IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XVIII, 1976, Numero 1, Pagina 20

 

 

IL XXII CONGRESSO DEL PARTITO COMUNISTA FRANCESE
 
 
Nei giorni 4, 5, 6 e 7 febbraio si è svolto a l’Ile-Saint-Denis il XXII congresso del P.C.F. Un congresso che è stato definito di portata storica dalla stampa internazionale che ha messo in evidenza, come indica l’autorevole Le Monde, «la evoluzione all’italiana» di un partito, sino ad oggi, di relativamente stretta osservanza staliniana e scrupolosamente allineato sulle posizioni sovietiche. Il segretario Georges Marchais ha sapientemente guidato la regia della «svolta» con taluni gesti spettacolari che non hanno mancato l'obiettivo: l’abbandono del «dogma della dittatura del proletariato», il fermo richiamo a taluni militanti che nel corso del congresso levavano il pugno chiuso «il gesto è troppo aggressivo e non corrisponde allo spirito del partito che tende la mano a tutti i patrioti e i democratici desiderosi di realizzare un socialismo con i colori della Francia»), il ribadito impegno del partito per la difesa di principi morali che la borghesia calpesta sino ad «avvilire l'amore», il rifiuto espresso al termine dei lavori di recarsi al prossimo Congresso del P.C.U.S.
Ma ad un esame più attento dei lavori de l’Ile-Saint-Denis appare con chiarezza come il tema di fondo sia un altro, che la grande stampa ha diligentemente omesso di porre in evidenza: il P.C.F. quale nuovo alfiere del nazionalismo francese. Nel suo rapporto Marchais dopo di aver denunciato persino «i disastrosi risultati internazionali dei nostri sportivi», ha detto: «la politica di Giscard d'Estaing, che consiste nel fare della Francia il marciapiede della Germania Occidentale, è una politica criminale, una politica che nessun francese, che abbia a cuore gli interessi della nazione, né può né deve accettare. È una vera e propria politica di dimissione nazionale… Fedele alla sua tradizione, il Partito comunista francese combatte e combatterà con tutte le sue energie per conservare alla Francia la sua indipendenza, la sua sovranità, cioè i mezzi che il suo popolo ha a disposizione per disporre liberamente di se stesso e per condurre un'azione internazionale efficace. Lungi dall'essere un'idea superata, l'indipendenza nazionale è una grande rivendicazione del nostro tempo. La sua conquista, la sua difesa ed il suo consolidamento sono all'ordine del giorno del mondo contemporaneo. Non v’è nulla di più attuale, di più moderno che la lotta per l'indipendenza, per la sovranità, per il fiorire della Francia. Il Partito comunista chiama tutti i democratici, tutti i patrioti del nostro Paese a prendere il loro posto in questa lotta».
Non meno radicale la posizione espressa dalla signora Marie-Claude Vailant-Couturier, membro del Comitato centrale, che dopo aver denunciato l'ingerenza crescente della Repubblica Federale Tedesca, partner privilegiato del «potere giscardiano», ha sottolineato come «l'imperialismo tedesco» si fenomenizzi «nell'acquisto crescente di terre francesi, nella riacquisita libertà militare che finirà per sfociare nella rivendicazione termonucleare», ha espresso «inquietudine per il ritorno alla patria di origine di Von Braun padre delle V1 e delle V2», ha riaffermato, tra applausi scroscianti, l’opposizione del suo partito ad una difesa comune europea «difesa che noi non vogliamo ad alcun prezzo» ed ha concluso: «in questa lotta, come nella Resistenza, noi ci ritroveremo con molti altri. Di fronte a questo attentato all’indipendenza nazionale è possibile unirsi in un imponente raggruppamento». Di tono non molto difforme gli interventi di Jean Kanapa, membro dell’ufficio politico, che ha accusato la borghesia al potere di «tradire la patria»; del deputato Marcel Rigout, che ha pescato nel torbido degli interessi corporativi degli agricoltori francesi, definendo il Mercato comune agricolo «una macchina da guerra contro l’agricoltura nazionale»; di Jean Marcot, pilota del personale di volo di Roissy, che ha ricordato la battaglia dei comunisti per il Concorde, denunciando «la politica europeistica e atlantistica del governo che così gran pregiudizio ha arrecato al destino del supersonico».
Per esser certo che i puntini sulle «i» fossero stati messi a dovere, Marchais nella replica, dopo aver detto che «tutto ciò che è nazionale è nostro», ha aggiunto: «noi non cederemo al disegno giscardiano di fondere il nostro paese in un nuovo sacro impero romano-germanico con annessioni atlantiche, anche se fosse diretto dal social-democratico Helmut Schmidt… Non c’è libertà per la Francia senza l’indipendenza e senza sovranità nazionale». Questi stessi concetti il segretario del P.C.F. ha voluto solennemente ribadire il 14 febbraio in una dichiarazione rilasciata a commento del vertice franco-tedesco di Nizza, ove così si è espresso: «noi siamo risolutamente contrari all’unione politica [europea] di cui si è parlato nel corso del Vertice, perché la stessa mette in causa l’indipendenza e la sovranità della Francia ed anche a cagione dell’imperialismo tedesco… così aggressivo».
Il senso di questa impennata nazionalistica appare chiaro da una attenta analisi delle posizioni espresse da Marchais nel suo rapporto. Egli dichiara che queste si fondano sulla ricognizione del «processo reale, cioè delle condizioni reali della nostra epoca e del nostro paese». In sostanza, per Marchais, l’evoluzione del modo di produrre nei paesi ad accumulazione capitalistica avanzata, come la Francia, crea una base sociale che non può più trovare espressione politica nel «fronte di classe», così come sostenne il P.S. al Congresso di Pau, ma nella «unione del popolo di Francia». Questa non è «un raggruppamento di scontenti, né un ripostiglio in cui tutti i gatti sono bigi.» Si tratta «di raggruppare attorno alla classe operaia strati sociali (ingegneri, tecnici, quadri, contadini, intellettuali) che hanno interessi comuni, pur rispettandone la diversità». Se il P.C.F. saprà farsi avanguardia di questo imponente movimento sociale non solo potrà ribaltare i rapporti di forza con il P.S. all'interno del fronte delle sinistre, ma aprirsi la strada alla del potere.
Marchais è, per altro, troppo accorto per non rendersi conto che questo appello ad una base sociale sempre più emancipata ma, nel contempo, emarginata da un potere oligarchico, non può essere accolto senza due profonde trasformazioni dell’immagine del partito, che deve potersi presentare, in primo luogo, come un moderno partito del lavoro e, in secondo luogo, come libero dalle pesanti ipoteche internazionali nei confronti Unione Sovietica. I gesti spettacolari di cui si è detto sono certamente finalizzati a questo scopo.
Ma sono sufficienti? Marchais non ne sembra convinto. Sa che «un partito di interessi», così familiare alla tradizione anglosassone, è troppo lontano dalle tradizioni politiche continentali ed, in ispecie, francesi e sa che occorre un cemento sostitutivo di quello che Santiago Carrillo definisce «il ferro vecchio dell’internazionalismo», che poi storicamente non è stato altro se non l’allineamento all’Unione Sovietica.
Il gioco, sotto questo profilo, gli risulta più facile di quanto non lo sia stato ai comunisti italiani, costretti, nel distacco da Mosca e nella avanzata verso il potere in Italia, ad accettare il sistema di alleanze esistenti e persino quella militare che prende corpo nella N.A.T.O. In Francia quindici anni di gaullismo hanno ridato ampio spazio all’ideologia dell'indipendenza nazionale, uno spazio che, per di più, l'U.D.R., travagliata da una profonda crisi, riesce sempre più faticosamente ad occupare. Marchais deciso di impossessarsene. Ed in questa luce le truculente dichiarazioni di vieto nazionalismo del segretario del P.C.F. in occasione dell'invito rivoltogli da Tindemans a discutere i profili dell'Unione europea, così come quelle rilasciate dopo il Vertice di Roma, che ha deciso l’elezione diretta del Parlamento europeo, acquistano il significato di risvolti negativi di un disegno che nei suoi risvolti positivi, è emerso in chiari termini dal Congresso dell’Ile-Saint-Denis.
Il disegno di Marchais è meschino. Solo persone che hanno alle spalle il cinico allineamento alla Germania hitleriana del Patto Molotov-Von Ribbentrop, possono con uguale cinismo sputare oggi sulla ricostruita collaborazione franco-tedesca e soffiare sulle ceneri, ahimè non del tutto spente, dei sentimenti germanofobi dei francesi. Un potere, del resto, conquistato a questo prezzo sarebbe un potere che, portando la Francia sul sentiero di un passato maledetto e sganciandola dall’Europa, la getterebbe ad un destino mediterraneo ove ben difficilmente quelle forze, che il P.C.F. cerca oggi di agglutinare, sarebbero disposte a seguirlo.
Ma il disegno di Marchais è anche miope. La lezione dei comunisti italiani evidentemente l’ha appresa soltanto a metà. Questi hanno compreso che con l’Europa i comunisti hanno una grande carta da giocare e proprio sulla prospettiva della costruzione di quel grande partito del lavoro che anche Marchais sembra intenzionato a costruire. Solo una visione statica della situazione politica può impedire a Marchais di vedere quali profonde modificazioni si verificherebbero negli equilibri politici dei diversi paesi europei con la costruzione di un quadro politico europeo autonomo rispetto agli Stati Uniti ed alla Unione Sovietica, che hanno, dal ‘48 ad oggi, congelato situazioni sociali e, soprattutto, politiche. Basterebbe che Marchais ponesse attenzione a quanto si verificherebbe in quella stessa Repubblica Federale Tedesca, dove la messa fuori legge del Partito comunista è esclusivamente determinata dalla situazione di frontiera che ha caratterizzato questo Stato nel secondo dopoguerra e dove solo la politica internazionale determina quel tipo di espressione politica, attraverso la S.P.D., di istanze sociali che certamente, nel quadro europeo, troverebbero più adeguata espressione in formazioni politiche ben diversamente orientate. Non a caso Berlinguer ha già stabilito contatti con la socialdemocrazia tedesca e, d'altro canto, Brandt dichiara oggi, nella prospettiva delle elezioni europee, la sua apertura ai comunisti italiani.
Noi non siamo certo tra coloro che guardano ai congressi dei partiti comunisti dell’Europa occidentale con le preoccupazioni di chi si trova a gestire i sempre più precari equilibri politici nazionali — specie in Italia e in Francia — e con la speranza di poter dire esorcizzato Belzebù. Ciò nondimeno apprezziamo i sintomi di evoluzione di partiti, che sono stati e sono espressione di imponenti forze sociali, verso identità politiche che possano inserirle nel gioco democratico delle alternative di governo. Ma lo facciamo nella consapevolezza che questo processo di portata storica — la costruzione di un moderno partito del lavoro, custode di immense tradizioni ed espressione di istanze sociali di rinnovamento anche radicale — potrà esprimersi compiutamente soltanto nel quadro di un potere autonomo dalla situazione di potere internazionale, cioè nel quadro europeo. Senza di che «l'evoluzione all'italiana» del P.C.F., così come quella del P.C.I., sarebbe solo la squallida «socialdemocratizzazione» di partiti che tradiscono troppo se stessi e per mero opportunismo politico. Il che sarebbe grave pregiudizio non per il comunismo, ma per l'Europa stessa.
 
Luigi Vittorio Majocchi
(febbraio 1976)

 

 

 

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