IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno II, 1960, Numero 2, Pagina 111

 

 

LA DECOMPOSIZIONE DELLA DEMOCRAZIA
 
 
Nell’Europa occidentale i segni di decomposizione della democrazia aumentano di numero e di gravità. La Francia è divenuta ingovernabile persino con la costituzione della Quinta Repubblica. Per parare il colpo vibrato ad Algeri dall’estrema destra De Gaulle non ha potuto sfruttare le forze democratiche di centro e di sinistra, ma ha dovuto invece assumere i pieni poteri e ridurre a zero la già scarsa libertà d’azione del Parlamento, e perciò dei partiti. Il sistema dei partiti, d’altra parte, si sta liquefacendo. Sulla attuale piattaforma politica, determinata dal problema algerino, la parte della classe politica che appoggia De Gaulle non trova alcuna fisionomia politica e si mantiene solo in quanto lo appoggia (è De Gaulle che rende forti i gaullisti e non viceversa); e la parte della classe politica che gli si oppone non trae alcun rafforzamento dall’opposizione perché non è in grado di creare una alternativa. In tale crescente vuoto politico, l’opinione pubblica si abitua sempre più a disprezzare i partiti e le istituzioni, vale a dire la democrazia, mentre l’esercito resta il vero arbitro del paese.
In un modo per ora meno grave, la stessa tendenza ha corso in Germania. Chi guarda soltanto alle apparenze pensa addirittura che la Germania occidentale abbia realizzato un sistema bipartitico di tipo anglosassone. Se ciò fosse vero tutte le energie politiche — della classe politica, dei quadri intermedi e della opinione pubblica — sarebbero permanentemente mobilitate, avrebbero una influenza reale sul potere politico, e sarebbero pronte a reagire di fronte ai pericoli e alle occasioni. In realtà in Germania perdura il vuoto politico nel quale, durante il regime di occupazione militare, è stata costruita la Repubblica Federale, e il paese rimane inerte anche di fronte ad eventi che dovrebbero allarmarlo perché mettono in evidenza le debolezze della vita democratica tedesca. Non si tratta tanto delle poche svastiche disegnate nottetempo sui muri delle città tedesche quanto delle recenti trattative militari tra Franco ed Adenauer. Adenauer, spinto dal fatto che se c’è un esercito bisogna usarlo nel modo più conveniente, è giunto a far prevalere le esigenze della potenza militare su quelle della discriminante democratica.
Si può considerare tragico il fatto che Adenauer, che non voleva la ricostruzione dell’esercito nazionale tedesco perché ne temeva le conseguenze, risulti implicato proprio nelle conseguenze politiche che tentò di evitare; come si può, forse a più giusta ragione, considerare colpevole nelle presenti circostanze la permanenza al potere del vecchio uomo politico, incapace di tirarsi in disparte per indicare ai tedeschi un altro cammino. In ogni modo anche in Germania il vecchio regime degli Stati nazionali mette di nuovo in azione le tossine nazionaliste e militariste che hanno sempre impedito l’affermazione profonda della democrazia nell’Europa continentale.
L’Italia, nel suo modo buffo, segue la stessa china. La manifestazione più chiara della situazione italiana è il grido di dolore di Merzagora: «Un’atmosfera di corruzione pesa sulla vita politica italiana… la tacita e reciproca rassegnazione, che si è creata fra, i diversi settori politici, turba la coscienza mia e della maggioranza dei colleghi di ogni parte, i quali soffrono in silenzio, come di fronte ad una inevitabile ed inarrestabile pestilenza». E’ un fatto che il grido di dolore del Presidente del Senato riflette il vero. La vita politica italiana, fatta a metà di impotenza ed a metà di scandali presenta veramente, dietro il verbalismo ottocentesco della sua messa in scena, una «tacita e reciproca rassegnazione dei diversi settori politici», e produce davvero il curioso spettacolo di parlamentari i quali, a causa di tale «rassegnazione», invece di agire si limitano a «soffrire in silenzio». Naturalmente il compito dei deputati e dei senatori, nessuno escluso, non sarebbe quello di soffrire in silenzio. Quando, come candidati, chiesero il voto dei cittadini, essi avevano una idea ben diversa del loro mandato, e promisero che avrebbero edificato il socialismo, realizzato una società cristiana, spazzato via la corruzione e via dicendo. E non basta. I parlamentari italiani non stanno sempre zitti. Tanto a destra quanto al centro quanto a sinistra essi si tirano in disparte quando qualcosa puzza, ma per il resto parlano, e parlano precisamente di quei mali della società italiana che, quando si manifestano in pieno, costringono il loro verginale animo al silenzio. Purtroppo, quando riescono a parlarne, lo fanno soltanto per gettare le colpe della situazione sul partito avverso e per presentare il proprio come il toccasana. Orbene, se tali toccasana ci fossero avrebbero funzionato. Ma allora il clima politico sarebbe sano, e non ci sarebbe il grave declino della vita politica italiana dalla civiltà della Resistenza alla «pestilenza» attuale. In realtà i partiti che pretendono oggi di avere la soluzione per tutti i mali sono gli stessi che li hanno prodotti. Essi controllano da diciassette anni la situazione di potere italiana, essi l’hanno portata al marasma attuale. La responsabilità riguarda tanto coloro che hanno sempre governato e hanno evidentemente indirizzato male il paese, quanto coloro che si sono sempre opposti ed hanno così dimostrato di non saper presentare un indirizzo positivo, di non costituire una alternativa. Il compito dei partiti è di fare politica, di tenere o minacciare il potere, di ottenere risultati, non quello di lamentarsi e di gridare «governo ladro!». Per gridare «governo ladro!» bastano i cittadini. Il qualunquismo progredisce in Italia per colpa dei partiti che fanno cattiva politica, e non per colpa dei cittadini. Naturalmente attraverso il qualunquismo generato da una lotta politica ridicola risorgono, nel modo buffo italiano, i miti autoritari.
La considerazione obiettiva di queste situazioni porta ad una diagnosi indiscutibile. Le politiche postbelliche della Francia, della Germania e dell’Italia stanno decomponendo la volontà democratica della classe politica e dell’opinione pubblica. I fatti che provano questa affermazione stanno di fronte agli occhi di tutti, e producono dappertutto la stessa sfiducia negli istituti democratici e lo stesso disprezzo per la politica. Bisogna dunque chiedersi se esistono alternative francesi, tedesche ed italiane al corso politico postbellico che siano tali da ridare slancio alla volontà democratica. In Francia una alternativa francese di tal genere non esiste. C’è tuttavia chi pensa che la Francia perderà l’Algeria, si libererà così sia di De Gaulle sia del complesso della grandezza, e tornerà pertanto come se nulla fosse stato al parlamentarismo della Terza e della Quarta Repubblica. Secondo questa prospettiva la Francia, persi per forza maggiore i grossi problemi e quindi le ambizioni di grande potenza, ridiventerà democratica, sia pure mediante il vecchio opportunismo. In primo luogo, si tratta di conti senza l’oste, cioè senza l’esercito. In secondo luogo, e soprattutto, si tratta di una prospettiva completamente irreale. I grossi problemi non stanno soltanto in Algeria. La Quarta Repubblica è caduta sul problema algerino, ma, indipendentemente da ciò, subiva da tempo lo stesso lento processo di decomposizione della democrazia che si verifica in Germania ed in Italia. Il fatto è spiegabile. E’ finito il sistema europeo degli Stati nel quale la Francia era una grande potenza e poteva perciò smaltire facilmente gli errori ed i difetti del suo opportunismo parlamentare, vale a dire del suo barocco sistema politico. La Terza Repubblica resse proprio perché la Francia era forte; la Quarta, con lo stesso sistema politico, è caduta perché la Francia è ormai debole. C’è da stupirsene? Il sistema mondiale degli Stati, che dopo la fine della seconda guerra mondiale ha completamente sostituito il vecchio sistema europeo, ha ridotto la Francia alla posizione di uno Stato di secondo ordine, e ha reso debole il potere politico francese proprio in un’epoca nella quale le difficoltà aumentano costantemente. I problemi dello sviluppo dell’equilibrio mondiale, e la veloce trasformazione della società per opera della scienza e della tecnica, conducono a scelte politiche che un sistema di governo come quello della Quarta Repubblica non sarebbe certamente in grado di affrontare. Del resto in nome di chi tale governo potrebbe prospettare i compiti del futuro ed imporre scelte di questo genere? In nome di una Francia palesemente superata come dimensione economica e come potenza politica, una Francia alla quale tutti prestano un rigido ossequio formale nel rituale politico ma alla quale nessuno crede più?
Anche in Germania una seria alternativa democratica tedesca non esiste. In Germania la vera alternativa ad Adenauer non è l’opposizione democratica, cioè la socialdemocrazia; ma Erhard, vale a dire un compagno di partito di Adenauer. Questo fatto conferma che il bipartitismo tedesco è apparente, e mette in evidenza il nullismo della socialdemocrazia, che non ha mai saputo elaborare una politica seria, e si limita ormai in effetti a proporre in ritardo l’alternativa permanentemente incarnata da Erhard: il nazionalismo politico e l’«economia sociale di mercato». Il fatto che l’alternativa politica tedesca sia di nuovo il nazionalismo (che si riforma fatalmente perché corrisponde alla evoluzione della situazione di potere tedesca dopo la restituzione della sovranità assoluta e dell’esercito nazionale), e la circostanza che a tale sviluppo del nazionalismo si accompagni il girare a vuoto del sistema dei partiti, ricreano alcuni dati fondamentali della politica nazionale tedesca che non potranno più minacciare il mondo come una volta, ma non potranno certo sorreggere un positivo sviluppo democratico.
In Italia apparentemente c’è più libertà di manovra. Molti italiani guardano a sinistra, sperano nella «alternativa democratica», e credono che in tal modo si potrà invertire l’indirizzo politico sinora dominante. Le ultime cose che muoiono sono veramente le illusioni. Non occorre infatti molto sforzo per comprendere che un radicale mutamento del corso politico italiano richiederebbe la partecipazione dei comunisti al governo, e per rendersi conto che tale partecipazione è in ogni modo impossibile per l’incompatibilità di democrazia e di comunismo (la distensione nell’equilibrio mondiale non significa affatto la fine di questa incompatibilità, ma soltanto l’inizio del fair play tra le due massime potenze). E basta prendere atto di ciò che sta accadendo per apprezzare la portata della «apertura a sinistra», ossia per prevedere che cosa farebbe un eventuale governo democratico-cristiano sostenuto in un modo o nell’altro da Nenni. L’operazione si sta tentando mentre scriviamo. Il modo di condurla, ed il ridicolo programma richiesto da Nenni per provare che si tratterrebbe effettivamente di una svolta,[1] mostrano che questo mutamento, tanto atteso, lascerebbe le cose importanti come sono, e introdurrebbe semplicemente un po’ più di disordine nella vita statale italiana. In realtà in Italia sono possibili diversi pasticci ed alcune combinazioni, ma non ci sono alternative serie. Avremo quindi anche in futuro governi come quelli attuali, che non consentono una chiara demarcazione tra democrazia ed antidemocrazia; governi deboli, incapaci di imporre a tutti i sezionalismi del paese una efficace ed autonoma mediazione politica perché privi di appoggio nell’opinione pubblica e sgraditi alla stessa classe politica che dovrà sostenerli.
Questa è la situazione della Francia, della Germania e dell’Italia. Pessimi governi, e nulla di serio sul fronte delle opposizioni nazionali. Da una parte e dall’altra lo stesso lento processo di decomposizione della democrazia. Questa costatazione ci costringe a spostare la visuale, ed a prendere in esame non soltanto lo schieramento dei partiti, come si fa normalmente, ma la situazione stessa degli Stati.
Se non si può fare una politica efficace né a destra né a sinistra, se i cattivi governi non generano le buone opposizioni, se non si danno vere alternative, il guasto non riguarda tanto i partiti quanto gli Stati. In realtà gli Stati nazionali europei, edificati in epoca preindustriale e superati dalle grandi potenze continentali, hanno perso le loro funzioni positive, ed è pertanto completamente assurda la pretesa di usarli per risolvere i problemi del nostro tempo. Singolarmente presi questi Stati non contano quasi nulla nell’equilibrio mondiale, non possono più effettuare né una politica estera positiva né una politica militare indipendente, e non riescono più a controllare il processo economico che, per la generale debolezza dei poteri politici, si è spezzettato in un sistema anarchico di mercati locali, nazionali e supernazionali. Dovrebbe pertanto risultare ovvio che nessuna politica efficace può riuscire nel quadro nazionale; e dovrebbe riuscire altrettanto ovvio che l’unica alternativa positiva alla decomposizione della democrazia sta nella fondazione degli Stati Uniti d’Europa, per il semplice fatto che un potere federale europeo sarebbe in grado di risolvere i gravi problemi internazionali, economici e sociali che gli europei devono, bene o male, affrontare.
Ma le cose evidenti sono talvolta le più difficili da capire. Che gli Stati nazionali europei siano strumentalmente inadeguati è una idea condivisa dalla maggior parte degli europei. Però, nonostante tale diffusa convinzione, quando gli europei si occupano del «che fare» politico, pensano la politica estera, la politica economica e così via soltanto in termini nazionali, e manifestano pertanto una specie di schizofrenia politica: con una parte del loro cervello ritengono che i nostri Stati siano relitti del passato, e con l’altra pretendono di usare questi relitti per risolvere i gravi problemi della nostra epoca. In ultima analisi il problema della democrazia in Europa è quello del superamento di tale schizofrenia, che tiene inutilmente impegnati gli europei nei singoli campi nazionali, ed impedisce loro di battersi sull’unico terreno risolutivo: quello europeo.
 
Mario Albertini


[1] Come è noto tali richieste riguardano: le regioni, la nazionalizzazione dell’energia elettrica e la scuola. Si tratta di tre alibi ai veri problemi della democratizzazione, della politica economica generale ed in particolare dell’energia (che non stanno più a livello italiano), e della eliminazione del distacco Nord-Sud, senza del quale qualunque riforma scolastica resterà impotente.

 

 

 

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