IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XVII, 1975, Numero 2, Pagina 111

 

 

COMPROMESSO STORICO E UNIONE EUROPEA
 
 
Il XIV Congresso del Partito comunista italiano ha messo ancora una volta in evidenza una contraddizione di fondo che interessa sia lo stesso P.C.I. che l’intero equilibrio politico italiano.
Da un lato rimane, e si accentua con il passare del tempo, l’esigenza del compromesso storico, giustificata dalla sempre più evidente debolezza della democrazia in Italia, dalla drammatica disorganizzazione dell’apparato dello Stato, dalla paralisi della volontà pubblica, dall’accumularsi dei problemi irrisolti. Si diffonde sempre più la consapevolezza che dalla crisi in cui l’Italia si sta dibattendo è pensabile uscire soltanto attraverso una fase politica che abbia una vera e propria natura costituente; e che di conseguenza il compito di produrre il necessario, radicale rinnovamento della vita politica non può essere preso in carico soltanto da una parte dello schieramento democratico, ma da tutti i partiti dell’arco costituzionale, perché soltanto attraverso il loro unanime concorso sarebbe possibile effettuare la grande mobilitazione di energie necessaria per raggiungere lo scopo.
Il Partito comunista italiano ha percepito chiaramente l’importanza e l’urgenza del compito, ed è proprio in questa prospettiva che esso ha iniziato il coraggioso rinnovamento della sua piattaforma politica e programmatica che lo ha portato ad assumere una fisionomia fortemente differenziata rispetto a quella della massima parte dei partiti «fratelli». È certo che oggi molti, forse la maggior parte, dei dirigenti del P.C.I. stanno pazientemente tentando di liberare il partito dall’ipoteca sovietica e di dargli la fisionomia di una grande forza popolare e democratica, capace di giocare un ruolo attivo e di assumere responsabilità di governo nell’ambito delle istituzioni della democrazia rappresentativa.
D’altro lato questo processo si svolge in un contesto internazionale che continua ad essere bipolare, e nel quale, data l’intrinseca instabilità dei rapporti tra le grandi potenze, le vicende della distensione sono alterne e in ogni caso possono talora attenuare ma non sopprimere l’antagonismo di fondo tra di esse, che riemerge ogniqualvolta nell’equilibrio internazionale si manifesta un focolaio di crisi.
In questo gioco l’Italia non dispone di alcuna autonomia. Come sempre è accaduto dalla fine della seconda guerra mondiale, i suoi equilibri interni sono un riflesso delle vicende dell’equilibrio internazionale. Lo stesso progetto del compromesso storico ha potuto essere formulato e ottenere credibilità soltanto grazie alla distensione U.S.A.-U.R.S.S., ma così come è stato reso possibile dal carattere assunto dai rapporti tra i due supergrandi, così nella natura di questi stessi rapporti trova i suoi limiti. Il limite fondamentale è costituito dal fatto che la distensione funziona soltanto fino a che lo status quo non viene alterato. E, poiché il governo degli Stati Uniti manifestamente vede nell’inserzione del P.C.I. nell’area di governo una minaccia per lo status quo, è chiaro che il Partito comunista e i suoi interlocutori devono dare per scontato il veto americano all’operazione, un veto al quale, data la posizione internazionale dell’ltalia, gli interlocutori del P.C.I. non possono non essere molto sensibili.
Ma c’è di più. L’Italia non è né l’unico né il più grave punto di crisi dei rapporti U.S.A.-U.R.S.S. Ed è inevitabile che, ogniqualvolta una minaccia allo status quo si manifesta in una qualsiasi parte del mondo — cioè ogniqualvolta gli interessi dei supergrandi si pongono in termini conflittuali — le forze politiche italiane, fino a che si collocano in una prospettiva esclusivamente nazionale, si trovino di fronte alla necessità di optare per l’America o per la Russia.
È una scelta alla quale è tanto più difficile sfuggire quanto più il focolaio di crisi è geograficamente vicino all’Italia e si manifesta in un quadro politico analogo a quello italiano. Tipico a questo riguardo è stato il caso del Portogallo. Ma esso non è stato il primo né sarà l’ultimo, in un panorama mondiale caratterizzato recentemente dalla impressionante serie di rovesci subiti dalla diplomazia americana.
Orbene, quando crisi di questo genere si manifestano, entra in crisi anche il progetto del compromesso storico. La scelta neutralistica in prospettiva nazionale infatti è oggi in Italia assolutamente velleitaria. L’equidistanza in un conflitto U.S.A.-U.R.S.S. è possibile soltanto ai paesi che dispongono di autonomia internazionale e a quelli la cui posizione marginale nell’equilibrio mondiale li rende scarsamente rilevanti nella strategia delle grandi potenze. L’Italia non rientra né nel primo caso né nel secondo. Per questo le forze politiche italiane sono costrette a scegliere.
Ora, se, in ipotesi di questo genere, la scelta americana è inevitabile e scontata per i partiti moderati, essa è impossibile per il P.C.I. Certo i suoi dirigenti hanno perfettamente coscienza del fatto che l’inserzione del partito nell’area di governo sarebbe impensabile senza un suo adeguamento alla realtà internazionale della quale l’Italia fa parte, ed essi si sono spinti fino ad accettare la permanenza dell’Italia nella N.A.T.O. Ma non è pensabile che, di fronte ad una crisi aperta dei rapporti U.S.A.-U.R.S.S., essi possano giungere ad optare per i primi contro la seconda. Cinquant’anni di storia non si possono cancellare in pochi mesi, ed i dirigenti comunisti italiani sanno benissimo che tra i quadri intermedi del partito la fedeltà verso il paese di Lenin è ancora forte e radicata, come ha dimostrato, al congresso, l’ovazione che, al termine del suo discorso, ha ricevuto Kirilenko. Del resto è anche doveroso chiedersi che senso avrebbe per la classe operaia italiana sottrarsi all’egemonia russa per cadere sotto quella americana.
Ciò di cui, a giudicare dallo svolgimento del Congresso, i dirigenti comunisti italiani non hanno ancora una coscienza adeguata, è che, perché il compromesso storico abbia un avvenire e un senso reale, esso deve innestarsi su di una piattaforma politica che consenta di superare la scelta paralizzante tra America e Russia. Questa piattaforma non può essere che quella dell’unificazione democratica dell’Europa come unico strumento che permetterebbe all’Europa stessa di essere, per usare le parole di Berlinguer, «né antisovietica né antiamericana». Perché per esserlo, l’Europa deve essere europea, e per essere europea deve essere politicamente unita. Questa è in realtà la grande svolta costituente di cui tutti i partiti dell’arco costituzionale sentono oggi in Italia l’urgenza pur senza saperne individuare chiaramente la natura.
Sulla base di una opzione europea — che non si limiti ad enunciazioni verbali ma si traduca in una politica precisa — diventerebbe possibile per i dirigenti del P.C.I. liberare il partito dall’egemonia sovietica, non già in nome di un’altra soggezione — inaccettabile per i lavoratori —, bensì in quello dell’indipendenza. Sulla base della stessa scelta lo schieramento moderato potrebbe fare la stessa cosa nei confronti degli Stati Uniti. In questa prospettiva infine l’atteggiamento di equidistanza — che in un’ottica esclusivamente italiana è velleitario e irresponsabile — diventerebbe una scelta politica precisa.
Del resto è lo stesso destino storico del P.C.I. che dipende dall’opzione europea. In una prospettiva europea esso è quello di dar vita, collegandosi con le forze di sinistra degli altri paesi, ad una grande formazione democratica e progressista, al partito del lavoro che vagheggia Amendola, e a costituirne, in ragione della peculiarità della recente esperienza politica e sociale italiana, la punta più avanzata. In una prospettiva italiana al contrario non è pensabile che esso possa liberarsi completamente dal peso del passato e dalle ipoteche del presente, né che possa disporre e far uso di argomenti sufficientemente persuasivi da convincere gli Stati Uniti, le forze politiche moderate e il loro elettorato della radicale differenza tra via italiana e via portoghese.
 
Francesco Rossolillo
(aprile 1975)

 

 

 

 

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