IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LV, 2013, Numero 2-3, Pagina 182

 

 

LA CRISI DEI BEBITI SOVRANI
E IL PROCESSO DI INTEGRAZIONE EUROPEA*

 

 

L’introduzione dell’euro è stata un passo fondamentale nella storia europea, un evento politico che ha certificato i progressi compiuti sulla strada dell’integrazione, un profondo cambiamento economico e sociale; ma è stata appunto un passo, non la conclusione del cammino, ancora lungo e difficile. Ne aveva acuta consapevolezza Tommaso Padoa-Schioppa, che alla realizzazione dell’unione monetaria tanto ha contribuito. Nel maggio del 1998, alla vigilia dell’introduzione della moneta unica, Padoa-Schioppa scriveva sulle colonne del Corriere della Sera: “la capacità di politica macroeconomica [dell’unione economica e monetaria europea] è, salvo che per la moneta, embrionale e sbilanciata […]. Per la Banca centrale europea la vera insidia non sarà la poca indipendenza, ma la troppa solitudine […] operare quasi nel vuoto, senza un potere politico, una politica di bilancio, una vigilanza bancaria, una funzione di controllo dei mercati finanziari. […] Ha dunque ragione non solo chi applaude il passaggio di ieri, ma anche chi ne rileva l’incompiutezza, i rischi, la temerarietà”. Di quella stessa incompiutezza si nutre dal 2010 la crisi dei debiti sovrani dell’area dell’euro.

In assenza di un’unione politica, la governance economica dell’area è stata fondata su un fragile connubio tra forze di mercato e regole di condotta. Alle prime si è fatto affidamento per la convergenza economica tra i paesi membri, per la definizione e l’attuazione a livello nazionale delle necessarie riforme strutturali. Alle seconde si è fatto ricorso per assicurare la conduzione di politiche di bilancio prudenti: già nel Rapporto Delors del 1989 si riteneva, infatti, che per la finanza pubblica “i vincoli imposti dalle forze di mercato possono essere troppo lenti e deboli, oppure troppo repentini e travolgenti”.

La convergenza economica è stata lenta e difficile; in alcuni casi le distanze si sono addirittura ampliate. In molte economie i ritardi e gli ostacoli nell’adeguamento ai grandi cambiamenti globali hanno indebolito la competitività e la capacità di crescita. Attenuata dal miglioramento delle condizioni di finanziamento seguito all’introduzione dell’euro, la sola pressione del mercato non è stata sufficiente a sostenere il necessario sforzo di riforma. Misurate sulla base dei costi unitari del lavoro nell’intera economia, le perdite di competitività registrate tra il 1999 e il 2008 nei paesi più colpiti dalla crisi vanno dai circa 9 punti percentuali della Grecia e del Portogallo ai 12 dell’Italia e ai 19 della Spagna, fino ai 37 dell’Irlanda. Considerando la sola industria manifatturiera e gli indicatori di competitività basati sui prezzi alla produzione, le perdite di competitività vanno dai 7 punti percentuali dell’Italia ai 22 del Portogallo (14 per la Spagna, 16 per l’Irlanda e 18 per la Grecia).

Le stesse regole di finanza pubblica definite in ambito europeo non sono state sempre rispettate. Nel 2007, a quasi un decennio dall’avvio della moneta unica, solo pochi paesi registravano saldi di bilancio vicini al pareggio in termini strutturali — ossia trascurando gli effetti del ciclo economico sulle entrate e sulle spese. In alcuni casi il debito pubblico era ancora su livelli eccessivamente elevati rispetto al prodotto. I mercati finanziari hanno a lungo sottostimato i rischi sovrani, confermando i dubbi circa la loro capacità di fornire tempestivamente incentivi all’adozione di comportamenti virtuosi: fino allo scoppio della crisi i differenziali di rendimento tra i titoli di Stato all’interno dell’area erano prossimi allo zero.

In questo quadro, dopo la crisi finanziaria negli Stati Uniti e la gravissima recessione globale del 2008-9, il pieno manifestarsi dell’insostenibilità dei conti pubblici in Grecia ha prodotto tensioni che si sono poi estese ai paesi dell’area economicamente più deboli, caratterizzati da eccessivo indebitamento pubblico o privato, squilibrio dei conti con l’estero, scarsa competitività, bassa crescita economica. Le tensioni sono state acuite dallo scoppio della bolla immobiliare e dai conseguenti dissesti bancari in Irlanda. Con l’annuncio del coinvolgimento degli investitori privati nella ristrutturazione del debito greco, nell’estate del 2011, i mercati finanziari hanno improvvisamente preso coscienza delle implicazioni del divieto di interventi di salvataggio dei paesi membri imposto dal Trattato costitutivo dell’Unione; ne è seguita una gravissima crisi di fiducia nella capacità di tenuta della moneta unica, con pesanti conseguenze sull’economia reale di singoli paesi e dell’area nel suo complesso.

I differenziali di rendimento tra i titoli di Stato dell’area dell’euro si sono ampliati repentinamente nella seconda metà del 2011; quello tra i titoli pubblici decennali italiani e tedeschi, ancora inferiore ai 200 punti base nel primo semestre di quell’anno, raggiungeva i 550 punti nel successivo mese di novembre. Nello stesso periodo, in Italia e negli altri paesi colpiti dalle tensioni, peggioravano bruscamente le condizioni di provvista all’ingrosso delle banche, il cui merito di credito veniva assimilato a quello dei rispettivi sovrani; si inaridivano i collocamenti di obbligazioni, soprattutto di quelle non garantite; perdevano spessore anche i mercati dei certificati di deposito e della carta commerciale. Il costo della raccolta aumentava; si ampliavano significativamente, nel mercato monetario, i differenziali tra i tassi di interesse a brevissimo termine corrisposti dalle banche italiane e quello medio.

Davanti al rischio concreto di una grave restrizione dell’offerta di credito all’economia il Consiglio direttivo della Banca centrale europea (BCE) interveniva riducendo il tasso sulle operazioni di rifinanziamento di 50 punti base, in due riprese a novembre e a dicembre del 2011, introducendo operazioni di rifinanziamento con durata triennale a tasso fisso e offerta illimitata di liquidità, ampliando la gamma delle attività stanziabili a garanzia, dimezzando il coefficiente di riserva obbligatoria. Nelle due operazioni di rifinanziamento a tre anni, condotte nel dicembre del 2011 e nel febbraio dell’anno successivo, l’eurosistema forniva alle banche dell’area finanziamenti complessivi per circa 1.000 miliardi; tenendo conto del minore volume di fondi erogato in altre operazioni, l’aumento netto delle risorse affluite al sistema bancario superava i 500 miliardi. L’ingente immissione di liquidità contribuiva ad attenuare le tensioni sul mercato monetario. La liquidità in eccesso si sta ora riassorbendo: i depositi detenuti nei conti di riserva e nella deposit facility della BCE, al netto della riserva obbligatoria, sono attualmente pari a circa 250 miliardi, dagli 800 del marzo dello scorso anno.

A determinare i differenziali tra i rendimenti dei titoli di Stato dell’area concorrono due componenti, una “nazionale” e una “europea”, connesse rispettivamente con le debolezze delle singole economie e finanze pubbliche (il “rischio di sostenibilità”) e con l’incompletezza del disegno istituzionale dell’area e i conseguenti timori di rottura dell’unione monetaria (il cosiddetto “rischio di ridenominazione”). Alla crisi dei debiti sovrani l’Europa ha reagito con una strategia articolata su questi due fronti: da un lato, i singoli paesi si sono impegnati ad attuare politiche di bilancio prudenti e riforme strutturali a sostegno della competitività; dall’altro è stato avviato un articolato processo di riforma della governance economica dell’Unione.

Non tutti i paesi si sono trovati nella necessità di dover impartire una correzione ai conti pubblici; nelle sedi di confronto internazionale in alcuni casi si è anche discusso della possibilità di effettuare interventi espansivi. La correzione è stata indispensabile in quei paesi, come l’Italia, in difficoltà sui mercati finanziari, ai quali risparmiatori e operatori di mercato concedevano un margine di fiducia particolarmente stretto. Come ho ricordato in altre occasioni, i titoli pubblici italiani da collocare ogni anno per il finanziamento dei disavanzi e, soprattutto, per la sostituzione del debito in scadenza sono nell’ordine dei 400 miliardi.

La recessione ha reso difficile l’azione di bilancio, che ha inevitabilmente avuto riflessi negativi sull’attività economica nel breve periodo. Tuttavia, la prudenza nella gestione dei conti pubblici ha contribuito a evitare scenari peggiori, a contenere prima e a ridurre poi i differenziali di interesse tra i titoli sovrani dell’area, a scongiurare nuove crisi di liquidità. È stato anche difficile attuare le riforme strutturali che, se contribuiscono a ricostruire il potenziale di crescita di un’economia, possono avere costi di breve periodo, in particolare in termini di occupazione.

Le valutazioni della Banca d’Italia sulla dinamica del prodotto nel nostro paese nel 2012 sono via via peggiorate di oltre 3 punti percentuali tra l’estate del 2011 e quella dell’anno successivo; di questi, un punto è attribuibile all’effetto delle misure di finanza pubblica, ma oltre un punto e mezzo riflette l’aumento dello spread tra i titoli pubblici italiani e tedeschi e le sue conseguenze sull’offerta di credito all’economia e sulla fiducia delle imprese e dei consumatori; la parte residua è dovuta al peggioramento delle prospettive di crescita dell’economia mondiale.

La recessione ha reso meno visibili i risultati finanziari della politica di bilancio. Nonostante l’aumento dell’avanzo al netto degli interessi − al 2,5 per cento del prodotto, dall’1,2 del 2011 — il rapporto tra il debito pubblico e il PIL è cresciuto di oltre 6 punti percentuali, al 127 per cento, riflettendo soprattutto la brusca decelerazione del prodotto. Vi ha contribuito per quasi 2 punti il sostegno finanziario che l’Italia ha fornito agli altri paesi dell’Unione.

La riforma della governance europea, delineata in condizioni di emergenza, con un processo non sempre lineare, caratterizzato da incertezze, sovrapposizioni e ridondanze, insieme con gli sforzi compiuti a livello nazionale, ha comunque avviato la ricostruzione di un rapporto di fiducia tra gli Stati membri. In precedenza la coesione all’interno dell’Unione era stata messa a dura prova dalle ripetute violazioni delle regole di bilancio − non solo per gli eventi più recenti, ma anche per quelli che portarono alla prima riforma del Patto di stabilità e crescita nel 2005 — e dalla difficoltà di valutare in maniera approfondita le condizioni dei sistemi finanziari nazionali, soggetti a regolamentazioni e prassi di supervisione ancora profondamente differenziate. Il rafforzamento delle regole di bilancio, soprattutto nella parte preventiva e l’estensione della sorveglianza multilaterale agli squilibri macroeconomici hanno accompagnato l’istituzione di meccanismi per la gestione delle crisi sovrane, hanno posto le basi per avviare l’unione bancaria, per tornare a discutere di quella di bilancio, progettare l’unione politica.

In materia di bilanci pubblici, gli accordi raggiunti nell’ultimo biennio hanno reso cogenti gli impegni presi in passato senza introdurre obiettivi più restrittivi. La nuova governance europea ha accresciuto l’automatismo dei controlli di coerenza tra politiche e obiettivi e delle eventuali sanzioni; ha chiesto ai paesi di dare formale riconoscimento alle regole europee nella legislazione nazionale. Anche la cosiddetta regola del debito, che prescrive una riduzione media annua del rapporto tra il debito e il prodotto pari a un ventesimo dell’eccesso rispetto alla soglia del 60 per cento, attua da un punto di vista operativo una prescrizione già presente nel Trattato di Maastricht. Per l’Italia il suo rispetto non impone un orientamento permanentemente restrittivo alla politica di bilancio ma presuppone il ritorno su un sentiero stabile di crescita, richiede una decisa accelerazione nel processo di adeguamento ai cambiamenti geopolitici, tecnologici e demografici dell’ultimo trentennio.

La procedura di sorveglianza degli squilibri macroeconomici introdotta in sede comunitaria prevede un meccanismo di allerta basato su un insieme di indicatori quantitativi e relative soglie di criticità. Gli indicatori sono analizzati in un rapporto annuale della Commissione europea che individua quali paesi sottoporre a un’analisi più approfondita. In caso di squilibri particolarmente gravi, la Commissione sottopone all’approvazione del Consiglio europeo specifiche raccomandazioni da indirizzare ai singoli paesi per sollecitare interventi correttivi il cui mancato rispetto può condurre all’imposizione di sanzioni.

Fino a due anni fa l’Europa non disponeva di strumenti per la gestione delle crisi sovrane. I primi interventi di sostegno alla Grecia, e in misura minore all’Irlanda, sono stati effettuati per il tramite di prestiti bilaterali. Nel maggio del 2010 è stato costituito lo European Financial Stability Facility (EFSF), uno strumento temporaneo utilizzato anche per il Portogallo e operativo fino all’anno in corso, le cui emissioni obbligazionarie sono garantite dagli Stati membri. Nel luglio del 2011 l’EFSF è stato affiancato dallo European Stability Mechanism (ESM), un meccanismo permanente per la gestione delle crisi istituito per trattato internazionale e dotato di capitale proprio; i prestiti dell’ESM alla Spagna sono stati utilizzati per aiuti al sistema bancario.

La capacità di prestito complessiva garantita da questi strumenti, inizialmente pari a 250 miliardi, è stata gradualmente accresciuta sino a raggiungere i 700 miliardi. I meccanismi di intervento, che all’avvio dell’EFSF erano limitati all’erogazione di prestiti nell’ambito dei piani di sostegno ai paesi in difficoltà, sono stati gradualmente ampliati fino ad includere, sulla base di un’appropriata condizionalità, interventi sul mercato primario e secondario dei titoli pubblici, l’apertura di linee di credito precauzionali, il finanziamento della ricapitalizzazione di istituzioni finanziarie.

Tra il 2010 e il 2012 i paesi europei, direttamente o attraverso l’EFSF e l’ESM, hanno erogato prestiti ai partner in difficoltà per circa 280 miliardi. Il nostro paese ha contribuito offrendo risorse per circa 43 miliardi, di cui 27 per i prestiti dell’EFSF, 10 per prestiti bilaterali e 6 per la costituzione del capitale dell’ESM; secondo le previsioni ufficiali il nostro contributo salirà a oltre 55 miliardi nell’anno in corso, a quasi 62 nel 2014.

Riconosciuta la necessità di superare l’asimmetria tra l’unicità della politica monetaria e la molteplicità delle politiche di bilancio e strutturali nazionali, è stato definito e avviato un ulteriore percorso di graduale rafforzamento dell’Unione economica e monetaria. Il Piano per un’autentica e approfondita unione economica e monetaria, pubblicato dalla Commissione europea lo scorso novembre, e il rapporto Verso un’autentica Unione economica e monetaria, presentato a giugno del 2012 e aggiornato nel successivo dicembre dal presidente del Consiglio europeo, in stretta cooperazione con i presidenti della Commissione, dell’Eurogruppo e della BCE, ne tracciano le tappe. Queste conducono all’unione bancaria, alla creazione di un’autonoma capacità di raccogliere risorse (fiscal capacity) per il complesso dell’area dell’euro, a un bilancio pubblico comune, in prospettiva, all’unione politica.

I tempi di attuazione della complessa strategia europea di contrasto alla crisi sono lunghi. Le distorsioni che nel frattempo permangono sui mercati finanziari possono ostacolare la corretta trasmissione della politica monetaria, mettendo in pericolo l’intero processo. Ancora a luglio del 2012 il differenziale di rendimento tra i BTP e i Bund decennali era di poco superiore ai 500 punti base, contro un valore coerente con i fondamentali delle economie italiana e tedesca allora stimato in circa 200 punti base.

La consapevolezza di quei pericoli si traduceva, nell’estate del 2012, nell’annuncio di nuove modalità di intervento sul mercato secondario dei titoli di Stato (le Outright Monetary Transactions, OMT) da parte del Consiglio direttivo della BCE. Contrastare l’aumento eccessivo dei rendimenti sovrani, quando questo scaturisce dal rischio di ridenominazione e distorce il meccanismo di trasmissione della politica monetaria, ricade pienamente nel mandato dell’eurosistema.

L’attivazione delle OMT presuppone condizioni di forte tensione sui mercati, è limitata ai titoli dei paesi che aderiscono a un programma di aggiustamento macroeconomico o di tipo precauzionale dell’ESM; la loro prosecuzione richiede il successivo rispetto delle condizioni connesse con il programma. Non vi sono ex ante limiti temporali o quantitativi agli interventi.

Si tratta di un’iniziativa resa possibile dalla credibilità dell’eurosistema e dai progressi compiuti nella riforma della governance europea. I timori sulla reversibilità dell’euro sono legati in primo luogo a quelli sulla sostenibilità dei debiti pubblici e sulla competitività dei paesi membri. Per questo l’attivazione delle OMT e il loro proseguimento sono condizionati a impegni precisi in termini di finanza pubblica e di riforme strutturali nell’ambito di programmi di assistenza. Il finanziamento dei programmi con le risorse comuni dell’ESM è un incentivo a proseguire nel rafforzamento della governance dell’Unione, indispensabile a ridurre stabilmente la componente “europea” dei differenziali. La politica monetaria è in grado di garantire la stabilità solo se i fondamentali economici e l’architettura istituzionale dell’area sono con essa coerenti. Ogni paese deve fare la propria parte.

I benefici dell’annuncio delle OMT sono stati immediati: i rendimenti a medio e a lungo termine nei paesi sotto tensione sono diminuiti, si è attenuata la frammentazione dei mercati lungo confini nazionali. Pur con fluttuazioni legate alle residue, rilevanti incertezze sulla determinazione di tutti i paesi membri a proseguire nel rafforzamento dell’Unione, i differenziali di rendimento tra i titoli pubblici dell’area dell’euro sono rimasti su una traiettoria flettente. Lo spread tra i BTP e i Bund decennali si attesta oggi intorno ai 250 punti base.

Il 19 luglio scorso un gruppo di economisti di diversa nazionalità e affiliazione ha pubblicato un manifesto a sostegno delle OMT (A Call for support for the European Central Bank’s OMT Programme), sostenendo che “il successo dell’annuncio delle OMT dimostra che tali operazioni sono primariamente uno strumento di politica monetaria […] È responsabilità della banca centrale, e un tratto caratteristico del prestatore di ultima istanza, l’assunzione di rischi di liquidità, se necessario anche con l’acquisto di attività finanziarie (un passo compiuto anche dalla Bundesbank in passato)”.

Vi sono punti di vista diversi; è comprensibile l’attenzione di alcuni alla compatibilità delle OMT con le carte costituzionali dei diversi paesi dell’area dell’euro, ma i dubbi sulla possibilità di un efficace utilizzo delle risorse dell’ESM vanno fugati al più presto per preservare i progressi conseguiti, per salvaguardare i diritti e non vanificare gli sforzi di chi ha contribuito a costituire gli strumenti di sostegno finanziario. L’annuncio delle OMT ha evitato un collasso finanziario con conseguenze potenzialmente devastanti per l’economia europea: ne hanno tratto beneficio tutti i paesi, non solo quelli al centro della crisi dei debiti sovrani.

Più di ogni condizione è però essenziale la comune determinazione a procedere verso una piena Unione europea. La BCE e le banche centrali nazionali hanno dimostrato di essere pronte ad accompagnare questo cammino, continuando a “produrre” la fiducia necessaria. Ma la fiducia non resiste a lungo all’assenza di progressi concreti.

La gestione, all’inizio di quest’anno, della crisi bancaria di Cipro, giunta a soluzione solo dopo che erano emerse difficoltà di coordinamento tra le autorità europee e nazionali, ha ulteriormente messo in evidenza l’importanza del progetto di unione bancaria per spezzare la spirale tra debito sovrano e condizioni delle banche e del credito. La creazione di un supervisore unico, imperniato nella BCE e nelle autorità nazionali, è il primo passo; va completato da uno schema comune di risoluzione delle crisi bancarie e da un’assicurazione comune dei depositi.

Oltre l’unione bancaria ci deve essere la prospettiva di un’unione di bilancio, infine politica. Intervistato da La Repubblica il 6 ottobre del 2008, Padoa-Schioppa notava: “Nel vedere avverarsi una profezia-monito c’è più amarezza che soddisfazione. Parlai, all’inizio dell’euro, dei pericoli di una moneta senza Stato’. Ed è chiaro che ci voleva più Stato europeo, non meno moneta europea: senza l’euro l’Europa vivrebbe oggi giorni di catastrofe. Una delle ragioni del discredito delle classi dirigenti nazionali e della crisi della politica è che si continua ad alimentare l’illusione che i poteri nazionali siano in grado di affrontare problemi (energia, clima, finanza, sicurezza, immigrazione, beni primari) che sono non nazionali, ma continentali e mondiali”.

Queste parole, pronunciate prima dello scoppio della crisi del debito sovrano, sono quanto mai attuali. Occorre continuare ad accrescere il coordinamento delle politiche economiche e strutturali e gli incentivi alle riforme, passare da una gestione di tipo intergovernativo basata sulla peer review delle politiche nazionali all’elaborazione di vere e proprie politiche comuni. Vanno precisati i contorni, definiti i tempi di attuazione, del progetto di un bilancio pubblico comune dell’area dell’euro.

Riforme economiche e politiche non sono tra loro indipendenti: la fiducia nelle prospettive dell’Unione economica e monetaria trarrebbe grande beneficio da nuovi concreti passi nella direzione dell’integrazione politica, anche settoriali. In un saggio di quarantacinque anni fa (Tecnologia ed economia nella controversia sul divario tra America ed Europa) Nino Andreatta già sottolineava quanto sia importante una seria valutazione delle “conseguenze negative dell’esistenza di una pluralità di politiche di acquisto delle amministrazioni nazionali, politiche che sollecitano un inefficiente moltiplicarsi di sforzi di ricerca nei singoli paesi e rallentano la crescita delle dimensioni dei mercati”. La riflessione sull’opportunità, sulla necessità di superare lo stadio del confronto e della cooperazione e passare alla messa in comune da parte dei nostri Stati nazionali di istituti e politiche che hanno impatti di rilievo anche sui bilanci pubblici – in campi diversi quali difesa, ricerca scientifica, infrastrutture (non solo materiali) e altri settori fondamentali dell’attività pubblica – procede da tempo, è matura per sfociare in un concreto processo di riforma.

Ignazio Visco

 


*Si tratta della relazione tenuta il 1° settembre 2013 dal Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, al 32° Seminario di formazione federalista organizzato a Ventotene dall’Istituto Spinelli su “Il federalismo in Europa e nel mondo”.

 

 

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