IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XL, 1998, Numero 1, Pagina 89

 

 

IMMANUEL KANT
 
 
Il dibattito sull’interpretazione del pensiero politico di Immanuel Kant, e in particolare sulla interpretazione in senso federalista o confederalista, è sempre vivo, ed ha visto la sua acme nel duecentesimo anniversario della pubblicazione della Pace perpetua, celebrato due anni fa con numerosi convegni e pubblicazioni.
La pace, ovvero «la fine di ogni ostilità»[1] fra gli Stati, e la ricerca delle condizioni per realizzarla, sono secondo Kant problemi cruciali per comprendere il cammino che l’umanità deve ancora percorrere alfine di permettere la completa realizzazione delle sue potenzialità. Per questo le sue riflessioni su di essi si trovano non solo nel saggio che affronta più direttamente l’argomento, ma anche in altri scritti.
Già nell’Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico (1784) si legge: «Il massimo problema per il genere umano, alla cui soluzione la natura lo costringe, è il raggiungimento di una società civile che faccia valere universalmente il diritto.
Questo problema è insieme il più difficile e quello che verrà risolto più tardi dal genere umano.
Il problema della instaurazione di una costituzione civile perfetta dipende dal problema quest’ultimo».[2]
Come è un dovere per gli individui uscire dallo stato di natura, altrettanto lo è per gli Stati attraverso l’instaurazione di un sistema giuridico per regolare i loro rapporti. Se lo stato di natura tra gli individui è soltanto pensato, e potrebbe non esser mai stato un realtà storica, i rapporti internazionali anarchici sono un dato reale e caratterizzano la situazione in cui l’uomo vive effettivamente. Per superare lo stato di natura tra gli individui è sufficiente pensare un contratto originario, come idea della ragione, indipendentemente dal fatto che l’uscita da esso è avvenuta in effetti per mezzo della forza. Il contratto tra gli Stati, invece, deve essere reale. Il problema di un contratto originario non si è posto realmente per gli individui, ma si porrà per gli Stati, che dovranno stipularlo sotto forma di trattato di pace universale e perpetua, il quale costituisce «tutto lo scopo del diritto considerato entro i limiti della semplice ragione».[3] Fine di questo contratto sarà la limitazione, attraverso leggi coattive, della libertà degli Stati, ossia il superamento della sovranità statuale assoluta.[4]
La stipulazione di questo contratto tra gli Stati non può avvenire attraverso la coazione. Infatti la possibilità di creare un sistema cosmopolitico con la forza implica il riconoscimento, da parte degli Stati, del diritto di costringere gli altri Stati a uscire dallo stato di natura, cioè il diritto degli Stati alla guerra, che è ciò che si vuole evitare. «Il diritto delle genti deve essere fondato su un federalismo (Föderalism) di liberi Stati»[5], ossia fondato su un contratto liberamente stipulato da Stati repubblicani.
Nella Pace perpetua Kant cerca di individuare le condizioni necessarie per costituire quella «società civile che faccia valere universalmente il diritto». In primo luogo è necessario che gli Stati siano repubbliche affinché sia il popolo a decidere se fare la guerra o meno. Questa situazione è favorita dalla guerra stessa: nel momento in cui diventa più frequente, coinvolge più uomini, assume un carattere più pervasivo per tutta la società, e porta lo Stato verso l’autodistruzione, «allora ciò che avrebbe dovuto fare ma non ha fatto la buona volontà non può non attuarlo infine l’impotenza: e cioè che ogni Stato venga organizzato al suo interno in modo che il voto decisivo se la guerra debba essere fatta o no non lo abbia il capo dello Stato... ma bensì il popolo che ne fa le spese».[6] Ed ogni Stato che avrà subito questa evoluzione «potrà fondatamente sperare che altri, organizzati allo stesso modo»[7] siano pronti ad aderire al contratto che darà vita ad un’organizzazione cosmopolitica.
Sta qui il nesso tra il primo e il secondo articolo definitivo per la pace perpetua. Solo le repubbliche potranno liberamente scegliere di creare una struttura cosmopolitica. Allo stesso tempo, però, questo secondo passo è necessario. Se tutti gli Stati fossero repubbliche, ma mancasse un sistema cosmopolitico, la guerra continuerebbe ad essere una minaccia o una realtà, e verrebbero meno la libertà e il diritto che le repubbliche stesse dovrebbero garantire. Per questo la costituzione civile perfetta è quella cosmopolitica, che sola permette di garantire pienamente e universalmente il diritto.
Il problema del miglior modello istituzionale per garantire la pace, è affrontato specificamente nel secondo articolo definitivo,per comprendere pienamente il quale è utile soffermarsi sul concetto di diritto delle genti (ius gentium), nell’accezione in cui lo utilizza Kant in altri scritti.
Nella Metafisica dei costumi Kant analizza in dettaglio questo concetto: «In esso uno Stato considerato come persona di fronte a un altro in condizione di libertà naturale, epperò anche di guerra continua, implica il diritto alla guerra, il diritto nella guerra, e il diritto di costringersi reciprocamente a uscire da questo stato di guerra, e quindi il compito di stabilire una costituzione che una pace duratura, vale a dire il diritto dopo la guerra. (…)
Gli elementi del diritto delle genti sono: 1. che gli considerati nei loro rapporti esteriori reciproci, sono per natura in uno stato non giuridico (come dei selvaggi senza legge); 2. che questo stato è uno stato di guerra (...); e gli Stati limitrofi gli uni agli altri sono tenuti a uscirne; 3. che è necessario fondare una federazione di popoli secondo l’idea di un contratto sociale originario, in modo che essi si obblighino a non immischiarsi nelle rispettive discordie intestine, ma tuttavia contro gli assalti di un nemico esterno; 4. che questa unione non suppone però un potere sovrano (come in una costituzione ma soltanto una associazione (confederazione), unione che può essere disdetta in ogni tempo e che per conseguenza deve rinnovata».[8]
Fin qui arriva il diritto delle genti secondo il concetto no alla confederazione. Ma Kant chiude la trattazione spiegando che «siccome lo stato di natura dei popoli, come quello è uno stato da cui si deve uscire per entrare in uno stato così prima dello stabilirsi di questo tutti i diritti delle genti e tutto il mio e il tuo esterni, che gli Stati possono acquistare o conservare per mezzo della guerra, hanno un valore meramente provvisorio, il quale può acquistare una validità perentoria e diventare uno vero stato di pace soltanto mediante una generale unione degli Stati (analoga a quella mediante cui un popolo diviene uno Stato)».[9]
In Teoria e pratica il diritto delle genti coincide con il diritto cosmopolitico, e ciò risulta chiaro laddove Kant contrappone esplicitamente la sua posizione, la teoria o tesi, alla pratica o ipotesi. In teoria il diritto delle genti deve corrispondere al diritto cosmopolitico, o meglio, deve portare alla sua instaurazione poiché «è una pura illusione» pensare a «una pace universalmente durevole attraverso il cosiddetto equilibrio delle potenze»:[10] la pace perpetua si basa solo su «un diritto delle genti fondato su leggi pubblicamente dotate di potere al quale ogni Stato deve sottoporsi».[11] «Ma a tali leggi coattive», argomentano i cosiddetti pratici, «gli Stati non si sottometteranno mai; e il progetto di uno Stato universale di popoli... non vale tuttavia per la prassi (...)».[12]
Kant è consapevole delle difficoltà, ma ciò non lo spinge a mutare la sua posizione, che anzi riafferma esplicitamente: «Se certo non è nella natura dell’uomo, secondo l’ordine abituale, rinunciare volontariamente al suo potere, non è impossibile che lo sia in circostanze pressanti: così si può considerare un’espressione non inadeguata alle aspirazioni morali e alle speranze degli uomini (nella consapevolezza della loro impotenza) l’attendersi le circostanze richieste a tale scopo dalla provvidenza... Da parte mia io confido invece nella teoria, che proviene dal principio del diritto riguardo a come debba essere il rapporto tra uomini e Stati, e che esorti gli dei della Terra ad adottare la massima di comportarsi sempre nei loro conflitti in modo tale che quell’universale Stato di popoli venga con ciò introdotto, e ad ammettere dunque che esso sia possibile (in praxi) e che possa essere; ma mi affido insieme (in subsidium) alla natura delle cose, che costringe a ciò che non si farebbe volentieri (fata volentem ducunt nolentem trahunt). ...Così, anche in prospettiva cosmopolitica, rimane salda l’affermazione: ciò che secondo principi della ragione vale per la teoria, vale anche per la prassi».[13]
Kant sa che gli Stati non sono facilmente disposti a rinunciare alla loro sovranità, e ciò li spinge a ripiegare verso formule di compromesso, quale è la soluzione confederale, che egli definisce un «surrogato negativo» della repubblica universale.[14] E così anche nella Pace perpetua si riscontrano entrambe le definizioni, secondo la teoria, e secondo la pratica. Mentre «nel concetto del diritto delle genti in quanto diritto alla guerra non è pensabile propriamente nulla, ...per Stati che sono in rapporti reciproci non può esserci, secondo la ragione, nessun altro modo di trarsi fuori dallo stato senza legge, in cui c’è soltanto la guerra, se non che rinuncino, proprio come i singoli uomini, alla loro libertà selvaggia (senza legge), si adattino a leggi pubbliche coattive e così formino (certo progressivamente) uno Stato di popoli (civitas gentium) che infine comprenderà tutti i popoli della Terra».[15]
Il Secondo articolo definitivo per la pace perpetua, che pubblichiamo qui di seguito, ci permette di identificare quello che i federalisti considerano il punto cruciale dell’analisi della pace di Kant, che può essere considerata come uno dei punti di riferimento essenziali per chi vuole contribuire a far compiere all’umanità un passo avanti verso la piena realizzazione del valore centrale della nostra epoca. Come ha scritto Mario Albertini, il pensiero kantiano sulla pace «si applica perfettamente al federalismo perché si fonda sul postulato di un ordine legale al di sopra degli Stati». Egli non conosceva il meccanismo del governo federale e ciò «gli impedì… di concepire il fatto che le decisioni politiche supreme devono avere i caratteri dell’unità e dell’esclusività (la sovranità) come una situazione compatibile con una pluralità di centri di decisione».[16] Tuttavia ciò non gli impedì di pensare quell’ordine legale in senso correttamente federalista: cioè come un potere al di sopra degli Stati.
 
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Secondo articolo definitivo per la pace perpetua *
Il diritto delle genti deve essere fondato su un federalismo di liberi Stati
 
Considerati in quanto Stati, i popoli possono essere giudicati come fossero singoli uomini che, nel reciproco stato di natura (ossia nell’indipendenza da leggi esterne), si ledano già con l’essere l’uno vicino all’altro, e ognuno dei quali può e deve esigere dall’altro, per la sua sicurezza, di entrare con lui in una costituzione analoga a quella civile, in cui ciascuno possa essere assicurato del suo diritto. Ciò sarebbe una federazione di popoli, che però non dovrebbe essere necessariamente[17] uno Stato di popoli. In quest’ultimo caso vi sarebbe contraddizione, perché ogni Stato contiene il rapporto di un superiore (che dà le leggi) con un inferiore (che obbedisce, cioè il popolo), e molti popoli in uno Stato costituirebbero solo un popolo, ciò che contraddice alla premessa (giacché qui si ha da affrontare il diritto dei popoli l’uno verso l’altro, in quanto costituiscono diversi Stati e non devono fondersi in uno Stato.
Così come noi osserviamo con profondo disprezzo, e consideriamo come rozzezza, inciviltà e degradazione bestiale dell’umanità l’attaccamento dei selvaggi alla loro libertà senza legge, per cui preferiscono azzuffarsi continuamente piuttosto che sottoporsi ad una coazione legale che essi stessi costituirebbero, e dunque preferiscono la libertà dei folli alla libertà della ragione, altrettanto, si sarebbe portati a pensare, i popoli civilizzati (ognuno unito per sé in uno Stato) dovrebbero affrettarsi a trarsi fuori quanto prima da una condizione così abietta. Al contrario, invece, ogni Stato ripone la sua maestà (poiché maestà del popolo è un’espressione assurda) proprio nel non essere sottoposto ad alcuna coazione legale esterna, e lo splendore del suo capo sta nell’avere al suo comando, senza che egli debba esporsi affatto al pericolo, migliaia di uomini pronti a farsi sacrificare per una cosa che non li riguarda affatto;[18] e la differenza tra i selvaggi europei e quelli americani consiste principalmente nel fatto che mentre alcune tribù di questi ultimi sono state interamente divorate dai loro nemici, gli europei sanno fare miglior uso dei vinti che non quello di cibarsene, e preferiscono aumentare il numero dei loro sudditi, dunque la moltitudine degli strumenti per guerre ancora più ampie.
    Con la cattiveria della natura umana che si manifesta apertamente nei liberi rapporti fra i popoli (mentre nello stato civile-legale essa viene in gran parte occultata dalla coazione del governo), c’è davvero da meravigliarsi che la parola diritto non abbia potuto ancora essere interamente bandita dalla politica di guerra come pedante; e che ancora nessuno Stato abbia osato dichiararsi pubblicamente per quest’ultima opinione; infatti Ugo Grozio, Pufendorf, Vattel e altri (non altro che molesti consolatori), sebbene il loro codice, redatto diplomaticamente o filosoficamente, non abbia né possa avere la minima forza legale (perché gli Stati come tali non stanno sotto una comune coazione esterna), vengono sempre candidamente citati a giustificazione di guerre di aggressione, senza che si dia alcun esempio che uno Stato, con argomenti corroborati dalla testimonianza di uomini tanto celebri, fosse mai stato spinto a desistere dai suoi propositi. - Questo omaggio che ogni Stato offre al concetto del diritto (almeno a parole) dimostra tuttavia che nell’uomo deve trovarsi una disposizione morale ancora più grande, anche se per il momento assopita, che lo porterà a dominare sul cattivo principio che è in lui (ciò che non può negare), e a sperare lo stesso anche da altri; perché altrimenti la parola diritto non sarebbe mai stata pronunciata da Stati che si vogliono fare la guerra, se non per farsene gioco, come dichiarò quel principe gallo: «E’ il privilegio che la natura ha dato al forte sul debole, che questo debba obbedirgli».
    Poiché il modo in cui gli Stati perseguono il proprio diritto non può essere mai, come è davanti ad un tribunale esterno, il processo, ma solo la guerra, e per mezzo di essa e del suo esito la vittoria, non viene deciso nulla riguardo al diritto; e poiché con il trattato di pace si dà certo termine alla guerra in atto (conclusione che non si può dichiarare ingiusta, perché nello stato di guerra ognuno è giudice in causa propria), ma non allo stato di guerra (alla possibilità di trovare sempre un nuovo pretesto); e dato che tuttavia per gli Stati, secondo il diritto delle genti, non può valere ciò che vale per uomini in uno stato privo di legge secondo il diritto naturale, cioè «dover uscire da questo stato» (perché essi, come Stati, hanno già internamente una costituzione giuridica e così sono troppo cresciuti per la coazione di altri rivolta a condurli sotto una più estesa costituzione legale secondo i concetti del diritto di questi ultimi), mentre la ragione, dal trono del supremo potere moralmente legislativo, condanna in modo assoluto la guerra come procedimento giuridico e viceversa fa dello stato di pace un dovere immediato, che però senza un contratto fra popoli non può essere istituito o assicurato: - allora deve darsi una confederazione di specie particolare, che può chiamarsi confederazione pacifica (foedus pacificum); che sarebbe distinta dal trattato di pace (pactum pacis) per il fatto che questo cerca di dar fine ad una guerra, quella invece a tutte le guerre. Questa confederazione non è rivolta ad un’acquisizione di qualsivoglia potere dello Stato, ma soltanto al mantenimento e all’assicurazione della libertà di uno Stato per sé e insieme di altri Stati confederati, senza che questi debbano perciò sottomettersi (come uomini nello stato di natura) a leggi pubbliche e ad una coazione sotto di esse. - L’attuabilità (la realtà oggettiva) di questa idea del federalismo, che deve gradualmente estendersi a tutti gli Stati, e così conduce alla pace perpetua, può essere esibita. Infatti se la fortuna permette che un popolo potente e illuminato possa costituirsi in repubblica (che per sua natura dev’essere inclinata alla pace perpetua), allora tale repubblica serve per altri Stati da punto centrale dell’unione federativa, al fine di unirsi ad essa e così assicurare lo stato di pace secondo l’idea del diritto delle genti ed estendersi sempre più largamente con ulteriori legami di questa specie.
    Che un popolo dica: «Non ci deve essere più guerra tra noi; perché vogliamo costituirci in uno Stato, ossia vogliamo dare a noi stessi un supremo potere legislativo, esecutivo e giudiziario, che risolva pacificamente le nostre controversie»: questo è comprensibile. - Ma quando questo Stato dice: «Non ci deve essere nessuna guerra tra me e altri Stati, sebbene io non riconosca alcun supremo potere legislativo che a me assicuri il mio diritto e al quale io assicuri il suo», allora non è affatto comprensibile dove io voglia fondare la garanzia del mio diritto, se non sul surrogato dell’unione civile in società, e cioè sul libero federalismo che la ragione connette necessariamente con il concetto del diritto delle genti, se qui deve pur restare qualcosa di pensabile.
    Nel concetto del diritto delle genti in quanto diritto alla guerra non è pensabile propriamente nulla (perché dovrebbe essere un diritto non secondo leggi esterne universalmente valide che limitino la libertà di ogni singolo, ma un diritto di determinare secondo massime unilaterali, con la violenza, cosa sia diritto); dovrebbe allora con ciò intendersi che uomini disposti in tal senso hanno ciò che si meritano se si distruggono a vicenda e se trovano così la pace perpetua nella vasta tomba che ricopre tutti gli orrori della violenza e con essi i loro autori. - Per Stati che sono in rapporti reciproci non può esserci, secondo la ragione, nessun altro modo di trarsi fuori dallo stato senza legge, in cui c’è soltanto guerra, se non che rinuncino, proprio come i singoli uomini, alla loro libertà selvaggia (senza legge), si adattino a leggi pubbliche coattive e così formino (certo progressivamente) uno Stato di popoli (civitas gentium) che infine comprenderà tutti i popoli della Terra. In quanto però, secondo la loro idea del diritto dei popoli, non vogliono affatto questo, e rigettano in hypothesi ciò che è giusto in thesi, in luogo dell’idea positiva di una repubblica universale (se non si vuol perdere tutto), solo il surrogato negativo di una confederazione che respinga la guerra, che sia permanente e che si ampli sempre di più, può trattenere il vortice delle inclinazioni bellicose e contrarie al diritto, ma certo con costante pericolo della sua rottura (Furor impius intus [...] fremit horridus ore cruento, Virgilio). [19]
 
(a cura di Roberto Castaldi)
 
 


[1] I. Kant, Per la pace perpetua, in Scritti di storia, politica e diritto (a cura di F. Gonnelli), Roma.Bari, Laterza, 1995, p. 164.
[2] I. Kant, Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, in Ibidem, pp. 34, 35, 36. Si tratta delle tesi quinta, sesta e settima.
[3] I. Kant, La metafisica dei costumi, Roma-Bari, Laterza, 1983, p. 194.
[4] I. Kant, Per la pace perpetua, cit., pp. 174-75.
[5] I. Kant, Per la pace perpetua, cit., p. 173.
[6] I. Kant, Sul detto comune: questo può esser giusto in teoria, ma non vale per la prassi, In Scritti di storia, politica e diritto, cit., p. 157.
[7] Ibidem.
[8] I. Kant, La metafisica dei costumi, cit., pp. 179-80.
[9] Ibidem, p. 187.
[10] I. Kant, Sul ditto commune, cit., p. 158.
[11] Ibidem.
[12] Ibidem.
[13] I. Kant, Sul ditto commune, cit., pp. 157-59.
[14] I. Kant, Per la pace perpetua, cit., p. 176.
[15] Ibidem.
[16] M. Albertini, Il federalismo, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 22.
[*] Tratto da I. Kant, Scritti di storia, politica e diritto, (a cura di F. Gonelli), Roma-Bari, Laterza, 1995.
[17] L’avverbio «insieme», usato nella traduzione da cui è tratto il Secondo articolo, è stato sostituito con «necessariamente», in quanto più aderente al testo originale [nota del curatore].
[18] Un principe bulgaro, al re greco che coraggiosamente voleva risolvere il conflitto fra loro con un duello, rispose così: «Un fabbro che abbia le tenaglie non trarrà il ferro rovente fuori dalla brace con le sue mani».
[19] Dopo la fine di una guerra, alla firma dei trattati di pace, non sarebbe inopportuno per un popolo che dopo il festeggiamento fosse prescritto anche un giorno di penitenza per invocare perdono al cielo, in nome dello Stato, della grande offesa di cui il genere umano continua sempre a rendersi colpevole, e cioè di non volersi sottomettere ad alcuna costituzione legale nei rapporti con altri popoli, ma di preferire l’uso, nell’orgoglio della sua indipendenza, del mezzo barbaro della guerra (con la quale tuttavia ciò che si cerca, cioè il diritto di ciascuno Stato, non viene ottenuto). - I festeggiamenti durante la guerra per una battaglia vinta, gli inni che vengono cantati (in buon ebraico) al signore degli eserciti, stanno in contrasto non meno forte con l’idea del padre degli uomini, giacché essi, oltre all’indifferenza per il modo in cui i popoli ricercano i loro opposti diritti (che è già triste abbastanza), inducono anche alla gioia d’aver annientato a ragione molti uomini o la loro sorte.

 

 

 

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