IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXI, 1979, Numero 3-4, Pagina 208

 

 

I GOVERNI CONTRO L’EUROPA
 
 
Con una incoscienza che potrebbe costare all’Europa una catastrofe, da molti anni i governi nazionali fanno il possibile per disfare i primi strumenti di unità europea costruiti negli anni difficili del dopoguerra. Non si tratta di una affermazione polemica, ma di una pura e semplice constatazione. Dal 1968, cioè dalla fine del periodo transitorio del Mercato comune, la costruzione dell’Europa non registra più un solo vero successo, ma solo degli insuccessi, gravissimo quello del fallimento del primo progetto di unione economico-monetaria (piano Werner).
In questo quadro lo S.M.E. rappresenta il solo fatto positivo, ma ad una condizione, quella di farne davvero, secondo le deliberazioni di Brema, il punto di partenza del rilancio dell’unione economico-monetaria. Sono bastati però pochi mesi per veder scomparire questa prospettiva nell’orientamento e nell’azione dei governi. Il fatto è che per avanzare sulla base dello S.M.E. verso l’unione economico-monetaria bisognerebbe aumentare la dimensione del bilancio della Comunità (con trasferimenti di entrate e di spese dalle nazioni all’Europa), rafforzare le politiche comuni (oggi a un livello risibile) ecc., mentre i nostri governi stanno facendo proprio il contrario. Il risultato è fatale: la degradazione dello S.M.E. da punto di partenza europeo a punto arrivo nazionale. Con lo S.M.E. ci si può illudere di aver vincolato ad una politica più ‘saggia’ i governi nazionali e le autorità monetarie. E tanto basta, come se i problemi che dobbiamo affrontare non avessero cause e dimensioni internazionali; e come se non fosse certo che, affrontandoli con scelte nazionali, aumenterà la divergenza tra i paesi europei perché diverse sono le loro posizioni di forza nel mercato internazionale, nella bilancia mondiale del potere, ed anche in quella interna. La maggiore assurdità, in questo contesto, sta nella richiesta di una politica comune dello S.M.,E. verso il dollaro, come se fosse possibile una politica comune verso il dollaro con nove monete nazionali, con scelte economiche sempre più nazionali, e senza la volontà politica di modificare i fattori della situazione economica che rendono impossibile questa politica.
Si poteva, anzi si doveva sperare che il voto europeo avrebbe indotto i governi nazionali a non insistere nella loro politica nazionalistica. Ma nemmeno questo è bastato. Per i governi nazionali non è cambiato niente. Per i nostri ministri le speranze e le aspettative degli elettori europei — che sanno benissimo che l’unica salute è l’Europa — non contano nulla. Nonostante il voto europeo, i governi insistono anacronisticamente nella tendenza a privilegiare, sul piano delle scelte concrete, la concezione intergovernativa dell’Europa, avvicinando il giorno nel quale questa tendenza comporterebbe la liquidazione della Comunità e il ritorno alle funeste divisioni del passato, con conseguenze spaventose per la situazione economica, sociale e politica.
La Francia, col pretesto del liberalismo, vuole proteggere le sue industrie nucleari rendendo impossibile, o quanto meno precario, qualunque tentativo di una politica europea dell’energia e di una politica industriale europea degli armamenti, che da sola basterebbe per ridurre in modo molto sensibile la spesa pubblica. Si resta allibiti, del resto, quando si constata (Le Monde, 5 ottobre) che il Presidente della Repubblica francese ha dichiarato testualmente: «È indubbio che il rapporto di forza tra la Francia e la Germania federale è più a nostro favore nel 1979 che nel 1955 sia che si tratti del numero degli aeroplani, o dei carri armati, o degli effettivi totali» (il nemico della Francia è la Germania?).
Il cancelliere Schmidt, dopo il recente incontro con il Presidente della Repubblica francese, ha dichiarato che non bisogna superare il limite dell’1% dell’I.V.A. per quanto riguarda le risorse proprie della Comunità. Ne seguirebbe, a termine relativamente breve, l’impossibilità di finanziare il bilancio della Comunità con risorse proprie, e quindi il ritorno ai contributi nazionali.
Il governo italiano, infine, alimenta da tempo nell’opinione pubblica una corrente di sfiducia nella Comunità continuando a prospettare la presenza italiana nell’Europa nei termini contabili di un dare e di un avere senza nemmeno pensare che il vero paragone da fare è quello tra la presenza dell’Italia in una Europa unita o in una Europa divisa (senza l’unificazione europea del dopoguerra l’Italia non avrebbe certamente conosciuto lo sviluppo che l’ha portata nel gruppo dei paesi industrialmente avanzati). D’altra parte il governo italiano ha fatto sapere che si prepara ad affrontare il problema del bilancio comunitario chiedendo la diminuzione della quota annua destinata all’agricoltura e, nel contempo, una diminuzione delle spese per il sostegno dei prezzi e un aumento delle spese destinate alle riforme strutturali. L’aumento di queste spese sarebbe perfettamente proponibile se facesse parte di un progetto di rafforzamento delle politiche comuni (e che comportano ovviamente un aumento della dimensione del bilancio), per consolidare lo S.M.E. ed avanzare davvero verso l’unione economico-monetaria. Ma diventa un’illusione o un pretesto, stante i rapporti di forza all’interno della Comunità, e stante il fatto che con le prospettive alimentari del mondo non avrebbe alcun senso diminuire la produzione di cereali e di carne, se viene proposto come un mezzo per bloccare l’evoluzione del bilancio della Comunità. Si impone pertanto una conclusione: anche il governo italiano sta agendo in modo tale da rendere probabile una situazione nella quale il bilancio della Comunità, non più finanziabile con risorse proprie, dovrebbe ricorrere ai contributi dei governi nazionali.
Se si pensa a quanto ha fatto De Gasperi per l’Europa si resta sgomenti. Ma a parte questo sentimento, che pure è doveroso, bisognerebbe tener presente che senza una sufficiente unità europea si andrebbe certamente e abbastanza presto verso la catastrofe. Bisogna dunque rivolgere un fermo appello ai deputati europei. Li abbiamo eletti, devono fare il loro dovere. I presupposti ci sono. Circa il bilancio, che è il terreno sul quale si combatte ora la battaglia per la vita della Comunità, si profila già un nuovo conflitto tra il Parlamento europeo e il Consiglio dei ministri. Ma bisogna, a questo riguardo, sfruttare il salto di qualità contenuto nel voto europeo. Non basta combattere i governi nazionali sul piano del Consiglio dei ministri, che sfugge all’attenzione dell’opinione pubblica. Bisogna combattere i governi nazionali sul terreno delle circoscrizioni elettorali, all’interno di ciascun paese, cioè dove anch’essi devono inchinarsi al verdetto pubblico della democrazia, smettendo la pratica vergognosa di impostare le scelte europee nel chiuso dei gabinetti ministeriali, con le ideuzze di esperti e funzionari che vedono nella Comunità solo il teatro per i loro intrighi e i loro giochi di potere.
 
Mario Albertini
(settembre 1979)

 

 

 

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