IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XVIII, 1976, Numero 1, Pagina 25

 

 

L’EUROPA E IL NUOVO ORDINE ECONOMICO MONDIALE
 
 
È ormai un fatto acquisito nell’opinione pubblica che la crisi economica che stiamo attraversando è di dimensioni mondiali e che qualsiasi tentativo di soluzione parziale — a livello nazionale o regionale — è destinato all’insuccesso. La diplomazia mondiale opera effettivamente in questa direzione. La conferenza economica di Parigi (preceduta e seguita da numerose conferenze economiche in seno all’O.N.U., al G.A.T.T. e al F.M.I.), per definire i rapporti fra Nord industrializzato e Sud sottosviluppato, ha cercato di affrontare il problema del «nuovo ordine economico mondiale», cioè del nuovo assetto istituzionale che dovrebbe garantire maggior benessere e giustizia internazionali.
Manca tuttavia la consapevolezza che la crisi è in primo luogo politica, non economica, anche se le manifestazioni più appariscenti di alcuni aspetti della crisi — come l’inflazione o la disoccupazione — sembrano legittimare i sospetti intorno alle cause economiche dell’attuale disordine mondiale. La verità è invece, anche se pochi lo rilevano, che l’economia mondiale è governata — bene o male — e che oggi siamo travolti da una recessione di inconsueta violenza perché è in crisi il governo del mondo.
Il mondo è governato dal sistema mondiale degli Stati, cioè dagli equilibri (la balance of power) che si instaurano a livello internazionale fra le grandi potenze, i loro alleati ed i periferici, più o meno neutrali. Alla fine della seconda Guerra mondiale, la spartizione del mondo in due grandi zone di influenza controllate a est dall’Unione Sovietica e ad ovest dagli Stati Uniti, è stata il principale fattore determinante l’ordinamento economico mondiale. Nel quadro dell’equilibrio bipolare il commercio mondiale ed i movimenti di capitali si sono potuti sviluppare solo all’interno dei due blocchi — alla guerra fredda in campo politico è corrisposta una chiusura totale in campo economico. Nel settore occidentale le principali istituzioni economiche internazionali sono sorte ed hanno funzionato grazie all’impegno e sotto il controllo degli Stati Uniti, la potenza egemone. Il Fondo monetario internazionale ha garantito un regime di parità fisse per circa un ventennio, creando così le premesse monetarie per un rapido e consistente sviluppo della finanza e del commercio internazionali. In seno al G.A.T.T. sono poi state approvate importanti riduzioni tariffarie sulla base del principio della multilateralità, che hanno avuto il merito di creare progressivamente una vasta area atlantica di libero scambio.
Nel quadro atlantico, in questa prima fase del dopoguerra, i rapporti Europa-America sono stati caratterizzati, nel contesto della politica americana del containment, dalla costante preoccupazione del governo statunitense di contenere in Europa la pressione comunista. Gli ingenti aiuti del Piano Marshall hanno consentito agli europei di avviare con successo i programmi di ricostruzione post-bellica e negli anni successivi il governo americano ha sempre mantenuto un atteggiamento favorevole nei confronti dei tentativi di unificazione europea, sia nel caso dell’unificazione militare (la C.E.D. è fallita per l’insipienza europea, non per l’opposizione americana), sia nel caso dell’unificazione economica avviata nel 1956 con l’istituzione del Mercato comune.
Tuttavia, nella fase dell’equilibrio bipolare i paesi del Terzo mondo non riuscirono a godere dei benefici che direttamente o indirettamente potevano venir loro dalla sempre più crescente prosperità dei paesi ricchi dell’area occidentale e di quella orientale. Gli scarsi aiuti forniti al Terzo mondo si dirigevano principalmente verso quelle zone di confine fra oriente e occidente in cui venivano a conflitto gli interessi delle superpotenze (come per la guerra di Corea prima e per il Vietnam poi). Spesso gli aiuti consistevano più di materiale bellico che di fondi destinati allo sviluppo economico del paese. Gli Stati del Terzo mondo venivano poi tenuti ai margini dei grandi organismi economici internazionali: le riduzioni tariffarie riguardavano per lo più i prodotti industriali scambiati fra i paesi ricchi, così che poco o nessun vantaggio potevano trarre da queste negoziazioni i paesi sottosviluppati, interessati ad esportare soprattutto materie prime o semi-lavorati; nel contesto del F.M.I. era poi difficile per i paesi del Terzo mondo ottenere adeguate facilitazioni creditizie, dato che queste erano concesse in proporzione della capacità produttiva e finanziaria del paese richiedente. Se, infine, si tiene presente che la struttura tariffaria dei paesi industrializzati era costruita in modo tale da scoraggiare le esportazioni di manufatti dal Terzo mondo e che il mercato delle materie prime, dalla cui vendita dipende strettamente l’attivo della bilancia dei pagamenti dei paesi più poveri, è spesso soggetto a violente fluttuazioni ed a tendenze ribassiste, si comprende come, fino ad anni recenti, si sia assistito ad una continua degradazione dei terms of trade, vale a dire delle ragioni di scambio fra paesi ricchi e paesi poveri: il potere d’acquisto dei paesi del Terzo mondo nei confronti dei mercati più sviluppati è cioè costantemente peggiorato per tutto il dopoguerra.
Non ci si può pertanto meravigliare se con l’approssimarsi della fine dell’equilibrio bipolare anche questo «vecchio ordine economico mondiale» venne sempre più contestato. Agli inizi degli anni sessanta inizia la nuova fase della distensione — in cui si assiste alla fine dello scontro ideologico Russia e America —, originata dall’emergere della potenza cinese sul fronte orientale e dal continuo rafforzamento dell’Europa sul fronte occidentale. La fase della distensione è caratterizzata convergenza della ragion di Stato fra le due superpotenze, nel tentativo di mantenere lo status quo nelle rispettive zone di influenza. In questo nuovo contesto si aprono due fronti crisi all’interno del vecchio ordine economico: il primo concerne i rapporti fra paesi sviluppati e paesi poveri, il secondo i rapporti fra Europa e America.
Il quadro nel quale i paesi del Terzo mondo riuscirono organizzare la loro protesta è l’O.N.U. Nel 1964 venne convocata a Ginevra una Conferenza sul commercio e lo sviluppo, in cui il cosiddetto «Gruppo dei 77», cioè l’insieme dei paesi poveri, cercò di proporre un nuovo modello di sviluppo mondiale fondato sull’apertura dei mercati più ricchi (che è una condizione indispensabile per sviluppare una industria di base nei paesi in cui manca una domanda per la produzione locale), piuttosto che sulla vecchia strategia degli aiuti, inadeguati ed insufficienti. Lo slogan della conferenza fu infatti «Trade, not Aid». Ma le richieste del Terzo mondo vennero praticamente ignorate dai paesi più ricchi, ed anche le successive Conferenze dell’O.N.U., a Nuova Delhi nel 1968 ed a Santiago del Cile nel 1972, non servirono a mutare le prospettive di sviluppo del Terzo mondo.
I rapporti politici ed economici fra Europa ed America, nel frattempo, si degradavano progressivamente nella misura in cui il Mercato comune si rafforzava e l’Europa diventava la prima potenza commerciale del mondo, in grado di tener testa al colosso americano. Le prime avvisaglie di un nuovo atteggiamento americano nei confronti dell’Europa si ebbero in occasione del Kennedy Round, cioè del ciclo di conferenze per le riduzioni tariffarie fra i paesi del G.A.T.T., iniziato nel 1964 e terminato 1967. In questa occasione le proposte americane miravano a smantellare completamente la tariffa esterna comunitaria (ma salvaguardavano la capacità protettiva delle tariffe statunitensi), puntando all’obiettivo evidente di diluire il Mercato comune in una vasta area atlantica di libero scambio. Fortunatamente questo risultato non venne raggiunto grazie alla coesione dimostrata dai sei partners europei e in particolare dalla fermezza opposta dalla Francia alle proposte anticomunitarie degli Stati Uniti. Tensioni fra Europa e America continuarono tuttavia a manifestarsi su questioni come l’assorbimento delle eccedenze agricole, la politica delle imprese americane in Europa, la politica degli aiuti nei confronti del Terzo mondo, ecc.
Il contrasto di fondo e di importanza primaria per un ordinato svolgimento del commercio mondiale riguarda, tuttavia, i problemi monetari. Dalla fase del dollar shortage dell’immediato dopoguerra si è ben presto raggiunta negli anni sessanta la fase dell’abbondanza e sovrabbondanza di dollari. Poiché il dollaro veniva accettato come moneta di riserva, a fianco dell’oro, gli Stati Uniti potevano facilmente finanziare le loro importazioni grazie alla semplice emissione di dollari (attivando così un processo inflazionistico), mentre per gli altri paesi un deficit nella bilancia dei pagamenti implicava una fuga di riserve, con la conseguente applicazione di dolorose politiche restrittive. Questa asimmetria nei «doveri» internazionali di ogni Stato cominciò ad essere contestata da de Gaulle, che propose un ritorno al «gold standard» e minacciò in qualche caso la stabilità del dollaro con la richiesta di conversione delle riserve francesi di dollari in oro. La situazione doveva deteriorarsi progressivamente a causa del continuo affluire di dollari in Europa e grazie alla libera circolazione di capitali all’interno del Mercato comune.
Nel 1970 la Comunità cercò di affrontare il problema della «moneta europea», perché ormai era evidente che gli scambi commerciali dell’Europa verso il resto del mondo e gli interscambi comunitari avevano raggiunto delle dimensioni tali da rendere palesemente incoerente l’esistenza di una potenziale area monetaria europea e la mancanza di una moneta europea. Ma il rapporto Werner che prevedeva una «realizzazione per fasi dell’Unione economica e monetaria» della Comunità non poteva che essere destinato all’insuccesso: perché è impraticabile il progetto di una moneta europea senza una banca centrale europea che la emetta ed un governo europeo che sia responsabile della politica monetaria e creditizia.
In effetti, l’insuccesso del piano Werner fu ben presto evidente, quando le crisi speculative contro le varie monete europee, invece di diminuire, aumentarono di intensità. Nell’agosto 1971 il presidente americano Nixon sopprimeva la convertibilità del dollaro, al fine di porre termine alle ondate speculative contro il dollaro. Il progetto di unione economica e monetaria naufragò allora definitivamente, perché è praticamente impossibile istituire una moneta europea (che significa parità fisse fra le varie monete nazionali europee) fino a che esistono le sovranità monetarie, in un regime di cambi fluttuanti. In questa situazione, anche il Mercato comune agricolo, fondato sul principio di un prezzo unico comunitario, era destinato ad un progressivo smantellamento, a causa della mancanza di una moneta di riferimento per i prezzi agricoli.
Il disordine monetario, mettendo in discussione il regime delle parità fisse, ha minato anche le basi della prosperità commerciale del dopoguerra — perché l’ordinato sviluppo degli scambi esige la certezza dei valori contrattuali, cioè le parità fisse. Se a ciò si aggiunge il tentativo da parte dei paesi del Terzo mondo di volgere a loro favore le ragioni di scambio, in pratica di aumentare il prezzo delle materie prime, per finanziare i loro programmi di sviluppo in mancanza di aiuti più consistenti dei ricchi, si comprende facilmente come una crisi economica dimensioni mondiali e di eccezionale gravità non potesse tardare. L’aumento repentino del prezzo del petrolio, nel 1973, facilitato dalla ritrovata solidarietà dei paesi arabi esportatori, è stato solo il fenomeno più evidente di un processo che stava già maturando da lunga data. Da allora la crisi è stata manifesta: disordine monetario, inflazione, guerra per il possesso delle fonti di energia, speculazioni sulle materie prime, crisi di eccezionali gravità nelle bilance dei pagamenti dei paesi più deboli sono tutti fenomeni che caratterizzano l’attuale fase di anarchia economica mondiale. L’economia mondiale è governata sempre di meno e peggio: la conseguenza è che i più forti si arricchiscono ed i più deboli si impoveriscono.
Di fronte alla crisi economica mondiale la politica che frequentemente viene suggerita è la cooperazione internazionale, la buona volontà e lo spirito di cooperazione fra i governi. Questa risposta è falsa. La cooperazione internazionale può servire soltanto ad arginare gli effetti più perniciosi della crisi, ma non basta per risolverla. La crisi è generata dal fatto che la superpotenza americana e quella sovietica non riescono più a far fronte, con la stessa efficacia dei tempi della guerra fredda, ai loro compiti di potenza egemone. In Asia è in corso un processo di assestamento che vede progressivamente aumentare l’influenza della potenza cinese, in particolare nel sud-est asiatico (ma anche in Africa). Gli europei per conto loro ambiscono ad una politica estera ed economica indipendente da quella americana (ed in alcuni casi contrastante), senza avere tuttavia i mezzi per realizzarla. La crisi non sarà risolta fino a che non si creerà un nuovo equilibrio mondiale stabile ed evolutivo.
L’unità europea è la risposta alla crisi. Con la creazione di una Federazione europea si passerebbe dall’attuale equilibrio bipolare — attualmente contestato, ma pur sempre bipolare — ad un equilibrio multipolare, in cui Europa e Cina costituirebbero dei poli di potere alternativi ad U.S.A. e U.R.S.S.
L’unità europea è la condizione indispensabile per instaurare rapporti di equal partnership con l’America. La moneta europea potrebbe in questo caso aggiungersi al dollaro come moneta di riserva, perché l’economia europea non sarebbe meno solida di quella americana e la moneta europea non godrebbe di una fiducia inferiore a quella concessa al dollaro sui mercati finanziari internazionali. L’emissione di una moneta europea risolverebbe ipso facto il problema delle fluttuazioni (che sono la causa principale delle speculazioni internazionali) fra le attuali monete della Comunità e creerebbe le premesse per un ritorno alle parità fisse: condizione sine qua non per la ripresa degli scambi internazionali e del benessere mondiale. Un governo europeo sarebbe poi in grado di realizzare una effettiva programmazione democratica che, grazie alla partecipazione di tutte le forze produttive europee, sottoponga a controllo le imprese multinazionali, affronti e risolva il problema energetico, della ricerca scientifica, della ristrutturazione dell’agricoltura europea e che consenta l’apertura delle frontiere alle esportazioni di manufatti dei paesi sottosviluppati, in nome di un reciproco vantaggio, perché l’Europa è povera di materie prime, ma capace di fornire tecnologia di avanguardia e personale specializzato, che mancano invece ai paesi del Terzo mondo.
Ma ciò che più conta è che la nascita della Federazione europea creerà le premesse per l’instaurazione di quei nuovi rapporti fra paesi più e meno industrializzati tanto invocati dai rappresentanti del Terzo mondo. La nascita della Federazione europea introdurrà un principio del tutto nuovo nei rapporti internazionali: per la prima volta nella storia si affermerà il principio che i rapporti fra i popoli non devono essere basati sulla forza, come avviene attualmente fra Stati sovrani, ma sul diritto. I popoli europei, uniti dal patto federale, rinunceranno a praticare una politica estera di potenza. Per questo, anche se la Federazione europea rappresenterà pur sempre uno Stato sovrano in un mondo di Stati sovrani e sarà pertanto sottoposta alle ferree leggi che regolano i rapporti internazionali, non troverà nessuna base ideologica per giustificare una sua politica imperialistica. È il nazionalismo, cioè l’idea che la divisione dell’umanità in razze e Stati sovrani sia un fatto naturale, che giustifica la politica di oppressione verso gli altri popoli. Una volta negato questo principio, i rapporti fra Europa e paesi del Terzo mondo non potranno mai prescindere dal fatto che tutti i popoli della terra che lo vogliano, possono diventare membri a pieno diritto del primitivo nucleo federale europeo. Pertanto i rapporti commerciali e la politica degli aiuti che oggi si trasformano facilmente nelle mani delle potenze imperialistiche in strumenti di sfruttamento, saranno considerati semplicemente come aspetti transitori di una politica di unificazione. La Federazione europea farà così vivere nei rapporti internazionali l’idea dell’unificazione politica di tutto il genere umano, vale a dire della Federazione mondiale. Non vi sarà la possibilità di realizzare una vera giustizia fra i popoli e di programmare in modo razionale le risorse economiche mondiali fino a che non si realizzerà anche la democrazia e la partecipazione a livello mondiale. Ma questa situazione è oggi ancora lontana. Noi possiamo solamente batterci per la Federazione europea e per negare l’idea assurda del nazionalismo, che divide i popoli, giustifica l’umiliazione dei deboli e l’arroganza dei forti.
 
Guido Montani
(marzo 1976)

 

 

 

 

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