IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XVII, 1975, Numero 4, Pagina 224

  

 

CRISI DELL’AUTOMOBILE
E NUOVO MODELLO DI SVILUPPO
 
 
La profonda crisi che ha colpito recentemente l’industria automobilistica ha dato occasione al rilancio del dibattito sul ruolo che quest’ultima deve svolgere nei paesi occidentali industrializzati. In Italia, in particolare, ove l’industria automobilistica in questo dopoguerra è stata uno dei settori «portanti» del processo di industrializzazione, la crisi dell’automobile ha rilanciato il dibattito su un «nuovo modello di sviluppo», qualitativamente diverso da quello fino ad oggi seguito.
Il problema può essere visto da due punti di vista differenti. Da un primo punto di vista il problema è stabilire se è possibile risolvere, con misure «ad hoc» per razionalizzare il settore, la crisi dell’automobile. Da un secondo e più generale punto di vista, il problema è stabilire se è possibile progettare una politica industriale in grado di garantire lo sviluppo economico e al tempo stesso in grado di privilegiare settori produttivi alternativi a quelli del trasporto privato.
Ora, considerando alcune caratteristiche peculiari della crisi del settore automobilistico, risulta innanzitutto possibile rilevare in tutti i paesi europei due fenomeni: 1) la competizione avviene sulla base dell’immissione sul mercato di modelli continuamente rinnovati; 2) ogni casa automobilistica tende a mantenere un certo margine di capacità produttiva inutilizzata allo scopo di conquistare eventuali punte di domanda.
Le conseguenze economiche di tale tipo di concorrenza sono evidenti: investimenti massicci che richiedono di essere ammortizzati in breve tempo; quindi risorse crescenti che vengono assorbite da un settore produttivo che ha raggiunto la «maturità».
In alternativa a queste tendenze, è stato proposto che la produzione di automobili venga ridimensionata o almeno congelata agli attuali livelli; accanto a questo si chiede, come contropartita, un maggiore impegno nel settore dei trasporti pubblici, dei veicoli industriali e nei settori a tecnologia avanzata.
Queste proposte, dal punto di vista astratto, potrebbero essere adeguate. In effetti, in tutti i paesi occidentali il potere politico interviene nell’economia con strumenti legislativi allo scopo di regolare la concorrenza tra imprese e la produzione in genere, al fine di piegarla agli interessi della collettività. Una ristrutturazione del settore automobilistico secondo i dettati del potere pubblico si inquadra perfettamente nell’ambiente economico e politico occidentale.
Queste proposte, tuttavia, non tengono conto di un elemento e cioè della stretta interdipendenza che lega le scelte di politica industriale dei paesi occidentali e in particolare dei paesi europei. Facciamo riferimento alla situazione italiana e ipotizziamo pure che nel nostro paese esista la volontà di realizzare gli interventi sopra descritti per inquadrare lo sviluppo dell’industria in un più generale disegno di sviluppo civile. Risulta subito evidente che interventi del genere descritto, limitati alla sola Italia, sarebbero destinati ad essere immediatamente vanificati. E questo per le condizioni oggettive in cui si trova ad operare un’industria che ha dimensione europea e in cui si manifesta una accanita concorrenza del tipo che abbiamo visto, mentre gli strumenti per il controllo dell’economia e la regolazione della concorrenza esistono solo a livello dei singoli paesi europei. Se un paese europeo imponesse infatti ad una casa automobilistica di limitare la gamma dei modelli da immettere sul mercato e di destinare le risorse per investimenti in altri settori, questa verrebbe sopraffatta dalla concorrenza delle altre industrie automobilistiche. Si imporrebbe quindi la necessità di un ritorno alla situazione precedente in alternativa al ridimensionamento, eccessivamente costoso in termini di occupazione e di reddito, di un settore importante delle economie europee. È evidente infatti che solo in presenza di una politica dei trasporti europea, attuata nel quadro di una programmazione europea, si potrà attuare una ristrutturazione del settore dei trasporti a favore dei trasporti pubblici e dei veicoli industriali e una eventuale divisione del lavoro in questi settori tra i paesi europei.
Queste osservazioni, valide per il controllo di qualsiasi settore industriale, possono essere generalizzate e riferite al problema complessivo dello sviluppo economico e sociale. Così deve intendersi il problema del «nuovo modello di sviluppo», cioè di uno sviluppo economico che privilegi sempre più la tutela dell’ambiente di lavoro e dell’ambiente naturale rispetto ai volumi di produzione che sono stati fino ad oggi assunti come indici di progresso di una moderna società industriale.
Per quanto riguarda il fine della tutela dell’ambiente naturale, ad una industria vengono richiesti investimenti crescenti in impianti industriali che non inquinino l’aria e l’acqua. Non solo, si richiede anche che dislocazioni di nuove attività produttive vengano sottoposte ad una politica di piano, in cui vengano tenuti presenti vincoli che fino ad oggi non sono stati presi in considerazione, quali la tutela del patrimonio artistico e paesaggistico.
Circa la tutela dell’ambiente di lavoro quello che si richiede ad un’industria è la soppressione della catena di montaggio o comunque del lavoro parcellizzato e disumanizzato come primo passo verso l’abolizione della figura dell’operaio e la sua trasformazione in tecnico con capacità decisionali.
Le realizzazioni fatte in questi campi, se si sono dimostrate perfettamente realizzabili dal punto di vista tecnico, hanno anche mostrato la necessità di enormi investimenti per la loro attuazione. È ragionevole attendersi quindi, all’interno del quadro italiano, l’assenza di progressi verso uno sviluppo industriale che tenga conto della «qualità della vita», se questo è destinato ad essere un indirizzo seguito solo dall’industria italiana, dati i costi richiesti.
Ancora una volta si dimostra quindi che il nuovo modello di sviluppo non può essere realizzato che a livello europeo. La riconversione industriale o si fa in Europa oppure non si fa e si fa a livello europeo solo nel quadro di una programmazione democratica europea attuata da un governo europeo e da un Parlamento europeo democraticamente eletto. Solo un Parlamento europeo, eletto direttamente dai cittadini europei avrebbe la legittimità costituzionale e la forza per attuare una legislazione valida su tutto il continente europeo che imponga investimenti che privilegino la tutela dell’ambiente naturale, dell’ambiente di lavoro, i trasporti pubblici, ripartendo gli oneri su tutte le industrie europee e non danneggiando quindi le reciproche capacità concorrenziali. D’altro lato solo un governo europeo, nel quadro di una programmazione europea, avrà la possibilità di controllare un’industria che ha dimensione europea e quindi potrà imporre limitati investimenti per l’espansione della capacità produttiva di un settore «maturo» e incentivare settori innovativi: aeronautica, elettronica, energia nucleare, ecc. con commesse pubbliche. Senza un governo europeo quindi i paesi europei divisi rimarrebbero vincolati alla produzione di un bene di consumo tecnologicamente maturo e che corrisponde ad una divisione internazionale del lavoro che si sta abbozzando a livello mondiale, che riserva agli U.S.A. la produzione di beni ad alto contenuto tecnologico e all’Europa la produzione di beni tradizionali. La conseguenza sarà il proseguimento del servitù politica e la dipendenza tecnologica degli Europei dagli U.S.A. A tutti gli Europei ed alle organizzazioni politiche  democratiche del popolo europeo la responsabilità della scelta.
 
Domenico Moro
(giugno 1975)

 

 

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