IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LII, 2010, Numero 1, Pagina 71

 

  

COME TRASFORMARE L’EUROPA IN UN MOTORE ANTI-CRISI? [*]
 
 
Per discutere dell’Europa e della crisi, occorre richiamare ciò che è l’Unione Europea oggi, dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. Dedicherò qualche riga a questo argomento prima di cercare di analizzare il contenuto e le conseguenze della crisi, per esaminare, infine, le risposte che possono essere date dall’Unione Europea.
 
L’Unione Europea oggi.
 
Con il Trattato di Lisbona, frutto di un lungo cammino disseminato di sconfitte (si veda il referendum irlandese) e di tergiversazioni (si veda la posizione ceca), l’Unione Europea si è dotata, dal 1° dicembre 2009, di uno strumento di gestione degli affari correnti che prende il posto del Trattato costituzionale europeo bocciato nel 2005 dalla Francia e dall’Olanda. Non analizzerò il Trattato di Lisbona se non per sottolineare che non contiene alcuna prospettiva per l’Europa, alcuna strategia politica ambiziosa e realista. Peggio, non tiene in alcun conto il risentimento della gente contro la burocrazia di Bruxelles (si veda l’analisi di Le Monde del 20 novembre 2009). Esso conferma che l’Europa ha voltato pagina, dopo la moneta unica, la riunificazione tedesca e i successivi allargamenti: oggi non è altro che un patto di cooperazione e di integrazione a livello di mercato tra paesi eterogenei che non vogliono rinunciare alla loro sovranità e che sperano di affrontare la mondializzazione con gli strumenti dei poteri nazionali e delle istituzioni intergovernative. Il recente vertice sul clima di Copenaghen ha dimostrato che questo metodo porta all’emarginazione dell’Unione Europea. Copenaghen è stato “uno smacco umiliante per l’Europa, incapace di parlare con una sola voce e di occupare il proprio posto, apparendo come a rimorchio, mentre essa è in realtà il solo dei paesi industrializzati ad aver realizzato finora degli sforzi concreti” (Corinne Lepage, eurodeputato). Guy Verhofstadt, ex-Primo Ministro belga, non esita, da parte sua, ad affermare che “Copenaghen è un serio avvertimento che ci riporta con i piedi per terra e ci fa perdere le nostre povere illusioni”. E aggiunge che “l’Europa crollerà nell’ordine mondiale sia dal punto vista economico sia da quello politico se non ci decidiamo subito a lavorare insieme di più e meglio”. L’economista venezuelano Moisès Naim si esprime negli stessi termini: “mentre gli Europei si riuniscono e discutono, il resto del mondo cresce, investe, innova, commercia e supera progressivamente il vecchio continente. Non si tratta di un destino inevitabile. Ma, se in Europa non si verifica un cambiamento profondo, è il destino più probabile”. In queste condizioni come rispondere alla vostra domanda: di fronte al rischio di un ritorno al protezionismo e al massiccio disinteresse della gente nei confronti delle istituzioni europee, come aprire strade di uscita dalla crisi capaci di mobilitare, dal momento che nessun paese può riuscirci da solo? Grosso problema, difficile da affrontare finché i leaders dei nostri Stati europei non hanno la fantasia, o meglio il coraggio, di disegnare i contorni del futuro dell’Europa. Cercherò, in tutta modestia, di portare un contributo a questa problematica, tornando ad analizzare ciò che comunemente chiamiamo “la crisi”.
 
La crisi nella complessità del mondo.
 
Come sapete, ciò che chiamiamo “la crisi” ha la sua origine da una crisi finanziaria del sistema bancario internazionale che, nel quadro della mondializzazione, ha trascinato l’economia in una impasse. Oggi alcuni paesi dell’Unione Europea incontrano difficoltà finanziarie mai finora eguagliate. In Grecia la situazione è drammatica: 300 miliardi di debiti. La situazione non è affatto migliore in Irlanda che sta attraversando la sua più grave recessione dal 1930. La situazione è critica anche in Spagna: un debito del 67% del PIL nel 2010. Queste cifre dimostrano che l’Europa non è stata capace di creare uno spazio economico, sociale e fiscale comune. La crisi – lo si dimentica troppo spesso – non deriva da un improvviso temporale in un cielo fino a quel momento limpido. E’ frutto della realizzazione di un modello di mondializzazione che presenta gravi lacune, un modello iniquo, squilibrato e non duraturo. La crisi ha generato una situazione dell’occupazione estremamente tesa. Secondo l’OIT l’economia mondiale dovrebbe creare 300 milioni di posti di lavoro entro il 2015 per ritrovare – solamente – i livelli di occupazione precedenti la crisi. Lo studio delle crisi passate mette in luce d’altra parte uno sfasamento rilevante tra la ripresa economica e il ristabilimento dell’occupazione. Questo sfasamento è spesso di quattro o cinque anni. Un tale ritardo è socialmente pericoloso: ha un costo personale e sociale elevato che si traduce non solo in perdita di occupazione, ma anche di fiducia in se stessi, con gravi conseguenze sull’aumento dello stress e sulle condizioni di salute. Ma ciò genera anche distorsioni più numerose e più gravi delle norme fondamentali del lavoro (aumento del lavoro nero, del ricorso al lavoro infantile, ampliamento della precarietà, sviluppo di discriminazioni soprattutto verso le popolazioni più esposte, a cominciare dai migranti). Il prolungamento dell’effetto della crisi sull’occupazione è anche causa di comportamenti di scoraggiamento. In Europa è il caso dei giovani e dei senior, che vedono la propria situazione occupazionale deteriorasi di giorno in giorno. Le reazioni provocate dalla crisi si traducono anche in comportamenti nei quali prevale il bisogno di protezione. La ricerca di protezione per fronteggiare la concorrenza commerciale e le delocalizzazioni porta a misure in cui gli egoismi nazionali o locali prevalgono su ogni altra considerazione. Tali comportamenti non risparmiano nemmeno i lavoratori dipendenti. Lo confermano i conflitti verificatisi in occasione di chiusure o di delocalizzazioni di imprese. Spesso il proscenio è stato occupato dalla ricerca di una soluzione individuale di questi conflitti unicamente attraverso un forte premio – che imita, in scala ben più ridotta, i paracadute dorati. Essa è espressione di una inquietante perdita di fiducia nelle soluzioni collettive e nei provvedimenti di formazione/riqualificazione. Domina la sensazione che la fedeltà ad una ditta, il contributo dato ai suoi risultati, non abbiano alcun peso di fronte a ristrutturazioni nelle quali sembra dominare esclusivamente la ricerca del profitto immediato, senza preoccupazioni per le conseguenze sugli uomini e le donne che hanno costruito, giorno dopo giorno questi risultati. E’ quindi urgente portare avanti un’azione europea complessiva che miri a riportare l’occupazione e la sicurezza sociale al centro delle politiche di rilancio. Di fatto, la crisi mette in discussione un certo numero di principi che hanno caratterizzato le politiche economiche dell’Unione europea: deregulation, primato dei criteri economici, spazio esorbitante dato al profitto e alla crescita. Come ha sottolineato la conferenza delle Chiese europee nel maggio 2009, “la crisi è in gran parte una crisi di fiducia nei confronti delle istituzioni politiche e finanziarie e del sistema che l’ha provocata. Tale crisi ha un’importante dimensione etica: le nostre società soffrono di uno stile di vita che si concentra sul profitto individuale, sul consumo e sull’avidità, anziché assumersi responsabilità per l’interesse generale, per il benessere di tutti, per il futuro di ciascuno nel nostro mondo. La crisi economica deve essere vista in collegamento con altri gravi problemi che dobbiamo affrontare: i cambiamenti climatici, la crisi energetica e delle risorse idriche, la carenza alimentare, che hanno un pesante impatto in molte regioni del mondo”. La conferenza delle Chiese europee prosegue: “il problema dell’evoluzione demografica ci obbliga a rivolgerci verso politiche durature. E’ inevitabile una risposta coerente di fronte all’ampiezza dei rivolgimenti politici. Supponendo che tale approccio sia corretto, temiamo che le misure finora prese dall’Unione Europea e dai suoi Stati membri non affrontino il problema, ma si limitino ad agire sui sintomi”. Per le Chiese europee la crisi è una richiesta di cambiamento articolata in cinque aspetti: – tradurre meglio i valori dell’Europa nella politica sociale ed ambientale; – investire maggiormente sulle persone: per l’educazione, la formazione professionale, la formazione permanente, l’innovazione e la ricerca; – ridurre il tasso di disoccupazione restituendo al lavoro il suo posto come elemento centrale della personalità umana; – permettere a ciascuno in Europa di avere una vita dignitosa, assicurando servizi sanitari e sociali di qualità e duraturi; – riconoscere la complessità della crisi attuale, verso la quale nessun individuo, nessuna istituzione ha una risposta completamente soddisfacente, e prendere in considerazione i risultati dei numerosi sondaggi effettuati tra i cittadini dell’UE. Aggiungerei a queste considerazioni delle Chiese la considerazione che le élites si sono distaccate dalle aspirazioni dei cittadini che si sentono stanchi ed abbandonati a se stessi in una giungla spietata dove il più forte schiaccia il più debole, senza preoccuparsi di quanto può accadere a quanti non troveranno la via della riuscita. Bisogna ridare all’Europa i mezzi per realizzare i valori della solidarietà, dell’integrazione e della coesione sociale attraverso un’organizzazione radicalmente diversa da quella oggi esistente. L’Europa sarà un motore anti-crisi solo se si doterà di un governo europeo che oggi non esiste.
 
L’Europa al crocevia.
 
Attualmente, gli Europei sono privi degli strumenti che permetterebbero loro di fronteggiare la crisi economica. Le decisioni economiche, fiscali e di bilancio restano infatti nella mani di 27 governi nazionali. D’altra parte la crisi finanziaria pone il problema del mantenimento di alcuni paesi nella zona dell’euro: può sopravvivere una moneta europea senza essere legata a una politica economica europea? Tale politica ha bisogno che emerga un governo europeo. Esso sarà il governo di un’unione politica che oggi non esiste. Chi dice unione politica dice in realtà federazione europea resa necessaria dalla crisi economica e finanziaria. Per essere efficace, tale unione politica dovrà essere progressivamente costruita sulla base di paesi con situazioni politiche, economiche e sociali compatibili. Questa era l’ambizione dei padri fondatori degli anni ’50. Oggi ne siamo lontani. Di fatto, l’Europa sprofonda in una nebbia sempre più fitta. Lo dimostrano il tasso di astensione (60%) osservato alle ultime elezioni del Parlamento europeo e il disinteresse che circonda ormai il “progetto europeo”. Non voglio attardarmi sulla riconferma di Barroso alla testa della Commissione, di fatto un segretariato generale dell’Unione. Lo stesso vale per la nomina del Presidente dell’Unione e dell’Alto Rappresentante agli affari esteri, i cui ruoli restano da approfondire. Per contro, è più importante il tenore di una sentenza (luglio 2009) della Corte costituzionale tedesca di Karlsruhe. Questa Alta Corte doveva valutare la conformità del Trattato di Lisbona alla costituzione tedesca. I cronisti francesi si sono accontentati di rilevare che la Corte dava il via libera alla promulgazione del trattato. Una simile valutazione è piuttosto restrittiva. La Corte tedesca (Bundesverfassungsgericht) ha di fatto posto con grande chiarezza l’alternativa tra il mantenimento dell’attuale struttura dell’UE, di natura intergovernativa, e una rifondazione del progetto europeo che porta, attraverso un esplicito atto costituente, alla creazione di un vero Stato federale. La Corte sottolinea che è illusorio immaginare un’evoluzione del progetto europeo nel quadro del Trattato di Lisbona.
Solo un atto politico forte, espressione soprattutto della Francia e della Germania, potrà cambiare il destino degli Europei. Ricordiamo il discorso pronunciato il 12 maggio 2000 da Joska Fischer, ministro tedesco degli Affari esteri, all’Università Humboldt di Berlino. Fischer, già allora, sottolineava che l’allargamento a 27 o 30 membri (ci siamo arrivati) avrebbe portato all’erosione dell’UE. Per evitare questa deriva, Fischer preconizzava “un atto deliberato per ristabilire l’Europa”, cioè un patto che istituisse la federazione europea. I governanti francesi dell’epoca, Chirac e Jospin, non hanno ritenuto utile approfondire questa proposta. Hanno oggi una pesante responsabilità di fronte alla storia. Da allora, è arrivata la crisi con il suo carico di drammi e di recessioni che abbiamo ricordato sopra. Siamo costretti a riconoscere che l’Europa, restando un club di Stati sovrani, che rifiutano di armonizzare i loro sistemi fiscali, ha favorito la delocalizzazione dell’occupazione da parte delle imprese che volevano produrre al minimo costo. Intere regioni si sono così ritrovate nell’incapacità di ricostruire un’economia locale che permettesse di vivere alle loro popolazioni (crisi della siderurgia e del tessile in Francia). L’Europa non protegge più i cittadini. Non può rivaleggiare con i paesi che si servono della loro moneta per renderla più competitiva. Gli Stati Uniti e la Cina sono in parte responsabili di questa situazione, ulteriormente aggravata dalla crisi finanziaria del sistema bancario internazionale. Le riunioni dei vari vertici internazionali (G8, G20) non hanno per nulla soffocato la crisi mondiale: le banche che sono state ricapitalizzate continuano a speculare sui mercati. Viene annunciato che i bonus dei banchieri che superino i 27000 euro saranno tassati al 50%. Questo annuncio propagandistico, rifiutato dagli USA, non modificherà per nulla la vita quotidiana dei nostri concittadini. Chi affronterà seriamente la regolamentazione del sistema finanziario internazionale imponendo nuove regole di etica e di trasparenza? E’ molto interessante, a questo proposito, rileggere la recente lettera aperta di Guy Verhofstadt a Van Rompuy, Presidente del Consiglio europeo. Cito: “a partire dagli attentati dell’11 settembre 2001 e dalla crisi finanziaria del settembre 2008, è nato un nuovo ordine mondiale, che è spietato nei confronti delle illusioni nazionali (superate) della maggior parte degli Stati membri europei. La crescita attesa nell’eurozona per il 2010 è solo lo 0,9% del PIL, mentre quella della Cina è del 10%, quella dell’India del 7%, quella del Brasile del 4,8% e quella degli Stati Uniti del 4,4%. Infine, nel 2050, il G7 non sarà più composto da Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Germania, Italia, Giappone e Canada, bensì da Stati Uniti, Cina, India, Brasile, Russia, Messico e Indonesia”. Per Verhofstadt la causa di questa prevedibile evoluzione va cercata nel fatto che l’economia europea è una somma di amministrazioni nazionali ben distinte le une dalle altre, una situazione assurda e insostenibile nell’attuale economia mondiale globalizzata.
Nella zona euro i paesi sono inestricabilmente legati dalla moneta comune. I problemi della Grecia sono rivelatori: anziché formare immediatamente un fronte comune con la Grecia, i dirigenti europei hanno inviato segnali che indicavano che si trattava di una questione che doveva essere risolta dalla Grecia e che i Greci stessi dovevano prendere le misure necessarie. Così si dà in pasto la Grecia ai mercati internazionali di capitali, in altri termini agli speculatori, senza rendersi conto che ciò minaccia altri paesi e che l’euro stesso rischia di essere affondato. Comunque sia, che si tratti di Haiti, della Grecia o di Copenaghen, la ragione del fallimento è sempre la stessa: è perché gli Stati membri continuano tenere le redini e perché l’Europa non ha né il potere né gli strumenti necessari per prendere in considerazione un approccio comune e ancor meno per imporlo. Jacques Attali ha perfettamente messo in evidenza che l’Europa stava uscendo dalla storia, cioè: perdendo i suoi principali mercati, assistendo al fatto che le sue imprese più competitive divenivano oggetto di scalate o erano imitate e sottoposte a una concorrenza spietata, vedendo emigrare i suoi centri di decisione e le sue élites, cessando di essere un attore dei grandi avvenimenti mondiali. Questa uscita ha una ragione molto semplice: l’assenza di una struttura politica di carattere federale, l’assenza di volontà politica dei nostri dirigenti. Certamente, abbiamo i dirigenti che ci meritiamo; ci portano alla catastrofe come ci hanno portato all’impasse quelli che, nella primavera del 2005, hanno sostenuto il no al TCE. Questi ultimi hanno una pesante responsabilità nell’attuale sfaldamento dell’UE. L’Europa non è un motore anti-crisi. Lo diventerà solo il giorno in cui si trasformerà in una entità politica. Ho paura che sia troppo tardi, a meno che non compaiano già da ora uomini e donne di Stato, lucidi, coraggiosi, competenti e convinti, contemporaneamente critici feroci e guide e che ci mostrino lo stretto cammino (citazione di Jacques Attali).
 
Yves Lagier
 
 


[*] Si tratta di una conferenza tenuta all’Université Populaire di Belfort (Francia) il 23 marzo 2010.

 

 

 

il federalista logo trasparente

The Federalist / Le Fédéraliste / Il Federalista
Via Villa Glori, 8
I-27100 Pavia