiunti grazie alla sua guida per molti anni dell’Unione europea dei federalisti, quali l’elezione diretta del Parlamento europeo e l’istituzione della Banca centrale europea. Un lungo tratto di strada è stato così compiuto ma, come è noto, l’ultimo metro è il più difficile ed il mancato raggiungimento del traguardo federale vanificherebbe l’opera fatta sinora.
Il modello federale classico, realizzato dagli Stati Uniti d’America, si fondava su due livelli di governo, l’Unione e gli Stati, indipendenti ma coordinati, secondo la celebre formulazione di K.C. Wheare. In Europa si sta cercando una via evolutiva che porta ad attuare un sistema federale articolato su più livelli, dal comune, alla regione, allo Stato, all’Unione europea: non è un caso se la Germania è lo Stato europeo che meglio ha reagito alla crisi, forte del suo modello federale basato sull’economia sociale di mercato. Il Trattato sull’Unione europea, firmato a Lisbona, ripropone a livello europeo molti aspetti dell’esperienza tedesca di questo dopoguerra.
L’Europa deve oggi dimostrare ai suoi cittadini — oltre mezzo miliardo — che è in grado di farli partecipare al futuro sistema mondiale alla pari delle altre grandi federazioni come gli Stati Uniti, l’India, il Brasile, la Russia, e ovviamente la Cina.
Il compito immediato dell’Europa è quello di realizzare pienamente gli obiettivi dell’articolo 3 del Trattato di Lisbona che impegna l’Unione “ad adoperarsi per lo sviluppo sostenibile, basato sulla crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale fortemente competitiva che mira alla piena occupazione ed al progresso sociale”.
Un radicale cambiamento del bilancio europeo è la condizione per attivare un grande piano comune europeo nella ricerca, nell’energia, nelle infrastrutture secondo l’insegnamento di Jean Monnet che con il progetto della CECA rilanciò l’economia europea distrutta dalla guerra: Delors lo chiese non appena fu varato l’euro.
Il bilancio dell’Unione è strutturalmente destinato a favorire gli investimenti e può consentire grandi risultati con risorse limitate. Nel 1910 il bilancio federale americano era pari al 2% del PIL e consentì di far funzionare gli Stati Uniti — come federazione leggera — sino a quando non fu necessario il coinvolgimento nella Prima guerra mondiale. Mettere in comune una limitata quota di risorse è oggi indispensabile.
Il “costo della non-Europa” grava oggi su tutti i cittadini europei ed in particolare sui più giovani, a cui viene negata ogni possibilità di sviluppo. Senza uno sforzo comune nei campi indicati nel piano Delors si sprecheranno ingenti risorse in velleitari piani nazionali: questa è la sfida che bisogna lanciare a chi pensa che, rinchiudendosi, possa salvarsi.
Se l’Europa adotterà la proposta del rapporto “Europa per lo sviluppo. Per un cambio nel finanziamento dell’Unione europea” presentato nei mesi scorsi da tre parlamentari europei: Haugh, Lamassoure e Verhofstadt — esponenti delle principali forze politiche presenti a Strasburgo — la possibilità di un new deal europeo diventerà concreta e porrà le condizioni per uno sforzo comune dei diversi attori dell’economia europea, dalle imprese ai lavoratori, alle istituzioni finanziarie. I progetti di emissione di Union bonds e l’istituzione di fondi sovrani europei diventeranno fattibili.
L’Europa è oggi presentata da molti come la matrigna che chiede ai suoi cittadini solo sacrifici ma non dà nulla in cambio. Il Parlamento europeo ha tentato più volte di rompere questo schema. Il Presidente Lamassoure già da tempo ha proposto che un grande dibattito sul ruolo dell’Unione e degli Stati membri sia organizzato dal Parlamento europeo insieme ai parlamenti nazionali ove sia possibile conciliare il necessario rigore da perseguire a livello nazionale con il più efficace intervento comune europeo per lo sviluppo. Le Assise parlamentari tenutesi a Roma nel 1990 portarono alla convergenza tra PE e parlamenti nazionali sul futuro trattato sull’unione monetaria, approvato poco tempo dopo a Maastricht.
Vi è tuttavia un nesso ancor più profondo tra realizzazione del federalismo e rilancio dell’economia; un nesso individuato con lucidità da Albertini, che nel suo rapporto al congresso di Cagliari del 1984 indicava come “l’importanza dell’autonomia dei diversi livelli di governo, che è alla base del sistema federale, emerge se si considera il problema dell’occupazione che non è più solo un problema economico. Il mercato lasciato a se stesso non risolverà mai il problema dell’occupazione perché essendo possibile lo sviluppo della domanda solo sul terreno dei beni naturali, dei beni culturali e dei beni di protezione sociale è chiaro che il mercato non attiva questa domanda che si manifesta a livello del quartiere, del comune, delle regioni, dello Stato, dell’Europa”. Senza un compiuto sistema federale delle preferenze si può solo agire per via burocratica e corporativa ed è impossibile acquisire l’indispensabile consenso dei cittadini a partecipare al finanziamento comune necessario per offrire i beni pubblici richiesti. Il modello scandinavo di cui spesso si parla è una prima risposta al quesito posto da Albertini.
L’Europa si può costruire mettendo in comune le migliori esperienze: è stata costruita in gran parte sulla grande tradizione statale francese, arricchita dall’esperienza tedesca, allargata al modello sociale nordico.
L’Italia, da Spinelli ad Einaudi, ha tracciato la via federalista ed ha oggi la responsabilità dell’iniziativa: tocca in primo luogo al parlamento italiano accogliere e sostenere l’iniziativa del Parlamento europeo.
Dopo Lisbona la responsabilità dell’iniziativa grava anche sui cittadini europei: l’articolo 11 del Trattato ha riconosciuto il diritto di iniziativa legislativa, se presentata da almeno un milione di cittadini. E’ un diritto che può consentire di affiancare l’azione parlamentare e spingere la Commissione europea ed i governi, almeno quelli dell’Eurogruppo, ad agire.


* Si tratta dell’introduzione svolta da Alfonso Iozzo al Convegno omonimo, tenutosi a Milano il 1° luglio 2011, organizzato dalla Fondazione Mario e Valeria Albertini in collaborazione con IntesaSan Paolo.

 

 

 

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