IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XVIII, 1976, Numero 4, Pagina 233

 

 Riproduciamo qui di seguito il testo dei rapporti del Presidente al Comitato federale dell’U.E.F. riunito al Lussemburgo (3-4 aprile 1976) e a Hertenstein (2 ottobre 1976). I rapporti del Presidente, una volta approvati dal Comitato federale, diventano prese di posizioni ufficiali del Comitato stesso, e costituiscono altrettante definizioni — nelle diverse congiunture politiche che fanno di volta in volta da orizzonte all’azione del Movimento — della linea strategica dell’U.E.F.

 
 
 
RAPPORTO AL COMITATO FEDERALE
DEL 3-4 APRILE 1976
 
 
A mio parere, per fare il punto sullo stato dell’unificazione europea bisogna prendere in considerazione tre questioni: l’uscita del franco dal «serpente», le prime conseguenze politiche della decisione sulla data dell’elezione europea, le difficoltà che si sono manifestate in seno al Consiglio europeo a proposito dell’approvazione del Progetto di convenzione elettorale elaborato dal Parlamento europeo.
 
I. — L’uscita del franco dal «serpente». Un comunicato diffuso il 19 marzo dall’ufficio stampa del Parlamento europeo afferma: «Nel corso d’un primo scambio di vedute, parecchi membri della Commissione economica e monetaria hanno sottolineato di non aver mai considerato i meccanismi del ‘serpente’ come uno strumento importante dell’integrazione economica e monetaria, ma piuttosto come uno strumento vulnerabile di cooperazione in un campo molto specifico».
Avevo io stesso preso posizione in questo stesso senso a nome dell’U.E.F. — come si è convenuto in seno al Comitato federale — anche se nel quadro di una analisi più vasta, per tener conto della necessità di orientare l’opinione pubblica. Dopo aver ricordato le reazioni negative dell’opinione pubblica, facevo osservare «come gli errori in materia di integrazione europea siano pericolosi. Se si pretende di far avanzare l’unità su di una via sulla quale è impossibile avanzare — e questo è il caso della via monetaria, se questa non è accompagnata da una via economica e da una via politica — ci si espone a degli scacchi continui, che diffondono lo scetticismo e paralizzano la volontà».
E continuavo: «L’U.E.F. non nega affatto che i governi debbano sempre tentare di dare, anche col metodo della collaborazione, delle risposte multilaterali ed europee alle questioni monetarie ed economiche. L’U.E.F. ritiene tuttavia che si debba distinguere con chiarezza ciò che dipende dalla collaborazione intergovernativa da ciò che riguarda veramente la costruzione dell’Europa, in modo che le difficoltà e gli scacchi della collaborazione intergovernativa non vengano imputati alla costruzione dell’Europa, indebolendola. L’U.E.F. ricorda che si cerca di promuovere l’integrazione europea proprio sulla base della conoscenza dei limiti e dei pericoli della pura e semplice collaborazione intergovernativa, e ricorda nello stesso tempo all’opinione pubblica europea che il terreno sul quale l’Europa oggi può avanzare è quello dell’elezione europea entro il 1978 e della continuazione del dibattito sull’Unione».
Tanto le opinioni espresse in seno alla Commissione economica e monetaria del Parlamento europeo, quanto la mia presa di posizione, implicano un criterio di giudizio sul quale bisogna, secondo me, soffermare l’attenzione per ragioni pratiche che riguardano non soltanto l’integrazione europea, ma anche i rapporti fra Europa e Stati Uniti. Nel periodo nel quale si manifestò chiaramente, nella sfera atlantica, un orientamento comune in politica estera, economica e monetaria (che comprendeva anche il fine stesso dell’unificazione europea), la collaborazione intergovernativa e la costruzione dell’Europa si rafforzavano reciprocamente, e non era perciò necessario, a fini pratici, distinguere nettamente le due cose. Ma questa situazione è cambiata da quando si è indebolita l’unità atlantica, si sono manifestate divergenze economiche e monetarie fra gli alleati, con ripercussioni dirette sulla Comunità, e da quando, a causa di tutto ciò, l’unità europea non è più un elemento fondamentale dell’alleanza, ma solo uno dei modi con cui si pensa di poter ristabilire relazioni efficaci fra l’Europa e l’America. È ormai la forza delle cose che ci obbliga a distinguere il campo della collaborazione — la sfera atlantica — da quello dell’unificazione: ma è proprio per questa ragione che non si può più agire in modo sensato senza la conoscenza sia delle possibilità e dei limiti della collaborazione (che può arrivare fino a forme confederali, ma non va mai al di là della sostanza politica delle alleanze e si fonda perciò sulla convergenza delle «Ragion di Stato» dei paesi associati), sia del federalismo come teoria dell’unità e dell’unificazione fra gli Stati. E dico «dell’unificazione», e non soltanto «dell’unità», perché l’unificazione, in quanto azione politica, ha bisogno della collaborazione ma non coincide con la collaborazione, ed esige una politica specifica della costruzione dell’unità, che l’Europa ha finora conosciuto grazie a Jean Monnet.
Ciò dimostra che è necessario divulgare i principi del federalismo, sia nella loro applicazione positiva, in quanto metodo dell’unità e dell’unificazione, sia nella loro applicazione negativa, in quanto metodo per una conoscenza realistica dei rapporti fra gli Stati e della politica internazionale. Un tempo noi potevamo non interessarci affatto di coloro che affermano che la distinzione fra federalismo e confederalismo è una disputa teologica, completamente priva di importanza pratica; ma oggi, anche a questo proposito, la situazione è cambiata. L’ignoranza di questa distinzione, e la confusione fra unificazione e collaborazione che ne è la conseguenza, fanno sì che i governi scelgano obiettivi che possono essere raggiunti solo col metodo dell’unificazione, ma cercano pervicacemente di realizzarli col metodo della collaborazione. Il risultato, come nel caso del «serpente» e, più in generale, in quello della scelta della via economica per arrivare all’unità politica, è il fallimento, con due gravi conseguenze che riguardano non solo la Comunità ma la vita stessa degli Stati.
La prima è che là dove l’unità fallisce si manifestano fra i paesi della Comunità delle divergenze (che sono già molto nette e pericolose nel campo della politica monetaria). Queste divergenze suscitano ormai i timori degli stessi nemici del federalismo, perché danno l’impressione di poter diventare incontrollabili come nel passato. La seconda, della quale ho già parlato, è che il fallimento della collaborazione diventa, in seno all’opinione pubblica e alle sue articolazioni (partiti, giornali, forze economiche, sociali, ecc.), il fallimento della costruzione dell’Europa, minando così la fiducia, che è la premessa indispensabile per continuare nell’impresa. Spetta dunque a noi ricordare a tutti che gli errori nella teoria del federalismo costano cari; e che, se si continuano a commettere errori di questo genere, l’Europa, e con l’Europa le sue nazioni, non potranno evitare la rovina.
L’uscita del franco dal «serpente» non dimostra solo che si devono fare delle revisioni teoriche in materia di strategia nella costruzione dell’Europa. Essa dimostra anche quanto fosse irrealistica l’idea dell’Europa a due velocità. Si era giunti fino a credere che la divisione dei paesi della Comunità in due gruppi — uno dei quali avrebbe potuto camminare più rapidamente dell’altro — fosse non solo una situazione di fatto, ma anche una politica realistica da perseguire. La realtà è che l’Europa, se abbandona la via dell’unità e si divide, può anche cominciare con la divisione fra due gruppi di paesi, ma sbocca fatalmente nella divisione fra tutti i paesi. E con questo si ritorna all’idea vera dell’Europa, all’idea dell’unità come punto di arrivo, e nello stesso tempo come metodo per raggiungere questo punto d’arrivo.
 
II. — Prime conseguenze politiche della decisione sull’elezione europea. Entro certi limiti queste conseguenze sono note. Si sa che i partiti stanno esaminando la possibilità di formare dei partiti europei, o delle coalizioni europee, o almeno delle convergenze europee; e che alcuni tra i più importanti leaders europei si sono impegnati annunziando la loro candidatura europea. A questo riguardo l’informazione — mi riferisco ai quotidiani ecc. — è certo insufficiente. Ma ciò che è ancora più insufficiente, o non esiste affatto, è l’analisi di questi fatti, che devono essere ovviamente considerati non come fatti isolati, ma come le prime manifestazioni di una tendenza destinata a svilupparsi e a crescere.
Per iniziare questa analisi, io vorrei commentare un fatto che merita la più attenta considerazione, specialmente da parte nostra: l’intervento di Willy Brandt al congresso europeo di Bruxelles. Ricordo che Brandt aveva già annunciato al congresso del suo partito la decisione di presentare la sua candidatura alla elezione europea del 1978. Al congresso di Bruxelles egli ha confermato la sua decisione. Ma ciò che non è stato osservato è che, confermando la sua candidatura, e attribuendo così a quanto stava per dire il significato di un programma d’azione per il quale si impegnava in prima persona, Brandt ha messo l’accento sul rapporto che esiste fra l’elezione europea e l’obiettivo finale dell’integrazione, lo Stato europeo, affermando che il Parlamento, dopo l’elezione diretta, deve assumere il ruolo di una Assemblea costituente permanente dell’Europa.
Nessun uomo politico, tranne i federalisti, aveva fino ad ora parlato del problema europeo con la chiarezza di Willy Brandt. A proposito della sua candidatura egli ha detto: «La decisione del Consiglio europeo di chiamare i cittadini dei paesi della Comunità a eleggere direttamente i membri del Parlamento europeo nel 1978 è l’occasione che si tratta ora di sfruttare. Io ho deciso, come socialdemocratico tedesco ed europeo, di presentare la mia candidatura per le elezioni del Parlamento europeo. Ciò facendo, non mi allontano dalle mie responsabilità politiche nei confronti del mio paese, ma, al contrario, sottolineo che la politica tedesca non è concepibile senza l’Europa. E sarei felice se la mia decisione facesse scuola».E a proposito del ruolo del Parlamento europeo, Brandt ha detto: «Il Parlamento deve essere la voce dell’Europa. Esso ha la possibilità e il dovere di definire più chiaramente l’identità europea e di creare le competenze necessarie a un governo europeo nei settori che comportano una responsabilità comune. Dovrà dunque considerarsi come una Assemblea costituente permanente dell’Europa». E infine, a proposito del metodo da utilizzare per raggiungere dei risultati di questo genere, egli ha detto: «L’unità europea non ci sarà servita dai governi su un piatto d’argento. Non è così che procede la storia… L’Europa dei cittadini è in anticipo sull’Europa dei governi. Sarà compito del Parlamento europeo colmare questo increscioso divario. Esso deve uscire dal mondo sotterraneo delle mozioni e delle tesi generose ma prive di forza cogente; deve uscire allo scoperto con vere e proprie prove di forza».
La verità coraggiosa e lucida di queste affermazioni, che includono finalmente gli obiettivi europei nel contesto reale della lotta politica, non ha certo bisogno di essere provata. Vale invece la pena di far osservare, a correzione dell’incertezza e dello scetticismo così diffusi in certi ambienti, che queste verità ormai sono non solo giuste, ma anche efficaci. Al congresso era presente Mitterrand. Interrogato dai giornalisti sul problema delle candidature europee, divenuto immediatamente di attualità, egli ha risposto che, a meno di una incompatibilità con le sue funzioni, egli avrebbe certamente capeggiato la lista del Partito socialista francese alle elezioni europee. Erano presenti anche le più importanti personalità della C.D.U., e anche Kohl ha fatto subito delle dichiarazioni analoghe a quelle di Mitterrand. Come era prevedibile, l’esempio di Brandt ha fatto davvero scuola. E va detto che ciò che, grazie a Brandt, ha cominciato a funzionare al congresso di Bruxelles, è il potenziale insito nell’elezione europea. È evidente che i socialisti francesi, per non essere superati dai socialisti tedeschi, sono costretti a presentare Mitterrand se i socialisti tedeschi presentano Brandt. Ed è evidente che questo meccanismo concorrenziale funziona non soltanto fra i partiti di ispirazione simile, ma anche, e a maggior ragione, fra partiti rivali, ognuno dei quali perderebbe voti se si presentasse alle elezioni europee con candidati di secondo piano rispetto a quelli degli altri partiti.
Una cosa è dunque già acquisita. È certo che il Parlamento europeo, eletto direttamente, non sarà più disertato dai grandi leaders. Ed è certo che questi leaders non si troveranno più alla testa di partiti nazionali, ma di partiti europei. Un meccanismo concorrenziale legato all’elezione europea è entrato in funzione anche a questo riguardo. I liberali hanno già annunciato la costituzione del partito europeo. E gli altri partiti saranno obbligati ad imitarli — almeno nel senso di stabilire rapidamente dei solidi collegamenti europei — per non perdere voti, cosa che accadrebbe fatalmente se, non sapendo realizzare né convergenze né programmi europei, dessero la prova di non essere capaci di fare una politica europea.
Tutto ciò dimostra che si profila già, in prospettiva, lo spostamento della lotta e del confronto fra i partiti dal livello nazionale al livello europeo. Il potenziale insito nell’elezione europea, appena messo in condizione d’agire, ha già mostrato la sua efficacia. E non siamo che all’inizio. In un confronto europeo chi vorrà essere meno europeo degli altri? E quale partito, chiedendo ai cittadini un voto europeo, potrà presentare l’immagine di una Europa senza un governo democratico, cioè un’Europa nella quale i cittadini, dopo aver votato, non conterebbero nulla? Non si tratta d’ipotecare, sin da ora, l’avvenire. Si tratta tuttavia di capire che il potenziale insito nell’elezione europea basta per dare un carattere realistico all’idea della formazione di un governo europeo, e quindi anche a quella della fondazione di uno Stato europeo. Con questo non si dice che l’esito è certo. La logica delle cose dell’elezione europea tende verso questo risultato. Può darsi che gli uomini non lo raggiungano. Ma in gioco è la volontà. Quando si dice che un obiettivo è possibile, si dice proprio che si tratta di un obiettivo politico. La politica è l’arte del possibile, non del certo. In politica non si fa nulla, se si limita l’orizzonte del proprio pensiero e della propria azione a ciò che è già meccanicamente certo.
Si può precisare il senso di ciò che ho detto finora osservando che il potenziale insito nell’elezione europea risiede proprio nel fatto che essa scatena tre meccanismi concorrenziali, uno che riguarda le candidature europee, uno che riguarda la trasformazione europea dei partiti e uno che riguarda l’elaborazione di programmi veramente europei. Questa osservazione, di per sé teorica, ha un consistente valore pratico per due ragioni. La prima è che essa permette di identificare i punti sui quali si può esercitare una pressione efficace. Ponendo ai partiti e all’opinione pubblica i problemi della candidatura europea, del partito europeo e del programma europeo, le sezioni dell’U.E.F. possono ormai ottenere, con il loro lavoro normale di propaganda quotidiana, risultati considerevoli. La seconda ragione è che questa osservazione, nella misura in cui mette in evidenza la logica della campagna elettorale europea, dimostra che la nostra pressione può spingersi fino alla richiesta di affidare il compito di redigere il progetto dell’Unione al Parlamento europeo, dopo l’elezione diretta.
Allo stato attuale delle cose questa richiesta, che appare comunque nelle delibere dei nostri congressi, non può essere portata avanti apertamente al livello europeo per non suscitare ostacoli nella difficile battaglia per l’elezione europea in Francia. In Francia ci sono forze disposte a dire sì all’elezione europea purché non si parli dei poteri del Parlamento europeo e così via. Sarebbe un tragico errore sospingerle nel campo dei nemici del l’elezione avanzando rivendicazioni che non sono ancora attuali. Ma ciò che non si può fare ancora apertamente in Francia, può essere fatto con le necessarie precauzioni altrove, e anche in Francia quando si tratta di colloqui, riunioni di studio, ecc. E va fatto, sia allo scopo di essere pronti nel momento della campagna elettorale europea, sia a quello di impiegare tutti i mezzi a nostra disposizione per ottenere che i partiti arrivino ben preparati all’elezione europea.
 
III. — Le difficoltà che si sono manifestate a proposito dell’approvazione del Progetto di convenzione del Parlamento europeo da parte del Consiglio europeo. Come sapete, si sono manifestate difficoltà circa la composizione del Parlamento europeo. In sé il problema non sarebbe grave. La composizione del Parlamento europeo (come le altre disposizioni del Progetto di convenzione) ha un carattere transitorio, e sarà perciò senza dubbio modificata in futuro. L’accanimento di coloro che vogliono l’una o l’altra composizione, l’uno o l’altro sistema elettorale, è dunque privo di serie giustificazioni. Ma proprio per questo tale accanimento è pericoloso. Nella sostanza si tratta di pretesti. Non è facile, o non è facile per tutti, dire no all’elezione europea, cioè a un nuovo diritto di libertà e di partecipazione. Ne segue che molti nemici dell’elezione europea, invece di osteggiarla apertamente, si servono di pretesti nel tentativo di renderla impossibile. Il problema è dunque grave. Esso mostra che in Francia ci sono forze che sperano ancora di impedire l’elezione europea. Esso mostra che la battaglia non è ancora vinta, e che non si potrà considerare acquisito il successo finché non si saranno ottenute tutte le ratifiche nazionali.
L’ottimismo faceva considerare, fino a poco fa, l’elezione europea come già acquisita. Il pessimismo, che si è diffuso dopo i recenti fatti francesi, può far invece pensare che l’elezione europea sia ridivenuta difficile, forse impossibile. Ma tanto l’ottimismo che il pessimismo devono essere messi da parte: l’ottimismo perché impedisce di vedere che ci sono ancora ostacoli da superare, il pessimismo perché li fa sembrare insuperabili, con la conseguenza, in un caso come nell’altro, dell’inazione. Noi sappiamo da sempre che l’unificazione europea è difficile, ma ci siamo impegnati. Noi dobbiamo, perciò, quali che siano le difficoltà, continuare la lotta, cercando ogni volta di fare tutto ciò che possiamo per avanzare, o per non retrocedere. Con questo orientamento, bisogna fare due considerazioni a proposito dell’elezione europea. La prima è che noi dobbiamo sviluppare con tutte le energie disponibili la campagna per l’elezione europea, e lanciarla immediatamente nelle località nelle quali non l’abbiamo ancora iniziata. La seconda è che non dovremo arrenderci nemmeno se, per il momento, la Francia bloccasse la decisione in seno al Consiglio europeo.
In Francia si ripete, in una certa misura, la situazione che condusse al fallimento della C.E.D. e della Comunità politica: la non-coincidenza della maggioranza per l’Europa e della maggioranza che sostiene il governo. Ma un «no» aperto all’elezione europea è più difficile di un «no» all’esercito europeo; e diverrebbe ancora più difficile, e forse del tutto impossibile, nel caso che il diritto di voto europeo fosse ufficialmente riconosciuto negli altri Paesi. Per il momento una decisione positiva in seno al Consiglio europeo è ancora possibile; noi dobbiamo dunque batterci per questa decisione. Ma anche se la decisione, in seno al Consiglio europeo, diventasse per ora impossibile a causa di un ulteriore deterioramento della situazione francese, noi dovremmo reagire. Noi non possiamo arrenderci. Noi dobbiamo essere pronti fin d’ora a non lasciare nulla di intentato, e a riprendere la via stessa delle elezioni unilaterali, senza domandarci quali sono le possibilità di successo, perché non si spenga in Europa la volontà di arrivare all’elezione europea, e con la elezione europea alla vittoria definitiva dell’unità europea.

 

 

 

 

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