IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno III, 1961, Numero 6, Page 279

 

 

A PROPOSITO DI
«POUR UN RENOUVELLEMENT» DI CHITI-BATELLI
 
ALESSANDRO CAVALLI
 
 
Ormai, sarebbe stupido negarlo, il federalismo europeo è in crisi. Non se ne rallegrino troppo i nostri avversari e non si deludano i nostri simpatizzanti e sostenitori, perché ciò è nell’ordine delle cose e probabilmente bisognerebbe stupirsi se succedesse il contrario. Non c’è nulla di più difficile che farsi promotori di nuovi ordini, scriveva Machiavelli. Gli uomini non sono angeli, aggiungeva Hamilton. L’andare avanti per i federalisti significa aprire ad ogni passo vie nuove, rivedere e ripensare sempre tutto daccapo, ripuntualizzare la linea politica. L’inverso di questo, come norma, sarebbe la fine per un movimento rivoluzionario.
Dobbiamo riconoscere a Chiti-Batelli il merito di essere stato tra i primi a porre il problema di una revisione di carattere globale dell’atteggiamento federalista di fronte ai fini che ci siamo proposti, ai mezzi che pensiamo di impiegare e alla realtà che ci sta di fronte.
Sul merito delle soluzioni proposte da Chiti ritorneremo dopo aver sunteggiato il pensiero esposto negli scritti ciclostilati che da due anni vengono pubblicati a Strasburgo sotto il titolo «Pour un renouvellement de l’action fédéraliste» e specialmente quanto è scritto nei fascicoli 4, 5 e 6 che portano rispettivamente i sottotitoli: «Détente, problème allemand et fédération européenne», «Vers un parti fédéraliste?» e «Pour un fédéralisme “Nouvelle Gauche”».
Chiti parte dalla considerazione (comune a diversi altri federalisti, come ad esempio Alexandre Marc), che il federalismo per essere una dottrina politica viable, che generi perciò una forza veramente politica, una dottrina politica integratrice, come si esprime Chiti, deve abbandonare l’astrattezza della formula «prima facciamo l’Europa e poi vedremo quale». Il federalismo, secondo Chiti, non è solo, come è ovvio, la teorica dello Stato federale, ma deve anche, riprendendo un’espressione di Cattaneo, essere inteso come teorica della libertà. Da questa affermazione Chiti fa discendere tutto il resto, cioè tutte le risposte che il federalismo, come teorica della libertà, dà ai problemi della società dei nostri Stati. A questo punto il seguito delle considerazioni diventa interessante.
Presupposto per l’attuazione di una tale programma federalista è, per Chiti, l’esistenza di una federazione europea. Questo punto è molto importante, perché, almeno per ora (vedremo poi come quello che esce dalla porta rientri dalla finestra), distingue il programma di Chiti da quello di coloro che pensano possibili delle soluzioni intermedie tra il regime degli Stati nazionali e il regime federale europeo. «La tâche des fédéralistes est celle d’indiquer d’ores et déjà la politique fédérale, et non d’indiquer aux Etats nationaux la politique moins absurde qu’il devraient suivre pour se survivre encore un peu» (VI, pag. 44). Il federalismo, dice Chiti, si inserisce nella lotta tra totalitarismo e democrazia che è il dilemma che caratterizza la storia politica del nostro secolo. Il fronte di questa lotta passa attraverso la divisione del mondo tra occidentale e comunista. Tuttavia bisogna guardarsi dall’identificare, senza discutere e distinguere, l’esperienza democratica come tipica dell’Occidente e quella totalitaria come tipica del Comunismo. Questo, seppure un tempo è stato vero, lo diventa sempre meno nella misura in cui il mondo occidentale permette l’esistenza nel suo seno di esperienze totalitarie di destra, mantiene delle posizioni puramente di forza, non riesce a creare nel suo interno i presupposti per una società giusta che attui il principio dell’uguaglianza delle chances per tutti i suoi membri. Il federalismo, se vuole diventare veramente l’idea integratrice capace di risollevare le sorti del fronte democratico, deve astenersi dall’essere sia il difensore delle posizioni reazionarie dell’Occidente, sia il portatore di una politica di distensione globale e perciò anche ideologica che distruggerebbe i principi democratici stessi che sono alla sua fonte.
L’atteggiamento proprio dei federalisti si dovrebbe concretare, secondo Chiti, nei tre principi dell’«intransigenza democratica», della «coscienza propria» e dell’«irredentismo democratico». Non abbiamo trovato una definizione precisa di questi principi (nelle duecento pagine di «Pour un renouvellement»), che per assumere un significato non vago e non equivoco dovrebbero comportare una discussione e una definizione, almeno come ipotesi di lavoro, del concetto di democrazia, categoria troppo vasta e non univoca per essere assunta come base di un ragionamento senza chiarimento alcuno. A parte questo appunto metodologico, che però ci sembra importante, le considerazioni del Nostro proseguono nel mettere in luce come un atteggiamento di «intransigenza democratica» verso l’esterno (cioè verso i paesi totalitari) presupponga la «coscienza propria» dei paesi «democratici» (e perciò della Federazione), cioè aver le carte in regola nei confronti della democrazia. Questo principio esige da parte di una Federazione europea una crociata contro le dittature iberiche, in modo da spazzare tutte le esperienze antidemocratiche interne al sistema, e questo, se necessario, anche con la forza delle armi. Ma l’accettazione dei principi democratici e l’essere coerente alle norme della «coscienza propria» richiedono che la Federazione Europea riconosca che «la grande idée démocratique de notre siècle est celle du «welfare state», de l’Etat du bien être: d’une société qui offre une égalité de chances pour tous; qui élimine à la fois la misère et le privilège; qui réalise un ordre économique de croissance harmonieuse, capable d’éviter autant les oscillations de la conjoncture que les déséquilibres entre zones super- et sous-développées; qui crée un système de sureté sociale aussi vaste que les grandes possibilités de la production de masse de nos jours le permettent et en mesure de garantir à tous le minimum vital (nourriture, habitation, habits, soins médicaux) et — last but non least —de réaliser l’école gratuite jusqu’à l’université pour tous ceux qui le méritent» (VI, pag. 8).
Chiti si sofferma a lungo sugli aspetti economici e sociali che deve avere il federalismo, che, in questo senso, non può essere inteso che come federalismo integrale. Comunque, solo una volta attuati all’interno questi principi, la Federazione europea potrà guardare all’aspetto esterno del principio dell’«intransigenza democratica» che viene battezzato col nome di «irredentismo democratico» nei confronti dei paesi totalitari. Anche la natura di questo irredentismo rimane confusa, a volte sembra definire un atteggiamento puramente morale (gandhiano, come ama chiamarlo Chiti stesso), a volte sembra un preciso postulato di politica internazionale, quando viene definito come la rivendicazione da parte della Federazione del diritto di tutti i popoli di venire a farne parte (in questo senso prende forma il concetto che Chiti ha del diritto di autodeterminazione).[1] A questo punto Chiti indirizza le sue argomentazioni contro alcune recenti prese di posizione federalista e, con molta acutezza, scrive: «Je constate avec douleur la profonde contradiction en force de laquelle nous unissons à un extrémisme «institutionnel», d’ailleurs purement verbal, un conformisme et un esprit de compromis déplorables sur n’importe quel grande problème d’actualité — bref une attitude que n’importe quel «européaniste» pourrait souscrire sans réserves» (V, pag. 12). Bisogna fare una distinzione, continua Chiti, tra una politica che venga concepita attuabile nella prospettiva federalista di un’Europa già unita e una politica che venga concepita, giudicando per ora impossibile il superamento delle sovranità nazionali, nel senso di una soluzione intermedia, che salvando un minimo di democrazia all’interno degli Stati nazionali mantenga i presupposti della soluzione federalista. Chiti battezza questi due atteggiamenti «federalismo rivoluzionario» e «riformismo funzionalista». Le tesi che secondo Chiti sono da considerare di riformismo funzionalista si manifestano nelle prese di posizione sul problema della riunificazione tedesca, del Sud Tirolo, della distensione e specialmente nell’atteggiamento federalista nei confronti delle cosiddette «comunità».
La rinuncia ad ogni forma di riunificazione tedesca, attraverso il riconoscimento della D.D.R., non porterà, afferma Chiti, alla frustrazione degli istinti nazionalisti esistenti in Germania e non renderà (questa è la tesi di Spinelli) i tedeschi disponibili per un serio rilancio dell’idea europea sulla base del progetto Costituente. L’errore starebbe in due punti. In primo luogo tradirebbe i principi dell’«intransigenza democratica» e dell’ «irredentismo democratico» indebolendo in ultima analisi la forza ideale della rivendicazione federalista. «Le point essentiel est que la non-reconnaissance de la D.D.R. et le maintien du statu quo à Berlin sont devenus dans une large mesure le symbole même du bien fondé idéologique de la position de l’Occident, le moyen à travers lequel l’Occident peut encore contester la légitimité démocratique de la domination soviétique et de ses gouvernements fantoche dans tous les autres pays satellites» (IV, pag. 17).
In secondo luogo, e in questo stenteremmo a non dare ragione a Chiti, sperare che, attraverso una tale politica il governo e il parlamento della Germania Occidentale possano proporre e imporre agli altri governi europei la Costituzione degli Stati Uniti d’Europa, è fare in fondo del funzionalismo ad alto livello, è credere a una politica nazionale per l’Unità europea, è avocare ai federalisti la funzione di suggeritori di quelle forze nazionali che potrebbero farla. Aggiunge molto bene a questo proposito Chiti: «En réalité la seule Voraussetzung (premessa) pour arriver à la Fédération est la création autonome d’une véritable force fédéraliste. Nihil cogit ad federalismus, nisi federalismus ipse. Qui cherche dans la liberté autre chose que la liberté elle même, disait Toqueville, est mûr pour la servitude. Sans cette force, même les situations favorables ne servent pas: l’Hongrie ne nous a donné que le Marché Commun, l’échec de Paris ne nous donnera que des discussions sur une adhésion éventuelle de la Grande Bretagne à l’Euratom. Parturiunt montes, nascitur ridiculus mus».
Ma da questa considerazione Chiti fa discendere la conclusione che non esiste una soluzione immediata del problema tedesco che sia corretta dal punto di vista federalista. La soluzione corretta può essere solo trovata nell’ambito di una già esistente Federazione Europea che rivendichi il diritto di tutti i popoli alla libera scelta di aderire o meno alla Federazione. E’ chiaro come questo atteggiamento pecchi in ultima analisi di quel puro istituzionalismo, contro il quale Chiti si era dilungato.
Anche per quanto riguarda l’atteggiamento federalista per il Sud-Tirolo, Chiti-Batelli scaglia le sue frecce. Se è stato un puro sopruso nazionale la conquista di quel territorio, solo la restituzione può essere la riparazione adeguata, salve tutte le garanzie che si possono chiedere per la minoranza italiana. Il sostenere la posizione dell’autonomia è ancora una volta una via di mezzo, un compromesso, è, in fondo, suggerire agli Stati nazionali «la façon pour se survivre encore un peu». Per quanto riguarda le cosiddette «comunità», Chiti dimostra, qui siamo completamente d’accordo con lui, quanto poco meritino l’appoggio dei federalisti ed, anzi, quanto un simile appoggio possa influire in modo deleterio sulle nostre possibilità di suscitare una forza politica nuova.
Le «brochures» che abbiamo sott’occhio sono poi ricche di annotazioni sui problemi più svariati e dense di questioni interessanti, sempre colorite dallo stile vivace e spesso pittoresco di Chiti, sulle quali però non pensiamo di soffermarci oltre. Quello che ora ci preme di chiarire è il modo con cui viene risolto il problema dell’azione e dell’organizzazione. A questo proposito, valga come considerazione introduttiva generale, notiamo una certa dilettantesca scioltezza nell’affrontare il problema. Tuttavia le critiche che Chiti fa della nostra organizzazione attuale, anche nella loro superficialità, colpiscono spesso nel segno, specie per quanto riguarda il C.P.E., che da indovinato, ma limitato, strumento di agitazione politica, sembra diventato nella mente di qualcuno la formula organizzativa storica del federalismo, il quadro onnicomprensivo dell’azione federalista, con la conseguenza necessaria di trasformare questa in un puro organizzativismo da attivistelli di periferia, che fa diventare la rivendicazione federalista sempre più priva di valore politico, sempre più astratta e perciò sempre meno convincente.
A questo punto però, ecco il colpo di scena: i federalisti si devono trasformare in partito. Chiti non spiega molto bene che cosa intenda per partito; perciò siamo legittimati a credere che anch’egli pensa quello strumento per la conquista del potere che è tipico delle democrazie parlamentari dei nostri Stati. Solo che, nel nostro caso, tale strumento dovrebbe avere un’organizzazione unitaria europea centralizzata, strumenti europei per elaborare la linea politica, dirigenza europea. Del resto Chiti è ben cosciente della contraddizione di termini in cui cade e dei pericoli che verrebbero corsi imboccando la strada da lui proposta. «Je considère aujourd’hui cette solution comme désespérée. Seulement, je suis désormais convaincu que le sort du fédéralisme est justement au bord de la désespération» (V, pag. 4) e più avanti leggiamo: «Il est fatal qu’un parti fédéraliste, une fois qu’il agit sur le pian national et prend des responsabilités à ce niveau, subisse une forte tentation de s’acheminer dans cette direction. Certes, nous l’avons déjà dit, il est impossible que l’Europe se sauve, dans ce qu’elle a de plus vital et de plus dynamique dans sa tradition et dans sa culture, en parcourant cette voie». (V, pag. 65). Tuttavia questo è solo il lato negativo del partito e, dato che non vi è nulla che non abbia un lato negativo e uno positivo, andiamo a vedere quali sono, sempre secondo Chiti, i lati positivi. Anzitutto il partito, impegnando i federalisti là dove devono venir prese delle decisioni concrete, li aiuterebbe a uscire dal puro istituzionalismo e a prender coscienza di sé rispetto a tutti i problemi della realtà politica, economica e sociale; questo porterebbe subito come conseguenza che i federalisti sarebbero «mieux et plus suivis par l’opinion publique». Notiamo a proposito il seguente passaggio: «La création d’un parti fédéraliste avec des responsabilités nationales paraît être la condition d’une action de contestation de la légitimité de l’état national, le seul moyen pour la rendre «visible», concrètement compréhensible à l’opinion publique et pratiquement réalisable dans la forme plus claire et au moment la plus opportune — bref, avec le plus d’efficacité». (V, pag. 39). Con questo sembrerebbe che Chiti veda il partito come lo strumento per fare l’opposizione di regime, ma le illusioni cadono presto quando aggiunge che questo «ne doit empêcher de se battre pour la défense des libertés civiques au sein de l’«ancien régime» (V, pag. 17). Dodici pagine dopo, poi, casca veramente l’asino; leggiamo: «Un effort de renouvellement national, même si destiné à l’insuccès dans le fond, peut obtenir des succès qui peuvent mieux disposer l’Etat national à entrer dans la Fédération». Qui evidentemente si fa una distinzione tra soluzioni nazionali provvisorie, che preparino il campo all’entrata degli Stati nazionali nella federazione e che sarebbero il fine dominante di un partito federalista e soluzioni nazionali che, rafforzando la loro struttura attuale, permetterebbero loro di «se survivre encore un peu». Questa volta siamo noi a non vedere questa distinzione che trasformerebbe i federalisti da «fossoyeurs» in «sauveurs» degli Stati nazione.
Qui incominciano le nostre osservazioni critiche. Finora abbiamo cercato, con quel poco di obiettività che ci è stata permessa dal trovarci in molti punti in disaccordo, di esporre, molto sommariamente del resto, le idee dell’autore. Incominciamo dal fondo. Per noi non esistono tappe intermedie tra il regime delle sovranità nazionali e il regime federale. Non è affatto detto che tappe intermedie siano soltanto le istituzioni pseudo-comunitarie e tutte le soluzioni di stampo confederale, ma lo sono anche tutte quelle politiche nazionali che, in ipotesi, sarebbero un primo passo verso la federazione, oppure creerebbero delle situazioni favorevoli all’imporsi della soluzione federale. Il principio della ragion di Stato non ammette, al proposito, eccezione alcuna: il sistema nazionale è strutturalmente incapace di prendere delle decisioni[2] che anche gradualmente portino al superamento del sistema stesso. Evidentemente Chiti non è così ingenuo, da sostenere il contrario: sa, lo abbiamo mostrato, che la sua soluzione porta con sé un imperdonabile vizio d’origine, ma spera che gli effetti negativi si manifestino con una certa vischiosità e lentezza, permettendo così al federalismo di «sopravvivere ancora un poco», in attesa di tempi migliori. Chiti ripete più volte che è una soluzione disperata per una situazione disperata. Ma il fatto che il federalismo possa essere in una situazione disperata (noi non siamo pessimisti a tal punto) non giustifica che si prenda la via sbagliata; una soluzione disperata è sempre, in ultima analisi, un suicidio.
In effetti, non lo si ripeterà mai abbastanza, gli uomini sono prigionieri delle istituzioni in cui vivono: se queste sono buone essi operano per il meglio, se sono cattive corrompono ogni energia sana. Chi opera all’interno di un sistema per la conquista del potere, può e deve lottare con la più grande intransigenza contro tutti gli altri concorrenti, ma deve servire il potere che vuol conquistare. Che invece i federalisti, trasformandosi in partito e partecipando alle elezioni nazionali ad ogni livello, possano in tal modo contestare al potere politico nazionale la legittimità di difendere gli interessi del popolo europeo, ci sembra, prima che errore politico, oltraggio al buon senso e alle nostre convinzioni più profonde e più vere sulla lotta politica in generale e sulla lotta per la costruzione di un nuovo potere in particolare. Se i federalisti avranno la coerenza e la cocciutaggine di essere coerenti con se stessi, trasformandosi in partito essi saranno messi in ridicolo, non saranno seguiti da nessuno, non sapranno suscitare le uniche energie che possono sostenerli, saranno i veri utopisti, nel senso spregiativo che spesso viene dato a questa parola, cioè coloro che vogliono cambiare il mondo, ma non sanno farlo. Ma è invece molto più probabile che essi perdano la loro coerenza, che è l’unica loro forza, e allora saranno gli «utili idioti» che si presteranno al gioco di chi veramente detiene il potere. Una misera fine in entrambi i casi. A noi convien tener altro viaggio, per usare una frase cara a Chiti in altre occasioni. Noi dobbiamo portare avanti quel minimo di linea politica a livello europeo che è oggi possibile, cioè molto poco. Ma questo poco, se saprà dimostrare che è possibile far funzionare un movimento politico sovrannazionale, potrà essere veramente il primo passo, perché saprà inserire l’azione degli uomini in una prospettiva questa volta veramente europea, creerà insomma l’istituzione buona per una lotta come la nostra. Essere «prigionieri» di questa istituzione significherà non soffocare e non isterilire le proprie energie, ma moltiplicare e potenziare quelle già esistenti e suscitarne delle nuove. E’ vano ricercare una formula magica, che ci faccia «sortir de l’impasse», l’unica formula buona è quella che incameri in nuce tutte le energie potenzialmente disponibili, senza eccezione di alcuna, in una direzione in cui ogni sforzo è come un mattone aggiunto ai precedenti. Ai federalisti, immodesti per natura, come tutti coloro che vogliono cambiare il mondo, si richiede oggi un atto di modestia: riconoscere la limitazione estrema delle loro forze, considerare con freddezza la realtà circostante e quindi incamminarsi con risoluta pazienza su una strada lunga la cui meta è intravedibile solo concettualmente. Ma non è questa la sede, anche con la timidezza che richiede l’importanza del compito, per tracciare nuovi cammini. Noi volevamo solo mettere in luce ciò che a nostro avviso dischiudono di erroneo e di pericoloso certe recenti tendenze federaliste e non avremo assolto il compito senza aggiungere ancora qualche considerazione.
Quello che ci lascia sempre più perplessi, leggendo le pagine di Chiti, è l’omaggio alle idee filosofiche di Alexander Marc. «Une telle doctrine — scrive Chiti — est une conception générale du monde, une philosophie fédéraliste, que nous reconnaissons à M. Marc la mérite incontestable d’avoir élaboré». Questo discorso evidentemente suscita la reazione di tutti coloro tra di noi, e sono molti, che sono arrivati al federalismo attraverso il ripudio del pensiero ideologico e che perciò concepiscono il federalismo non come una ennesima concezione ideologica del mondo, una nuova «Weltanschauung», ma come la dottrina empirica di un tipo di Stato, lo Stato federale, che permette una conoscenza attiva del mondo, senza i paraocchi di una professione di fede. Sarei tentato di affermare che il processo mentale attraverso il quale Chiti, e coloro che la pensano come lui, sono giunti a queste conclusioni, è esattamente l’inverso di quanto esplicitamente si afferma. Il punto di partenza non è una concezione filosofica generale, ma il sentimento vago di dover costruire delle idee forza capaci di raccogliere i suffragi dei più: da qui nasce, ma è una costruzione artificiosa, la nuova dottrina federalista in tutti i campi, dall’economia, alla politica e alle concezioni sociali; ma, siccome questa dottrina non esiste, la si va a prendere a prestito dai teorici del decentramento, oppure del «welfare state», scambiando questo (che è tutt’altro) per federalismo.
Questa contraddizione si mostra in tutta la sua evidenza nelle parole di Cattaneo da cui Chiti prende le mosse per dedurre tutto il resto: «il federalismo inteso come teorica della libertà». A questo proposito mi sembrano definitive le considerazioni di Mario Albertini (Che cosa è il federalismo, «Il Politico», anno XXI, n. 3 - 1956) il quale, prendendo lo spunto da una definizione del federalismo di Carlo Cattaneo, data da Norberto Bobbio, distingue tra un federalismo che ha per oggetto lo Stato federale, cioè qualche cosa che è esaminabile empiricamente, scientificamente o filosoficamente e che comunque ha come categoria fondamentale il potere politico e la sua supremazia, e un federalismo che ha per oggetto l’autogoverno locale e che perciò deve partire dalla «enunciazione di qualche idea della libertà pensata all’infuori del problema dell’autorità»: cioè, in fondo, una concezione ideologica della libertà. Noi evidentemente non accettiamo il federalismo in questa sua seconda accezione; e, considerando il federalismo come la teorica dello Stato federale e come lo strumento per una conoscenza attiva del mondo, non abbiamo neppure bisogno di pensare all’azione federalista nel quadro astratto della politica di un’eventuale federazione europea, supposta già esistente, il che implicherebbe necessariamente il tentativo di scovare anche un’inesistente concezione economico-sociale del federalismo. Il quadro invece nel quale si deve inserire la tematica federalista è via via il quadro delle trasformazioni cui è soggetto il mondo e l’Europa in particolare, dove le contraddizioni di una società di Stati ormai antiquata hanno raggiunto la loro manifestazione estrema.
A questo punto giova ricordare quanto scriveva Albertini a pag. 194 del numero di luglio della nostra rivista. «A noi non interessa che gli Stati facciano questa o quella politica, ma che non facciano più politica in certi domini. In questo senso tutte le politiche nazionali per noi sono eguali, eppure non possiamo fare a meno di occuparcene, di cercare di capirle, di giudicarle. Nel fare ciò, a volta a volta troveremo che le diverse politiche in campo non sono eguali, che una è migliore dell’altra, fatto che rischia di aprire un fianco a qualche politica del regime avversato, e quindi al regime stesso. Orbene, questo rischio va corso, non solo per evitare l’isolamento settario, ma anche per poter cogliere tutte le occasioni di indebolire il regime nazionale, in ultima analisi per elaborare concretamente la nostra linea politica». Alla luce di queste considerazioni si vede ormai più chiaramente come le accuse che ci vengono fatte da più parti di «istituzionalismo», «astrattismo», «moralismo», «massimalismo», non sono dovute al fatto che al federalismo manca una dottrina economico-sociale, ma invece al fatto che il federalismo obiettivamente inteso è un’alternativa globale al sistema delle sovranità nazionali, che esso ha dunque un programma realizzabile solo a lunga scadenza e non dice nulla sul che fare oggi di strettamente politico. Ma le chances del federalismo non stanno in questo, stanno nella sua capacità di suscitare nuove energie morali per guidare verso la fondazione di poteri federali, con un movimento supernazionale, le energie che il processo storico, sta accumulando contro l’Europa ed il mondo organizzati in nazioni sovrane.


[1] Evidentemente qui si pensa ad una linea politica di intransigenza democratica che sia sostenuta però soltanto da un atteggiamento morale di tipo gandhiano. Chiti afferma che una tale politica sarebbe «donchisciottesca per gli Stati nazionali, ma non per una federazione europea, e perciò rigetta esplicitamente l’accusa di «donchisciottismo» che prevede gli verrà fatta. A noi tuttavia sembra che in politica internazionale sia sempre valido il vecchio adagio: «contro la forza la ragion non vale» e perciò non stentiamo ad immaginarci il nostro Autore nei panni dell’eroe di Cervantes.
[2] Può prenderle formalmente, ma in due soli casi: o per affermare nei principi quello che nega nei fatti, o, nel momento rivoluzionario, per avvallare una decisione che però è stata presa dall’esterno.

 

 

 

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