IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno II, 1960, Numero 6, Pagina 331

 

 

LA «FORCE DE DISSUASION» FRANCESE
 
 
La decisione del governo francese di dotare la Francia di una force de dissuasion atomica nazionale non è che una manifestazione della crisi dello Stato francese, e può essere intesa e valutata solo in questo quadro. In una rivista federalista possiamo dare per scontata la conoscenza dei fattori permanenti, storici, della crisi dello Stato francese come degli altri Stati europei, e limitarci a ricordare che la dislocazione di potenza dagli Stati europei agli U.S.A. e all’U.R.S.S., pur corrispondendo ad un luogo comune ripetuto da tutti, non è divenuta per alcuna forza politica né un criterio di comprensione del processo politico, né un dato da tener presente nell’elaborazione dei programmi d’azione. In una rivista federalista possiamo dare per scontata anche la conoscenza dei fattori strutturali della debolezza della democrazia francese, fattori che emergono con chiarezza proprio nella letteratura, giunta sino a Lüthy, che inquadra il problema delle radici e delle conseguenze dell’accentramento statale. Nella nostra rivista dobbiamo invece mostrare che la decisione di realizzare una force de dissuasion nazionale è effettivamente la manifestazione di una fase della crisi permanente dello Stato francese e non, come ritengono alcuni, un ritorno della sua vitalità; e dobbiamo inoltre analizzarne il carattere.
Per individuare rapidamente la fase della crisi in questione è utile partire da un dato di fatto apparentemente lontano — il successo del mercato comune — e dalla messa in evidenza dei fattori che lo spiegano. Il mercato comune va bene anche se i politici nazionali non sanno affatto perché va bene. Lo sforzo teorico e pratico della classe politica al governo o all’opposizione nei sei paesi riguarda quasi esclusivamente — si dovrebbe dire esclusivamente — il controllo dei poteri nazionali. Per la politica europea governanti ed oppositori potrebbero soltanto, all’italiana, invocare lo stellone, dato che essa sembra funzionare bene da se stessa senza che essi se ne occupino seriamente, cosa del resto per loro impossibile perché non hanno alcuna idea fondata su ciò che favorisce, o danneggia, l’unità economica e quella politica dell’Europa, e tanto meno sui rapporti fra tali unificazioni. Conviene dire inoltre che il mercato comune va bene nonostante le previsioni contrarie dei federalisti, gli unici che, sulla scorta di autorevoli opinioni scientifiche da Robbins a Einaudi, l’avevano discusso a fondo e studiato seriamente.
Naturalmente bisogna intendersi sul significato dell’espressione «mercato comune». Nel linguaggio ordinario l’espressione sta per «mercato senza compartimenti stagni», mentre nel linguaggio politico odierno essa si riferisce ad una fase del processo europeo di liberalizzazione degli scambi iniziato col Piano Marshall, e precisamente alla fase che richiese la piattaforma a sei proprio perché non esiste alcuna situazione economica senza una base politica, e la base politica per l’approfondimento del processo di liberalizzazione degli scambi c’era soltanto fra i sei paesi del Continente. In ogni modo, anche entro questi limiti, il mercato comune è stato sufficiente per dare agli europei, almeno in parte e precariamente, ciò che i federalisti pensavano si potesse raggiungere solo con la federazione: il grande mercato, e le forme moderne di produzione di massa. La liberalizzazione degli scambi non ha affatto eliminato i compartimenti stagni ed i privilegi connessi (basta, ad esempio, tener presente ciò che accade nel settore agricolo) ma ha impedito la formazione di compartimenti stagni nei settori dove il restrizionismo avrebbe arrestato l’espansione: quelli passibili di grande sviluppo tecnologico e di grande concentrazione produttiva a patto di disporre di grandi mercati. Con la liberalizzazione gli europei hanno avuto, sebbene in ritardo rispetto agli U.S.A., la prosperità economica, e così si è rovesciato, rispetto agli americani, il loro stato d’animo dei primi anni del dopoguerra, stato d’animo basato non soltanto sulla contingente povertà postbellica ma anche sulla opinione allora diffusa che tra il 1920 ed il 1940 si fosse creato un incolmabile distacco tra ricchezza americana e povertà europea. Questo dato — il benessere — ne richiama naturalmente altri: in particolare la pace europea e la mancanza di guerre troppo gravose nel mondo a partire dal 1945. L’insieme di questi dati sembra smentire — cosa ben più grave delle previsioni incerte circa i trattati di Roma — la stessa previsione fondamentale dei federalisti. Durante lo sconvolgimento bellico, frutto dello sconvolgimento dell’equilibrio europeo causato dalla sistemazione nazionale dell’Europa, essi avevano formulato per l’avvenire la seguente alternativa: o benessere, pace e libertà con gli Stati Uniti d’Europa o povertà, guerre e dittature con gli Stati Divisi d’Europa, cioè con il vecchio regime nazionale. L’avvenire, divenuto presente, sembra averli smentiti. Senza federazione, e con soli mezzi confederali (dal Consiglio d’Europa alle Comunità a sei) l’Europa ha avuto in realtà benessere, pace e libertà. Ciò che sta accadendo sembra perciò mettere in causa tutta la diagnosi dei federalisti.[1]
Il nostro discorso può ormai parere davvero molto lontano dall’argomento della force de dissuasion ed anche da quello del mercato comune. Ma questi aspetti salienti della situazione globale sono comprensibili, abbiamo detto, solo nel quadro globale. Orbene questo quadro non presenta solo dati positivi. Nonostante il benessere, la pace e la libertà il senso di insicurezza è diffuso, specie tra le élites, mentre tutti avvertono che le basi della vita sociale in Europa sono precarie. In effetti, basta cambiare appena di poco la scena rispetto alle cose già illustrate per scorgere i dati negativi: la guerra in Algeria, la follia nazionalistica a Parigi, l’esaltazione a Berlino, l’oro che fugge dalle casse degli U.S.A., i litigi fra i membri della alleanza atlantica, le difficoltà americane, la paranoia dei dirigenti cinesi, il disordine emergente di continuo ora qui ora là in Africa ed in Asia; e per rendersi così conto della terribile fragilità della ricchezza, della libertà e della pace europea in questo mondo di colossi, di inquietudini e di sommovimenti.
Questa situazione apparentemente assurda, questo indebolimento (politico) attraverso il rafforzamento (economico-sociale), diventano chiaramente comprensibili appena si faccia un raffronto tra la situazione politica del primo dopoguerra e quella del secondo dopoguerra. Nel primo dopoguerra i mercati nazionali si chiusero, isolarono in spazi troppo piccoli i fattori dinamici della produzione, e determinarono una grave battuta d’arresto nel ritmo di sviluppo dell’economia europea: l’Europa, politicamente dominante, si impoverì. Nel secondo dopoguerra invece i mercati nazionali si aprirono liberando i fattori dinamici della produzione i quali, scavalcato il collo di bottiglia delle dimensioni nazionali, hanno potuto utilizzare in parte le risorse della tecnologia moderna e avviare così la rivoluzione oligopolistico-manageriale: l’Europa, politicamente dominata, si è arricchita.
Sarebbe vano cercare la causa di tale altalena nella volontà degli uomini. Il confronto fra queste due situazioni mostra che la diversità nella condotta dei governi europei nel primo e nel secondo caso fu il frutto delle cose, non della volontà umana. Nel primo dopoguerra il liberismo era ancora molto diffuso, e non era ancora stato convertito in protezionismo nazionale dalle mode keynesiane, ma cozzava contro la ragion di Stato. L’Europa, nel primo dopoguerra, era ancora il governo del mondo. La dislocazione di potenza dagli Stati europei agli U.S.A. e all’U.R.S.S. era virtualmente già avvenuta ma il sistema europeo degli Stati controllò ancora per una ventina d’anni il mondo intiero, salvo naturalmente le due gigantesche enclaves russa ed americana, la prima concentrata nell’immenso sforzo della industrializzazione forzata, la seconda impacciata dal tradizionale isolazionismo di carattere insulare. Con questo limite, tra le due guerre la supremazia in Europa corrispose alla supremazia mondiale e la mano libera in Europa alla mano libera nel mondo, un mondo i cui contrasti si risolvevano attraverso le lotte fra gli Stati europei. Per questa ragione il protezionismo economico si impose obiettivamente, e si sviluppò sino ad un grado estremo. Il crescente peso militare dei fattori economici obbligò infatti i governi, in lotta per la supremazia o almeno per l’equilibrio, a controllare il mercato per trasformare l’economia in un mezzo della propria potenza e per evitare di fornire mezzi alla potenza altrui. Anche allora i disastri della guerra avevano prodotto l’europeismo, ed anche allora il suo banco di prova furono i rapporti franco-tedeschi. Ma invece della fondazione della C.E.C.A. ci fu l’occupazione francese della Ruhr.
Nel primo dopoguerra il sistema europeo impose il protezionismo, nel secondo dopoguerra il sistema mondiale impose il liberismo. La fine del sistema europeo distrusse la base politica del protezionismo, e l’avvento del sistema mondiale fornì la base politica della liberalizzazione degli scambi. Da una parte divenne assurda la competizione politica tra la Francia e la Germania e gli altri Stati europei. Il problema della sicurezza non obbligò più a confrontare le risorse di ciascuno Stato europeo rispetto a quelle degli altri, ma quelle del blocco europeo occidentale nel suo insieme rispetto a quelle della Russia staliniana. Non ebbe pertanto più senso usare le risorse economiche francesi, tedesche e via di seguito per accrescere la potenza francese nei confronti di quella tedesca, quella tedesca nei confronti di quella francese e cosi via, e ciò tolse di mezzo gli ostacoli al liberismo internazionale. D’altra parte gli Stati europei, ridotti com’erano alla funzione di semplici satelliti dell’America del Nord, non avevano più la forza necessaria per sostenere una loro politica autonoma e, volenti o nolenti che fossero, si trovarono tutti ad avere un indirizzo globale simile e la stessa politica estera, quella dettata dal governo americano. Questo comune indirizzo fornì la situazione unitaria di potere che sostenne, con le varianti che sappiamo passando dai sei alla Gran Bretagna e agli U.S.A., l’unità economica, cioè l’apertura dei mercati.
Il confronto tra il primo ed il secondo dopoguerra spiega la bivalenza della presente situazione europea. Cosa ancora più importante, questo confronto mostra quali siano le basi politiche del mercato comune: l’eclissi di fatto delle sovranità nazionali in Europa e l’egemonia americana. Orbene, proprio per il relativo rafforzamento degli Stati europei, e il relativo indebolimento degli U.S.A., queste basi cominciano a vacillare. In questo contesto sta la decisione di dotare la Francia di una force de dissuasion autonoma, decisione gravissima proprio perché mina la collaborazione europea ed atlantica, alla quale si collegano i «miracoli» del dopoguerra, e rafforza il nazionalismo al quale dobbiamo tutti i disastri dell’Europa. Per queste ragioni la force de dissuasion francese è cosa molto più grave della stessa guerra di Algerla, che non può durare eternamente e non ha comunque sinora fatto a pezzi la solidarietà europea.
Data la pericolosità di questa decisione francese, conviene innanzitutto tener presente che essa ha radici obiettive. Il suo fondamento sta nella prima grossa modificazione intervenuta nell’appena sorto sistema mondiale, modificazione messa in vista da tempo sia dai federalisti che dai revisionisti della politica atlantica, come ad esempio il Kennan, e consistente nell’aumento di potere delle «potenze intermedie». Chi attribuisce la force de dissuasion al solo orgoglio di De Gaulle tenga conto dei fatti seguenti: a) gli U.S.A. si sono rivelati incapaci militarmente e finanziariamente di sostenere da soli lo sforzo difensivo e competitivo dell’Occidente, e chiedono in modo sempre più pressante agli europei di addossarsi la loro parte di responsabilità mediante contributi più seri alla difesa comune ed al comune aiuto ai paesi sottosviluppati, b) questo maggiore sforzo difensivo non si fa conservando i vecchi armamenti degli eserciti ma rammodernandoli, fatto che comporta l’armamento atomico. Debré ha perfettamente ragione quando dice che la scelta non è fra force de dissuasion ed armamento convenzionale, ma fra un esercito antiquato ed inutile ed un esercito moderno, utile (e parzialmente quando afferma che la scelta militare tra esercito atomico o no è ipso facto la scelta tra una società francese scientificamente progressiva o scientificamente statica), c) la force de dissuasion atlantica del progetto Norstad è una utopia. In tal caso qualcuno, che non potrebbe essere evidentemente un consesso di Stati sovrani, dovrebbe avere il potere di decidere del suo impiego con la necessaria rapidità. Questo qualcuno non potrebbe essere che un generale americano ma è impensabile che i governi europei, che hanno ritrovato un po’ di potere ed ai quali gli stessi americani si rivolgono per essere aiutati, siano disposti a mettere nelle mani di un generale americano, con evidenza maggiore che nel passato, la loro difesa.
Questi fatti mostrano quali siano le spinte, e quali le risposte possibili, della nuova bilancia del potere. In realtà ciò che è accaduto doveva accadere, e tale corso di cose continuerà coinvolgendo anche altri Stati, ivi compresa la Germania occidentale. Non per nulla i parlamentari francesi, con lagrime da coccodrillo, hanno rimpianto la C.E.D.[2] A questo punto del discorso costatata la irreversibilità e la fatalità di tale corso di cose, conviene analizzarne il carattere. Bastano poche considerazioni per mostrare che l’aumento di potere degli Stati europei si risolve in un aggravamento della loro crisi ed in un peggioramento della situazione mondiale (a questo proposito appare giusta la previsione dei federalisti, e sbagliata quella dei revisionisti americani che si attendevano, dall’aumento di potere delle «potenze intermedie», maggiori possibilità di distensione).[3] I fatti non sembrano dubbi. Abbiamo già detto che la force de dissuasion francese altera la piattaforma tradizionale della collaborazione europea ed atlantica. Non ci resta che mettere in evidenza la conseguenza più importante: l’allentamento dell’intesa De Gaulle-Adenauer, ed il conseguente indebolimento dell’europeismo a sei, dimostrato dal fatto che proprio Adenauer ha dovuto rivolgersi a MacMillan per parare i colpi che gli vengono da De Gaulle e dalle diffuse ripercussioni nazionalistiche della sua force de dissuasion. In queste conseguenze, e non nel fatto in se stesso, sta la follia di De Gaulle e di Debré.
Sappiamo che cosa era l’europeismo a sei, e sappiamo che la sua sostituzione col generico europeismo allargato al Regno Unito non può dare gli stessi frutti perché questo europeismo allargato ha retto proprio sul pilastro del ben più solido europeismo a sei (e chi ne dubita ancora pensi a che cosa è servita la sostituzione della C.E.D. con l’U.E.O., e quali sono stati invece i risultati dei trattati di Roma). Bastano questi dati per stabilire che la force de dissuasion è effettivamente una manifestazione dell’aggravamento della crisi dello Stato francese e del peggioramento della situazione europea perché è certo — anche se molti pensano il contrario — che la forza dell’Occidente europeo continentale non sta più nella potenza — comunque ridicola anche se in leggero aumento — degli Stati europei singolarmente presi, ma nella loro unità. E’ questa unità che ha costituito, nel recente passato, la loro forza reale. Ogni cosa che la minaccia comporta perciò la minaccia della dissoluzione stessa del potere in Europa. In realtà si procede verso il caos. La Francia, a costo di minare le basi della solidarietà franco-tedesca e dell’europeismo, decide di provvedere da sé alla sua difesa e nel frattempo non può non concedere basi francesi ai soldati ed agli areoplani tedeschi. La confusione non potrebbe essere maggiore.
 
Mario Albertini


[1] A questo proposito va notato che la diagnosi federalista fu l’unica diagnosi del dopoguerra sulla situazione e sulle prospettive degli Stati europei. I partiti nazionali, indifferenti al mondo delle cose reali, hanno coltivato soltanto le vecchie dispute teologiche sulle proprie ed altrui ideologie, e sono andati dove il mondo li ha spinti senza nemmeno sapere che cosa accadeva, come mostra il fatto che ogni tanto si svegliano dai fumi ideologici, si stupiscono di quel che il mondo è devenuto, e poi tornano nel loro letargo o si adeguano vilmente alla «realtà». Profittiamo della nota per chiarire quali furono precisamente le previsioni dei federalisti sul mercato comune. Essi in realtà dissero che i trattati di Roma avrebbero potuto anche permettere una fase ulteriore della liberalizzazione in Europa ma che non avevano nulla a che fare con l’unificazione politica. Da questo punto di vista i federalisti non si sbagliarono, ma omisero però, come risulta oggi, di valutare pienamente le conseguenze dell’approfondimento della liberalizzazione degli scambi.
[2] A proposito delle ripercussioni sul parlamento francese della force de dissuasion, e sull’avvenuta ricomposizione di un fronte europeista, premesso che Debré ricordò agli europeisti che la decisione di realizzare la bomba A venne da loro, notiamo: a) che l’europeismo non costituisce una alternativa, nel caso della difesa, sinché gli europeisti non hanno il coraggio di proporre la costituente, e con essa la fondazione delle istituzioni federali capaci di assumere compiti di difesa europea, b) che questa critica (come quella della soluzione atlantica) è dettata dall’evidenza stessa, per quanto gli europeisti non se ne accorgano. Il generale Challe ad esempio, dopo aver il 4 novembre scorso affermato che senza force de frappe non c’è difesa dell’Europa e che perciò, in assenza di una vera integrazione, la force de frappe francese è necessaria (quella americana è in mani americane, non in mani atlantiche), ha aggiunto: «Les problèmes de l’intégration seront résolus lorsque seront créés les Etats-Unis d’Europe». In definitiva il disagio dei militari francesi non è del tutto campato in aria e, a quanto sembra, basterebbe che la politica divenisse una cosa seria per farli tornare quieti. Notiamo ancora che il rimpianto della C.E.D. suona stranamente nella presente occasione. Certo, se la C.E.D. fosse stata ratificata, e se fosse nata la collegata Comunità politica, oggi non avremmo né i problemi posti dalla force de dissuasion francese, né i rischi del ritorno del nazionalismo. La certezza che allora fu imboccata, per colpa di uomini di sinistra che dicevano di essere per il «progresso sociale», una strada tragica è confermata da quanto, in altra parte della rivista, si dice a proposito dei rapporti fra C.E.D., Comunità Politica ed Eurafrica, rapporti recisi per sempre per lasciare il posto a nazionalismi in Europa e in Africa.
[3] Il fallimento della conferenza al vertice è certamente connesso con l’aumento di potere delle «potenze intermedie» dell’Europa occidentale. Vedi, al proposito, Il fallimento della conferenza al vertice, «Il Federalista» anno II, numero 4.

 

 

 

il federalista logo trasparente

The Federalist / Le Fédéraliste / Il Federalista
Via Villa Glori, 8
I-27100 Pavia