Anno XXIV, 1982, Numero 2-3, Pagina 105
I PROGETTI DI RIFORMA
DELLE ISTITUZIONI COMUNITARIE
Con le risoluzioni approvate il 9 luglio 1981 e il 6 luglio 1982 il Parlamento europeo ha preso l’iniziativa di riproporre il problema della riforma delle istituzioni comunitarie nella sua duplice dimensione. In primo luogo ha rivendicato la necessità di rafforzare la propria influenza nel processo decisionale della Comunità, utilizzando tutte le possibilità aperte dai trattati. Ma ha anche avviato la procedura per elaborare delle proposte di modifica dei trattati relative ai compiti della Comunità e alla sua istituzione. Si tratta di un problema che è ormai indispensabile approfondire per rendere l’azione della Comunità più efficace e il funzionamento delle sue istituzioni più conforme ai principi democratici.
Nella prospettiva del ruolo costituente che il Parlamento europeo ha deciso di assumere, può essere utile una ricognizione dell’evoluzione istituzionale delle Comunità europee e una rassegna delle principali proposte di riforma delle istituzioni, avanzate finora dai governi o da personalità politiche o da gruppi di lavoro appositamente incaricati dalle istituzioni comunitarie. Le pagine che seguono intendono prendere in esame questa materia al fine di inquadrare tanto le proposte realizzate quanto quelle che sono rimaste sulla carta nel processo evolutivo delle istituzioni comunitarie. Sulla base di questa analisi sarà possibile cercare di individuare le ragioni che hanno favorito o hanno impedito la realizzazione di questi progetti.
Il nuovo impulso che il Parlamento europeo ha deciso di dare alla costruzione dell’unità politica europea rappresenta uno dei primi effetti positivi del voto europeo. E il rafforzamento del potere del Parlamento, conseguente all’elezione diretta, rappresenta la migliore premessa per una soluzione efficace del problema.
Natura delle istituzioni comunitarie.
La creazione di nuove istituzioni o lo sviluppo di quelle esistenti, al fine di adeguarle ai sempre nuovi problemi che devono essere affrontati fuori dal quadro nazionale, costituisce un’esigenza costantemente presente nella vita politica europea dopo la seconda guerra mondiale. Si può addirittura affermare che questa esigenza è costitutiva della natura delle istituzioni europee, le quali hanno carattere transitorio. Sono state concepite cioè come strumenti per gestire la transizione dell’Europa occidentale dalla divisione all’unità.
Il loro fondamento storico sta nell’impossibilità, manifestatasi dopo la seconda guerra mondiale, in corrispondenza con la fine del sistema europeo e con la formazione del sistema mondiale degli Stati, di controllare entro i ristretti confini degli Stati nazionali l’economia e la sicurezza.
La contraddizione, che comincia a manifestarsi fin dall’inizio del processo di unificazione europea e che tende ad aggravarsi a ogni fase di sviluppo del processo, consiste nella progressiva estensione del numero dei problemi che non possono più essere risolti sul piano nazionale ed esigono quindi soluzioni europee, cui corrisponde la dimensione nazionale dell’organizzazione del potere politico (governi, parlamenti, partiti). Di qui la necessità per i governi nazionali di collaborare tra di loro, di prendere decisioni sul piano europeo e di creare istituzioni adeguate a questo compito.
Abbiamo visto che la transitorietà è un carattere costitutivo di queste istituzioni, le quali sono incompiute, perché devono adeguarsi continuamente ai nuovi compiti posti dal processo di unificazione dell’Europa, e diventeranno stabili solo quando avranno raggiunto lo stadio della federazione. Questo è il punto di arrivo che i fondatori dell’Europa comunitaria individuarono fin dal momento in cui furono compiuti i primi passi sulla via dell’unità.
Nel documento che illustra i principi ispiratori della prima Comunità europea, la CECA, l’obiettivo della Federazione europea è esplicitamente indicato come il traguardo del processo di integrazione economica. Nella dichiarazione pronunciata il 9 maggio 1950 dal ministro degli esteri francese Robert Schuman si legge: «Con la messa in comune di produzioni di base e l’istituzione di una nuova Alta Autorità, le cui decisioni vincoleranno la Francia, la Germania e gli altri paesi che aderiranno, questa proposta realizzerà le prime basi concrete di una Federazione europea, indispensabile al mantenimento della pace».[1]
Si pone a questo punto il problema di definire la natura delle istituzioni comunitarie. Va subito osservato che sarebbe inesatto definire la Comunità semplicemente come una confederazione. L’originalità della Comunità consiste nel fatto che il suo ordinamento istituzionale è il risultato dell’intreccio di istanze confederali e federali. Esso concilia la difesa degli interessi nazionali con la necessità di prendere decisioni comuni, che rappresenta l’aspetto tipico delle confederazioni. Ma, nello stesso tempo, è stato concepito in modo da aderire alla gradualità del processo di unificazione, il quale, creando una «solidarietà di fatto»[2] tra gli Stati sempre più profonda (l’espressione è di Monnet), sottopone a una tensione permanente le istituzioni comunitarie e tende a farle evolvere fino al traguardo dell’unione federale.
Da una parte, c’è il Consiglio, l’organo intergovernativo, nel quale risiede di fatto la sostanza del potere, che rappresenta l’elemento internazionale delle organizzazioni economiche europee. D’altra parte, ci sono il Parlamento, la Commissione (cui corrisponde l’Alta Autorità nella CECA) e la Corte di giustizia, che partecipano in posizione subordinata, ma con una relativa autonomia, al raggiungimento degli obiettivi della Comunità, e prefigurano gli organi legislativi, esecutivi e giudiziari della Federazione europea. Nei trattati istitutivi delle tre Comunità esistono elementi che anticipano gli sviluppi futuri del processo di unificazione europea anche sul piano istituzionale e confermano il proposito dei fondatori delle istituzioni europee di trasformare la Comunità in uno Stato federale. Ci limitiamo a segnalarne i più rilevanti.
In primo luogo, è prevista, dopo una fase transitoria, l’elezione a suffragio universale del Parlamento europeo, in conseguenza della quale quest’ultimo diventa il primo organo della Comunità che fonda i suoi poteri su un’investitura sovrannazionale (a differenza del Consiglio, dell’Alta Autorità, della Commissione e della Corte di giustizia, i cui membri sono scelti dai governi nazionali), e tende così ad accrescere la sua indipendenza dagli Stati e a sviluppare la propria capacità di iniziativa nella lotta per il rafforzamento dei poteri della Comunità.
In secondo luogo, la censura della Commissione (come dell’Alta Autorità) da parte del Parlamento europeo configura un rapporto di responsabilità della prima nei confronti del secondo, il meccanismo costituzionale che caratterizza le relazioni tra governo e parlamento nei regimi parlamentari.
In terzo luogo, nei settori relativi alle competenze attribuite alla Comunità, sul piano interno, i regolamenti hanno il valore di norme direttamente efficaci, e quindi direttamente applicabili, senza che debbano intervenire provvedimenti legislativi nazionali di attuazione, e, sul piano internazionale, la Comunità ha il potere di stipulare accordi con gli altri Stati. In settori limitati la Comunità ha dunque la possibilità di agire già come uno Stato.
In quarto luogo, la Corte di giustizia è riuscita ad affermare il principio del primato del diritto comunitario sul diritto nazionale, con il risultato di limitare la sovranità di quest’ultimo.
In quinto luogo, il principio dell’indipendenza finanziaria della Comunità, fondata sulla creazione di risorse proprie, ha lo scopo di rendere l’attività comunitaria autonoma dagli Stati. La realizzazione di questo principio, disposta fin dall’entrata in vigore del trattato della CECA, è previsto che avvenga progressivamente, dopo la conclusione del periodo transitorio, anche nel trattato istitutivo della CEE (si tratta di un processo in corso).
In sesto luogo, le materie di competenza comunitaria, dalla gestione dell’unione doganale e del mercato agricolo allo sviluppo di politiche comuni in numerosi settori, come quello industriale, regionale, sociale, delle relazioni commerciali esterne e dell’aiuto ai paesi in via di sviluppo, non possono essere definite semplicemente come materie di carattere economico e settoriale. Esse hanno una grande rilevanza politica, anche se non comprendono la politica estera e la difesa. Esiste infatti una componente politica nel processo di integrazione economica, che Walter Hallstein, l’ex Presidente della Commissione della CEE, ha così definito: « Ciò che viene integrato è la partecipazione dello Stato alla determinazione dei dati, delle condizioni dell’attività economica».[3] Una ragione ulteriore per ritenere che la Comunità sia qualcosa di più di una confederazione sta nel fatto che la preparazione delle politiche comunitarie ha determinato lo sviluppo di un vero e proprio apparato burocratico alle dipendenze della Commissione con compiti analoghi a quelli che la pubblica amministrazione svolge nell’ambito degli Stati.
Sembra dunque legittimo concludere questo sommario esame della struttura e delle competenze della Comunità, affermando che questa istituzione possiede degli elementi di federalismo allo stato latente. Considerate staticamente, le istituzioni definite dai trattati hanno natura confederale. Tuttavia, la necessità di prendere decisioni europee in settori sempre più ampi, che è la conseguenza del processo di unificazione, sottopone le istituzioni comunitarie a una tensione costante. Tende cioè verso il superamento dei limiti di tali istituzioni e a farle evolvere verso la loro trasformazione in senso federale.
La CECA.
Definita schematicamente la natura delle istituzioni comunitarie, è ora possibile prendere in esame l’evoluzione di tali istituzioni e i tentativi, a volte riusciti e a volte falliti, di spingere gli Stati verso un’unità sempre più stretta.
Il contesto nel quale fu istituita la prima Comunità europea, la CECA, e si tentò di affiancare ad essa una Comunità europea di difesa (CED), è quello della guerra fredda, che aveva spinto gli Stati Uniti e il Regno Unito a proporre nel 1949 la restituzione alla Germania occidentale della piena sovranità economica e militare, allo scopo di farla partecipare alla difesa dell’Occidente. Di fronte alla prospettiva della rinascita del nazionalismo e del militarismo tedesco, i governi europei accettarono l’alternativa proposta dalla Francia, su iniziativa di Jean Monnet, di sottoporre a un’autorità europea i due tradizionali pilastri della potenza della Germania: l’industria carbosiderurgica e l’esercito (Piano Schuman e Piano Pleven dai nomi del ministro degli esteri e di quello della difesa della Francia).
La rilevanza storica della CECA sta in due acquisizioni.
La prima fu la formazione della piattaforma a sei, cioè di quel raggruppamento di paesi più piccolo di quello facente parte del Consiglio d’Europa, nell’ambito del quale la crisi dello Stato era più profonda e che quindi poteva essere la sede di progressi più rapidi sulla via di una più stretta unione. La seconda fu la sperimentazione di un modello istituzionale, che porterà l’Europa a rafforzare la sua unità e ad accrescere la sua influenza internazionale.
Va però sottolineato il limite della CECA, che risiede non solo nel carattere parziale dell’integrazione che avviava (è praticamente impossibile attuare una politica efficace nel settore carbosiderurgico senza controllare l’insieme del sistema economico), ma anche nella concezione istituzionale che la ispirava. Com’è noto, il trattato, mentre affida all’Alta Autorità non solo tutto il potere di decisione, ma anche funzioni esecutive, attribuisce al Consiglio e all’Assemblea compiti quasi esclusivamente consultivi. Tuttavia il funzionamento delle istituzioni dimostrò che l’Alta Autorità non era in grado di raggiungere gli obiettivi del trattato senza il sostegno degli Stati. Alle competenze attribuite all’Alta Autorità non corrispondevano reali poteri per esercitarle. La prassi politica, discostandosi notevolmente dalla lettera del trattato, portò al centro del sistema il Consiglio, l’organo che rappresenta i governi nazionali, cioè i soli effettivi centri di potere, i quali dispongono della forza materiale (militare ed economica) e della legittimazione democratica, che sono requisiti indispensabili per condurre un’azione politica indipendente. Così l’Alta Autorità, essendo priva di un potere politico indipendente, si dimostrò capace di agire solo se sorretta dal consenso degli Stati.
La CED e l’Assemblea ad hoc.
D’altra parte, la CED, nella sua formulazione originaria, era stata concepita sul modello della CECA con un Commissariato al posto dell’Alta Autorità. Il limite del progetto consisteva nella illusione, denunciata subito dal Movimento federalista, che fosse possibile creare un esercito europeo senza un governo europeo. In effetti, l’esercito, a differenza del carbone e dell’acciaio, non era un settore limitato della vita sociale suscettibile di essere messo in comune dai governi nazionali senza modificare immediatamente e in modo sostanziale la struttura degli Stati. L’esercito è l’oggetto di una prerogativa fondamentale della sovranità. Di conseguenza, la contraddizione di un esercito europeo senza governo e di sei governi senza esercito aprì lo spazio a un’iniziativa costituzionale, di cui fu protagonista Altiero Spinelli, che andava al di là del metodo funzionalistico e aveva come obiettivo di affidare a un’assemblea costituente il compito di elaborare la costituzione della Comunità politica europea. L’11 dicembre 1951, nel corso di una riunione del Consiglio dei ministri della CECA, De Gasperi, facendo proprio il punto di vista dei federalisti, riuscì a far approvare il principio secondo il quale l’Assemblea della CED sarebbe stata investita del compito di mettere allo studio l’organizzazione di carattere definitivo «a struttura federale o confederale» dell’Europa dei sei, fondata «sul principio della separazione dei poteri e comportante, in particolare, un sistema rappresentativo bicamerale», come si legge nell’articolo 38 del Trattato della CED.[4] Questo articolo, come osservò Spinelli, aveva tre difetti: «La messa in moto della procedura costituzionale era subordinata alla ratifica della CED. L’Assemblea della CED era incaricata non già di redigere un progetto di patto, ma di studiare il problema e di trasmettere successivamente i risultati di tali studi a una conferenza diplomatica. Il mandato costituzionale assegnato alla CED era infine quanto mai confuso».[5]
Grazie all’iniziativa dell’Unione europea dei federalisti e del Movimento europeo (alla cui guida era salito Paul-Henry Spaak, il quale aveva lasciato la Presidenza del Consiglio d’Europa per potersi battere in modo più efficace e più diretto per la creazione di un potere federale europeo), sostenuta subito da De Gasperi e accolta poi da Schuman e da Adenauer, il Consiglio dei ministri della CECA operò per superare i limiti dell’articolo 38. Il 10 settembre 1952, il giorno stesso dell’inaugurazione dell’Assemblea della CECA, il Consiglio dei ministri decise di non attendere la ratifica della CED e di affidare all’Assemblea allargata della CECA (integrandola con altri nove membri, in modo che la sua composizione corrispondesse a quella dell’Assemblea della CED) il compito di «elaborare» (e non solo di studiare) «un progetto di trattato istituente una Comunità politica europea».[6] Con una ipocrisia cui spesso ricorre il linguaggio politico per nascondere la verità, l’Assemblea della CECA nello svolgere il suo mandato, si autodefinì « Assemblea ad hoc» e non « Assemblea costituente », come pure fu proposto da un suo membro, François de Menthon.[7]
La procedura impiegata per elaborare il testo del trattato istitutivo della Comunità politica europea si differenzia radicalmente da quella utilizzata per definire la struttura e le competenze delle altre istituzioni che hanno segnato le tappe più significative della costruzione dell’unità europea. I rappresentanti del popolo erano intervenuti solo alla conclusione del processo decisionale, attraverso la ratifica dei parlamenti nazionali. Di conseguenza, a questi ultimi era stata offerta soltanto l’alternativa di approvare o respingere in blocco il progetto. Con l’Assemblea ad hoc, per la prima volta, la responsabilità di elaborare il progetto istituzionale fu affidata a un’assemblea parlamentare.[8]
Questo metodo di lavoro consentì di eludere la naturale tendenza dei governi ad affidare il mandato a una conferenza diplomatica, nella quale avrebbe prevalso la logica della conservazione nazionale e la procedura delle decisioni all’unanimità. Invece, in seno all’Assemblea ad hoc, le aspirazioni favorevoli all’unità politica europea fino ad allora incanalate dalle istituzioni nazionali, e quindi divise e impotenti, avrebbero avuto la possibilità concreta di esprimersi in modo democratico. D’altra parte, i nemici della riforma istituzionale sarebbero stati costretti a uscire allo scoperto e a pronunciarsi apertamente sull’alternativa politica europea. Solo il mandato costituente era formulato ancora in maniera ambigua, come nell’articolo 38 del trattato della CED. La struttura della Comunità politica europea era definita come «federale o confederale». Tuttavia il progetto costituzionale elaborato dall’Assemblea ad hoc, malgrado la sua struttura contraddittoria, possedeva delle potenzialità che avrebbero fatto evolvere l’organizzazione dell’Europa dei Sei verso lo sbocco federale.[9]
Vediamo quali erano gli elementi costitutivi fondamentali del progetto. Un parlamento bicamerale, al quale era attribuito il potere legislativo, formato da una Camera dei popoli eletta a suffragio universale diretto e da un Senato, composto dai rappresentanti dei parlamenti nazionali. Un esecutivo bicefalo, composto dal Consiglio esecutivo europeo, il cui presidente era eletto dal Senato e i cui membri erano nominati e potevano essere sostituiti dal presidente, e dal Consiglio dei ministri, composto dai rappresentanti dei governi nazionali. Va aggiunto che il Consiglio esecutivo era responsabile di fronte al Parlamento (la Camera dei popoli poteva rovesciare il Consiglio esecutivo con una maggioranza dei tre quinti dei propri membri, e il Senato poteva censurare il presidente del Consiglio esecutivo, costringendolo a dimettersi e nominando nello stesso tempo un nuovo presidente), mentre il Consiglio dei ministri aveva il compito di armonizzare l’azione del Consiglio esecutivo con quella dei governi nazionali, esprimendo il proprio parere conforme (sulle questioni più importanti, come il bilancio della Comunità, la politica estera o la revisione dello Statuto, all’unanimità) sugli atti del Consiglio esecutivo. Infine lo Statuto prevedeva l’istituzione di una Corte di giustizia con funzioni giurisdizionali e di un Consiglio economico e sociale con funzioni consultive. Le competenze attribuite alla Comunità politica erano quelle relative al mercato comune del carbone e dell’acciaio e alla difesa comune, alla progressiva realizzazione di un mercato comune fondato sulla libera circolazione delle merci, dei capitali e della manodopera, alla stipulazione di accordi internazionali, alla costituzione di un proprio apparato amministrativo, alla imposizione fiscale diretta nei confronti dei cittadini e all’esazione di contributi degli Stati.
La struttura della Comunità politica si discostava dal modello federale per il modo in cui era organizzato l’esecutivo. Come abbiamo visto, il Consiglio esecutivo europeo era affiancato dal Consiglio dei ministri, un organo di carattere confederale, attraverso il quale i governi nazionali partecipavano alla formazione delle decisioni sul piano europeo. La Comunità era dunque un organismo ibrido («né una confederazione né uno Stato federale»,[10] come si legge nella Relazione che accompagna il progetto di trattato elaborato dall’Assemblea ad hoc). Tuttavia si può sostenere che la Comunità politica, considerata dal punto di vista dinamico, fosse uno Stato. Certo, si trattava di uno Stato ancora in forma embrionale e non ancora dotato di tutte le sue prerogative costituzionali, sia pure di uno Stato con poteri limitati come quello federale. In effetti, la creazione di una Comunità, che si fondava sul suffragio universale diretto, avrebbe determinato uno squilibrio evolutivo nella costruzione europea e sviluppato la tendenza a rafforzare il carattere federale delle istituzioni europee, estendere i loro poteri dal settore militare a quello economico-monetario, acquisendo così il carattere di un vero e proprio Stato federale.
Il progetto costituzionale dell’Assemblea ad hoc, approvato all’unanimità con cinque sole astensioni, fu trasmesso al Consiglio dei ministri, dove incontrò le opposizioni e le resistenze che è ovvio attendersi da un organismo diplomatico, quando si trova a prendere posizione su un documento che prevede la limitazione del potere dei governi nazionali. Ma la prevalente volontà di affossare lo Statuto della Comunità politica europea, che era emersa nel corso del 1953, derivava da un mutamento avvenuto nel contesto politico internazionale: l’attenuazione della guerra fredda a seguito della morte di Stalin. Inoltre, dal giugno 1954, in Francia una maggioranza contraria alla CED controllò il governo diretto da Mendès-France.
Com’è noto, la battaglia per la CED fu perduta per pochi voti all’Assemblea nazionale francese il 30 agosto 1954, dopo che il trattato era stato ratificato dalla Germania federale e dai paesi del Benelux; e con la CED cadde anche il progetto di istituire la Comunità politica europea. Ma il problema dell’unificazione politica è rimasto aperto, malgrado lo sviluppo del Mercato comune. Anzi, l’esigenza di rafforzare l’unità europea si è riproposta con più forza proprio dopo il completamento dell’unificazione doganale. E ciò testimonia la validità della sfortunata battaglia costituzionale, che affiancò il progetto della CED.
La CEE e l’Euratom.
La conseguenza immediata della caduta della CED fu il riarmo tedesco, precisamente il risultato che gli avversari dell’esercito europeo avevano sostenuto di voler evitare. Esso fu accompagnato dall’ingresso della Germania federale nella NATO e dalla costituzione di un’alleanza militare di tipo tradizionale, l’UEO, la quale lasciava interamente nelle mani dei governi nazionali il controllo degli eserciti. Nello stesso tempo, fu deciso il rilancio del processo di unificazione europea con la costituzione, il 25 marzo 1957, della Comunità economica europea (CEE) e dell’Euratom (CEEA). I governi decisero dunque di far progredire l’unificazione europea sul terreno economico, cioè secondo la linea di minor resistenza, in modo da eludere il problema della cessione della sovranità a favore di un centro di potere sovrannazionale. L’obiettivo di questa organizzazione economica era di realizzare l’unione doganale (in 12 anni), la libera circolazione delle persone, dei servizi e dei capitali, un mercato agricolo comune, l’armonizzazione delle politiche economiche e sociali e di favorire (Euratom) lo sviluppo dell’industria nucleare.
Gli autori dei trattati di Roma, quando elaborarono le strutture comunitarie, tennero conto dei limiti più gravi messi in luce dal funzionamento della CECA. Fu quindi scartata la scelta di concentrare il potere legislativo e il potere esecutivo in un organo tecnocratico indipendente dai governi nazionali, come l’Alta Autorità. Il potere normativo fu affidato al Consiglio, l’organo composto dai ministri designati dagli Stati-membri, per aderire alla realtà di un processo di integrazione che, almeno all’inizio, lasciava intatte le sovranità nazionali.
A causa della sua composizione, il Consiglio opera più come una conferenza diplomatica che come un’assemblea legislativa, si riunisce a porte chiuse e decide, eccetto che su questioni marginali, all’unanimità.
Alla Commissione, l’istituzione più indipendente dai governi nazionali, fu assegnato il potere esclusivo di iniziativa nel processo decisionale comunitario e il potere di esecuzione delle decisioni del Consiglio. Al Parlamento fu attribuita una funzione quasi esclusivamente consultiva in relazione alle proposte della Commissione e il potere di censurare quest’ultima, obbligandola così alle dimissioni.
L’evoluzione istituzionale della Comunità ha visto consolidarsi una prassi che, per certi aspetti, si discosta dal quadro previsto dai trattati. La configurazione assunta dalla costituzione materiale della Comunità ha fatto emergere il ruolo centrale del Consiglio nel processo decisionale in misura ancora superiore rispetto alla previsione dei trattati. Il Consiglio tende in effetti a riunire nelle proprie mani il potere legislativo e il potere esecutivo. Ma perché il processo di formazione delle decisioni politiche potesse funzionare conformemente alla lettera dei trattati sarebbe stato necessario che la Commissione (e il Parlamento) potessero esercitare i loro poteri in piena autonomia rispetto ai governi nazionali.
Questa è anche l’opinione di Paul Delouvrier, il quale prese parte ai lavori preparatori dei Trattati di Roma. In una conferenza tenuta nel 1956 egli affermò: «Tutti gli esperti presenti a Bruxelles sapevano già in anticipo che, per costruire un reale mercato comune, un’autorità soprannazionale sarebbe stata necessaria. Oggi, lo Stato assume responsabilità economiche di grande importanza. E infatti, se c’è una crisi, chi è responsabile? Il governo. Se c’è inflazione? Il governo. Nei nostri tempi l’opinione pubblica considererebbe assurda l’organizzazione di un mercato comune senza un’autorità che vi presieda».[11]
Il modo corretto di affrontare la questione, secondo Delouvrier, è quello dell’Assemblea ad hoc. «Fu stabilito che i poteri esecutivi europei istituiti dal trattato avrebbero disposto dei poteri economici dei vari Stati dopo un periodo di cinque anni e tutto il problema dell’integrazione economica fu risolto in un solo articolo. Ora,» egli commenta, «io non mi sento di criticare questa risoluzione che ritengo logicamente la migliore; logicamente, perché i logici ci diranno che, alla fin dei conti, l’Europa economica può essere creata nella sua interezza solo da un’Europa politica che esista già prima, ossia da istituzioni politiche europee. I logici dunque hanno tutte le ragioni: ma sta di fatto che la questione europea, dall’A alla Z, è nata in modo completamente illogico ed è motivo di conforto, non forse per i professori, ma certo per i ministri e in ogni caso per gli esperti, che le cose siano andate così».[12] Analoghe osservazioni valgono per il rapporto tra mercato comune e moneta. Delouvrier ricorda che gli esperti di Bruxelles erano «consapevoli della fondamentale importanza che i problemi monetari hanno per un mercato comune o per una unione economica». Il fatto è che essi «temono i governatori delle banche centrali», i quali «sperano nella convertibilità anziché nella unificazione europea che forse finirebbe con la istituzione di una banca centrale pubblica».[13]
Di conseguenza, la Comunità nacque senza affidare alla Commissione (e al Parlamento) il governo dell’economia europea e senza assegnare alla Comunità competenze monetarie. Probabilmente questo era il solo modo concreto con il quale era possibile a quell’epoca affrontare il problema dell’unificazione economica, stante la resistenza strutturale che le istituzioni nazionali oppongono al trasferimento del potere a favore delle istituzioni europee e l’assenza di problemi drammatici (come quello della ricostruzione della Germania negli anni 1950-54) che spingessero i governi nazionali a cedere una parte del loro potere.
Ciò non pregiudicò lo sviluppo dell’unificazione europea, impresa che era relativamente facile, fino alla realizzazione dell’unione doganale e del mercato agricolo comune. Gli obiettivi dell’Euratom si realizzarono invece solo in minima parte per la resistenza che oppose la Francia, l’unico paese dell’Europa dei Sei dotato di armi nucleari, a mettere in comune un settore di così grande rilevanza strategica e per la mancata attribuzione alla Comunità delle competenze necessarie a organizzare una politica globale dell’energia.
E l’equilibrio istituzionale della Comunità, come era inevitabile in mancanza di un vero potere politico europeo, si è spostato decisamente a favore del Consiglio, con la conseguenza che nel processo decisionale è prevalso il metodo del negoziato intergovernativo.
Fin dall’entrata in vigore dei trattati di Roma nel gennaio 1958 il Consiglio dei ministri costituì un nuovo organo (non previsto dai trattati e successivamente legittimato dal trattato di fusione degli esecutivi nel 1965), il Comitato dei rappresentanti permanenti (COREPER). Si tratta di un comitato di diplomatici che rappresentano i governi, affiancano il lavoro della Commissione e ne condizionano le decisioni. In sostanza, esso interviene proprio nella fase dell’elaborazione delle proposte, che, secondo i trattati, dovrebbe appartenere alla sfera dell’autonomo potere di iniziativa della Commissione. Di conseguenza, la Commissione non formula mai proposte che non abbiano la possibilità di essere accettate dal Consiglio. La sua funzione è stata confinata dalla estensione dello spazio occupato dal Consiglio a un ruolo subalterno di mediazione tra gli interessi nazionali e di esecuzione tecnica. Così i già limitati poteri consultivi e di controllo del Parlamento europeo sono stati a loro volta ulteriormente ridimensionati. In particolare, il potere del Parlamento di censurare la Commissione non è mai stato esercitato, perché né l’uno né l’altra sono centri di potere indipendenti, dotati rispettivamente del potere legislativo e del potere esecutivo. Nella sostanza, entrambi i poteri sono concentrati nelle mani del Consiglio, con la conseguenza che gli altri organi della Comunità sono ridotti a un ruolo subalterno.
Il Piano Fouchet e la confederazione europea.
Il successo del Mercato comune (la cui base politica risiedeva nel declino della sovranità degli Stati europei, nella convergenza dei loro interessi fondamentali e nelle caratteristiche della prima fase dell’egemonia americana) e il conseguente rafforzamento dell’Europa, posero il problema di estendere la collaborazione tra gli Stati dal terreno economico a quello della politica estera e della difesa. L’iniziativa in questo senso venne dal Presidente della Francia, de Gaulle, il quale il 5 settembre 1960, nel corso di una conferenza-stampa, formulò la proposta di organizzare i Sei paesi aderenti alla Comunità in una confederazione.[14]
Nel corso di due conferenze al vertice tra i Sei, convocate a Parigi e a Bonn nel febbraio e nel luglio del 1961 per prendere in esame le proposte di de Gaulle, fu raggiunta un’intesa sugli obiettivi del piano di unione e furono definite le procedure per elaborare il piano. L’obiettivo del progetto era di rafforzare la cooperazione tra gli Stati al fine di «dare un carattere statutario all’unione dei popoli».[15] I compiti da attribuire all’Unione avrebbero dovuto essere la politica estera e la cultura. Va rilevato che, rispetto alla proposta di de Gaulle, non si menzionava più la difesa. Inoltre il Parlamento europeo era invitato a estendere il campo della propria attività alle nuove materie che erano oggetto della cooperazione tra gli Stati. Quanto alla procedura, si stabilì che dell’elaborazione del progetto di trattato fosse incaricata una commissione composta dai rappresentanti dei governi, un organismo nel quale sarebbero fatalmente prevalse le preoccupazioni relative alla difesa degli interessi nazionali.
Il progetto che fu preso in esame, noto con il nome di Piano Fouchet, dal nome del Presidente della commissione, di cui si conoscono due successive versioni, prevedeva sostanzialmente riunioni regolari (tre volte all’anno) e straordinarie (su richiesta di uno Stato) dei Capi di Stato o di governo e, negli intervalli, almeno una riunione dei ministri degli esteri (questo organismo, denominato Consiglio, deliberava all’unanimità); un’Assemblea parlamentare con poteri consultivi; una Commissione politica europea, composta di funzionari dei ministeri degli esteri, con il compito di preparare ed eseguire le decisioni del Consiglio. Le competenze dell’Unione riguardavano l’adozione di una politica estera e di difesa comuni e la cooperazione in campo culturale; inoltre il secondo Piano Fouchet aggiungeva l’economia tra gli obiettivi dell’Unione, mentre nel primo piano l’assorbimento delle Comunità in seno all’Unione era indicato come un obiettivo della revisione del trattato tre anni dopo la sua entrata in vigore.
Il piano non incontrò il consenso degli altri cinque governi, i quali erano convinti che si trattasse di una manovra del governo francese diretta a imporre la propria egemonia sul resto dell’Europa. Le principali divergenze con la Francia riguardavano l’uso del voto a maggioranza in seno al Consiglio dei ministri e il rispetto delle competenze della Comunità europea e dei legami dei Sei con la NATO. Ma al centro del conflitto c’era la questione dell’ingresso della Gran Bretagna nella Comunità.
L’equazione tra sostenitori dell’adesione britannica alla Comunità e sostenitori dell’unificazione europea si fondava sul falso presupposto che la Gran Bretagna avrebbe favorito lo sviluppo del processo unitario. La storia ha dimostrato che l’allargamento della Comunità lo ha semmai rallentato. In primo luogo, per la maggiore diversità degli interessi da conciliare, derivante dai problemi connessi con l’adattamento sul piano economico e politico dei nuovi membri alla realtà di un processo di unificazione che era iniziato vent’anni prima tra i Sei. E inoltre, per le più gravi difficoltà a raggiungere un accordo e a prendere le decisioni, derivanti semplicemente dall’aumento del numero dei membri della Comunità.
La questione britannica comportava per i Sei delle scelte di fondo nel settore della politica internazionale. In questione era sia l’alternativa tra la diluizione dell’unità con l’allargamento e il consolidamento dei vincoli unitari tra gli Stati fondatori della Comunità, sia il dilemma del rafforzamento dell’Alleanza atlantica (date le «relazioni speciali» tra Gran Bretagna e Stati Uniti) o della progressiva emancipazione dell’Europa dall’egemonia degli Stati Uniti. Alla base del conflitto tra la Francia e i suoi cinque partners c’era anche il fatto che la Gran Bretagna era considerata come un elemento capace di esercitare un efficace contrappeso nei confronti delle velleità egemoniche della Francia. Il Belgio e i Paesi Bassi condizionarono addirittura l’accettazione del progetto di confederazione politica all’adesione britannica. Di conseguenza, dopo che de Gaulle nel gennaio 1963 impose la rottura delle trattative con gli Inglesi, fallirono anche i negoziati sul Piano Fouchet.
De Gaulle era un nazionalista. Sosteneva il primato e l’ineliminabilità della realtà nazionale. Ma poiché viveva nell’epoca della crisi dello Stato nazionale, era diventato europeista. Naturalmente, la sua concezione dell’unità europea era di tipo confederale. Egli concepiva le Comunità europee come semplici organi di cooperazione del tutto subordinati ai governi nazionali e si proponeva di rendere efficace questa cooperazione, fondandola sull’asse franco-tedesco. La proposta di estendere la collaborazione tra gli Stati sul piano della politica estera e della difesa rappresentava tuttavia, in quella situazione politica, un rafforzamento dell’unità tra i paesi della Comunità e la condizione per avviare il processo di emancipazione dagli Stati Uniti. Jean Monnet aveva osservato: «una confederazione porterà un giorno a una federazione… La confederazione avrebbe il più grande vantaggio di assicurare l’opinione pubblica dei nostri paesi che sono entrati in un’entità non più soltanto economica, ma politica».[16]
I cinque partners della Francia erano abbastanza forti da far fallire il Piano Fouchet, ma la proposta di de Gaulle aveva un solido fondamento politico. E lo dimostra il fatto che almeno una parte di essa sarà realizzata con l’istituzione del Consiglio europeo dei capi di Stato o di governo nel 1974 subito dopo l’adesione della Gran Bretagna alla Comunità. Il surrogato del Piano Fouchet fu il trattato franco-tedesco di cooperazione, firmato il 22 gennaio 1963 da de Gaulle e da Adenauer. Esso stabiliva che i capi di Stato o di governo, i ministri degli esteri e della difesa e i ministri dell’istruzione e della gioventù si riunissero due volte all’anno per approfondire la cooperazione tra i due Stati nei settori della politica estera, della difesa e della cultura. Le consultazioni regolari tra i due governi sottolineano la svolta storica rappresentata dalla riconciliazione tra il popolo francese e il popolo tedesco, che costituisce il pilastro portante della costruzione dell’unità europea. D’altra parte, va rilevato che il sistema istituzionale della Comunità, fondato su procedure di decisione intergovernative, non può funzionare senza un minimo di accordo tra i due Stati più forti. In effetti, il direttorio europeo, basato sull’asse Parigi-Bonn, si è dimostrato necessario per preparare le decisioni più importanti del Consiglio dei ministri e dei «vertici» dei capi di governo e per definire l’indirizzo di fondo della politica comunitaria.
La fusione degli esecutivi.
Il fallimento del Piano Fouchet non pregiudicò dunque lo sviluppo del Mercato comune, la coesione del quale era assicurata, come abbiamo visto, dal direttorio franco-tedesco, né l’avvio di un’iniziativa volta a realizzare una organizzazione più razionale della Comunità con la fusione degli esecutivi. Le tre Comunità avevano infatti un unico Parlamento e un’unica Corte di giustizia. Era quindi indispensabile giungere a una fusione completa delle istituzioni, perché la loro divisione avrebbe ritardato e ostacolato il complesso funzionamento delle attività comunitarie. Il trattato, che istituisce un Consiglio unico e una Commissione unica, firmato a Bruxelles l’8 aprile 1965 ed entrato in vigore il 10 luglio 1967, fu inteso come un primo passo sulla via della fusione dei trattati, necessaria a correggere le contraddizioni tra le norme che regolano il funzionamento delle tre Comunità.
Questo passo avanti sulla via del rafforzamento delle istituzioni comunitarie non è stato ancora compiuto, perché esso avrebbe presupposto un forte dinamismo nel processo di unificazione europea, che nel 1965 stava esaurendo la sua spinta e solo oggi, dopo l’elezione europea, sembra aver ripreso nuovo slancio, come è dimostrato dall’iniziativa del Parlamento europeo di affrontare il problema della elaborazione di un nuovo trattato.
La proposta della Commissione di attribuire risorse proprie alla Comunità e di rafforzare i poteri di bilancio del Parlamento europeo.
Nel corso della preparazione del regolamento, che doveva presiedere al finanziamento delle spese del mercato agricolo comune, la Commissione, per iniziativa del suo presidente, Walter Hallstein, propose di anticipare al 1° luglio 1967 l’eliminazione dei dazi doganali tanto sui prodotti agricoli quanto sui prodotti industriali e di far entrare in vigore, a partire da quella data, la tariffa doganale comune.
Si trattava di affrontare una delle conseguenze della realizzazione dell’unione doganale europea: il trasferimento sul piano comunitario del potere di riscuotere le tariffe doganali. Sarebbe stato infatti iniquo attribuire quei proventi allo Stato attraverso le cui frontiere casualmente una merce entra nel territorio della Comunità, mentre viene consumata in un altro paese. Di conseguenza, la Commissione il 31 marzo 1965 proposte di sostituire progressivamente i contributi degli Stati, con i quali era finanziato il bilancio comunitario, con risorse proprie, alimentate dalle tariffe doganali e dai prelievi agricoli. D’altra parte, poiché una porzione notevole di potere sarebbe sfuggita ai parlamenti nazionali, era indispensabile un rafforzamento corrispondente dei poteri di controllo in materia di bilancio del Parlamento europeo, nella prospettiva di un trasferimento completo di quei poteri quando quest’ultimo sarebbe stato eletto a suffragio universale diretto.
I principi dell’attribuzione di risorse proprie alla Comunità e del rafforzamento dei poteri di bilancio del Parlamento europeo, da realizzarsi in vista della fine del periodo transitorio dell’integrazione economica, erano contenuti rispettivamente negli articoli 201 e 203 del trattato istitutivo della CEE. Malgrado ciò, la risposta del governo francese si concentrò nel tentativo di far approvare solo il regolamento finanziario relativo al funzionamento del mercato agricolo comune, spogliando le proposte della Commissione di ogni implicazione federale. E non essendo riuscito a far prevalere il proprio punto di vista in seno al Consiglio dei ministri, il 30 giugno 1965 il governo francese ruppe il negoziato, ritirò i propri rappresentanti dalle riunioni comuni con il proposito di mettere in crisi la Comunità. L’offensiva della Francia si indirizzò contro due principi istituzionali della Comunità: il ruolo di iniziativa della Commissione nel processo decisionale e la norma del voto a maggioranza in seno al Consiglio, che a partire dal 1° gennaio 1966 sarebbe diventata la regola, secondo quanto disponevano i trattati.
Due diverse concezioni della Comunità si scontravano. Da una parte, quella di de Gaulle, che assegnava al Consiglio, l’organo diplomatico che decide in segreto e all’unanimità, il ruolo di motore della Comunità e alla Commissione quello di organo tecnico al servizio del Consiglio. D’altra parte, quella di Hallstein, che concepiva la Commissione come il motore della Comunità e l’interprete dell’interesse comune e il Consiglio come un partner della Commissione e come l’organo che esprime la mediazione tra gli interessi degli Stati e della Comunità. Questo ruolo del Consiglio, secondo Hallstein, sarebbe emerso chiaramente con l’affermazione della regola del voto a maggioranza.
Hallstein aveva ragione quando poneva il problema dell’adeguamento delle istituzioni ai nuovi compiti posti dalla realizzazione dell’unione doganale. Le sue proposte interpretavano le potenzialità federali insite nel processo di unificazione europea, cui la Francia fu costretta a cedere dopo alcuni anni di resistenza, come dimostrano le decisioni relative all’istituzione delle risorse proprie, prese dal vertice europeo, svoltosi all’Aja nel 1969, sulle quali ci soffermeremo tra breve.
Ma nella Comunità, così come era e come è ancora, de Gaulle aveva ragione ad assegnare il ruolo della direzione politica al Consiglio, perché, in mancanza di un governo democratico europeo, solo i governi nazionali dispongono degli strumenti di potere e della legittimazione democratica necessari per una effettiva capacità di azione. Per questo, nessuna decisione politicamente rilevante della Comunità può essere presa senza il consenso dei governi nazionali. De Gaulle aveva ragione anche quando sottolineava che il principio del voto a maggioranza non è praticabile in seno ad un organismo di carattere intergovernativo, come il Consiglio, nel quale ogni delegato svolge la funzione, alla quale nessun governo in questo caso può rinunciare, di difendere gli interessi nazionali. Ne consegue che, nell’ambito del Consiglio, l’unica regola efficace è quella delle decisioni all’unanimità.
Il voto a maggioranza, nella misura in cui può ledere l’interesse di uno o più Stati, non solo non costituisce una procedura più efficace, ma espone la Comunità al rischio che le sue decisioni non siano osservate dai propri membri. Il che si traduce, in definitiva, in un pericolo per la stessa coesione dell’unità tra gli Stati. In conclusione, si può sostenere che il principio del voto a maggioranza si potrà affermare solo con la trasformazione del Consiglio nel Senato di un Parlamento bicamerale della Comunità. Per sette mesi i rappresentanti del governo francese lasciarono la sedia vuota nelle riunioni comunitarie. Solo il 29 gennaio 1966 la crisi della Comunità fu superata con gli accordi di Lussemburgo.[17] Essi dispongono che, nel caso di decisioni attinenti a «interessi molto importanti» di uno o più Stati, «i membri del Consiglio si sforzeranno di giungere in un ragionevole lasso di tempo a soluzioni che possono essere adottate da tutti». Il testo constata che, secondo la delegazione francese, la discussione avrebbe dovuto proseguire «fino al raggiungimento di un accordo unanime».
L’accordo registra dunque la divergenza tra la Francia e i suoi cinque partners. Nessuno rinuncia ai propri principi. I trattati di Roma non subiscono modificazioni formali. La conseguenza del compromesso è la ripresa dell’attività comunitaria. Ma, come sarà confermato dalla prassi istituzionale, ciò avvenne sulla base della rinuncia alla procedura di voto a maggioranza, indipendentemente dalla rilevanza degli interessi nazionali coinvolti nelle decisioni del Consiglio. D’altra parte, pur essendo riaffermato il principio della «stretta collaborazione» tra Commissione e Consiglio, di fatto era confermato il primato assoluto del Consiglio nella direzione politica della Comunità. Ciò significa che, secondo una prassi ormai consolidata, la Commissione non esercita il proprio potere di iniziativa nel processo decisionale comunitario senza aver preventivamente consultato l’opinione dei governi.
La fine del periodo transitorio del Mercato comune e il problema del rafforzamento della Comunità.
Le macchinose e irrazionali procedure di decisione della Comunità, che di fatto si fondano ancora oggi sul principio della unanimità, e sono quindi esposte al veto di un solo Stato, il quale da solo può paralizzare il funzionamento dell’intero sistema, sono impotenti a esprimere qualsiasi indirizzo politico. La necessità di conciliare la volontà politica prima di sei, poi di nove, ora di dieci e tra qualche anno di dodici Stati, fa prevalere inevitabilmente, sul potere di impulso e di indirizzo politico, il potere di fermare i processi decisionali.
Tutto ciò non ha pregiudicato la creazione progressiva del mercato comune perché nei primi dieci anni di vita della CEE si trattava di realizzare la cosiddetta «integrazione negativa», cioè la eliminazione degli ostacoli alla libera circolazione delle merci, dei servizi, delle persone e dei capitali, un programma in tre fasi, definito nel trattato istitutivo della CEE. La crisi della Comunità è iniziata dopo la conclusione del periodo transitorio del Mercato comune (avvenuta il 30 giugno 1968 con 18 mesi di anticipo rispetto alla data prevista dal trattato di Roma), quando si è posto il problema di passare all’«integrazione positiva», cioè all’attuazione di politiche comuni per affrontare i problemi, le distorsioni e gli squilibri interni e internazionali posti dalla realizzazione dell’unione doganale e del mercato agricolo comune.
Si trattava in sostanza di affrontare, da una parte, i problemi dell’unione economica e monetaria, cioè della creazione di una moneta europea e dello sviluppo di politiche comuni nei settori della riconversione produttiva, dell’occupazione, del riequilibrio regionale, dell’ambiente, dell’energia ecc. e, dall’altra, di far partecipare la Comunità alla formazione di un nuovo ordine politico ed economico internazionale, che permettesse di stabilire un rapporto di uguaglianza con gli Stati Uniti e con l’Unione Sovietica e di soddisfare i bisogni crescenti delle popolazioni dei paesi emergenti del Terzo mondo. Di fronte a problemi di questa portata si è fatta sentire la debolezza delle istituzioni comunitarie e la loro incapacità di dare all’Europa un’efficace direzione politica. Si può anzi affermare che queste istituzioni, così come si sono venute evolvendo sulla base del modello delineato dal trattato di Roma, avessero esaurito la loro funzione storica. Lo sviluppo dell’unificazione europea nelle due direzioni sopra indicate esigeva dunque un rafforzamento delle istituzioni.
Il vertice europeo dei capi di Stato e di governo svoltosi all’Aja il 1° e 2 dicembre 1969 per iniziativa del Presidente francese Pompidou, che era succeduto a de Gaulle, si riunì per definire i grandi orientamenti per l’avvenire della Comunità nel nuovo contesto politico creato dalla conclusione del periodo transitorio. In primo luogo, la conferenza dell’Aja decide di progredire sulla via del «completamento» della Comunità, realizzando quegli obiettivi che Hallstein aveva proposto circa cinque anni prima e che non erano stati ancora attuati a causa dell’opposizione della Francia: l’approvazione dei regolamenti finanziari agricoli definitivi, che comportavano la decisione di sostituire progressivamente i contributi degli Stati con risorse proprie nel finanziamento della Comunità e il rafforzamento dei poteri di bilancio del Parlamento europeo. La seconda direzione di sviluppo della Comunità è il «rafforzamento» con la creazione dell’unione economica e monetaria. Inoltre sono incaricati i ministri degli esteri «di studiare la maniera migliore per compiere progressi sul piano dell’unificazione politica» e il Consiglio dei ministri di esaminare «il meccanismo dell’elezione diretta» del Parlamento europeo. In terzo luogo, essendo caduto il veto della Francia nei confronti dell’adesione della Gran Bretagna alla Comunità, si apriva la strada all’«allargamento».[18]
Il vertice dell’Aja aveva dunque affrontato i maggiori problemi interni e internazionali dalla cui soluzione dipendeva l’avvenire della Comunità. Alcune decisioni come quella relativa alla attribuzione di risorse proprie alla Comunità, gettando le basi dell’indipendenza finanziaria di quest’ultima, operavano nella direzione del rafforzamento dei poteri della Comunità. Altre decisioni, come quella di realizzare progressivamente l’unione economica e monetaria, individuavano un obiettivo giusto, che non era però raggiungibile senza trasferire alla Comunità i poteri relativi al governo dell’economia europea. Infine il mandato di studiare le possibilità di compiere progressi sulla via dell’unificazione politica era affidato ai ministri degli esteri, cioè a una conferenza diplomatica, che l’esperienza aveva mostrato essere un organismo nel quale avrebbe fatalmente prevalso la tendenza a difendere gli interessi degli Stati nazionali piuttosto che a superarli nella prospettiva dell’unione europea e quindi della limitazione dei poteri dei governi nazionali.
L’attribuzione delle risorse proprie alla Comunità e il rafforzamento dei poteri di bilancio del Parlamento europeo.
Si tratta ora di vedere come furono realizzati gli obiettivi indicati dal vertice dell’Aja. Con una decisione, presa a Lussemburgo il 21 aprile 1970, il Consiglio dei ministri deliberò di applicare progressivamente il nuovo regime finanziario, che avrebbe consentito alla Comunità di coprire le proprie spese con risorse proprie: i proventi dei prelievi agricoli e dei dazi doganali sarebbero stati attribuiti integralmente alla Comunità; inoltre una quota non superiore all’1% della base imponibile, determinata in modo uniforme per gli Stati membri, dell’IVA. Questo regime finanziario (che fu completato nel 1980), poiché comportava il trasferimento di un potere impositivo e di risorse dagli Stati alla Comunità, fu sottoposto all’approvazione dei parlamenti nazionali.
Invece lo sviluppo dei poteri del Parlamento europeo in materia di bilancio fu regolato da un trattato stipulato anch’esso il 21 aprile 1970. Il potere di controllo sulla spesa della Comunità, attribuito al Parlamento europeo è meno forte se si tratta di spese obbligatorie (derivanti direttamente dai trattati e dai relativi atti di applicazione) ed è più forte se si tratta di spese non obbligatorie (la cui destinazione, non essendo predeterminata, può essere oggetto di una libera scelta da parte delle autorità competenti in materia di bilancio). Anche se, dal punto di vista quantitativo, le spese non obbligatorie rappresentano una piccola parte del bilancio della Comunità, va sottolineato che a questa categoria appartengono le spese relative alle politiche comuni che occorre sviluppare in nuovi settori per attribuire alla Comunità il governo dell’economia europea.
Per quanto riguarda le spese obbligatorie, se il Parlamento propone una modifica e il Consiglio la respinge, il Consiglio ha l’ultima parola. Invece, per quanto riguarda le spese non obbligatorie, se il Parlamento propone di emendare il progetto di bilancio e il Consiglio non accoglie l’emendamento, il Parlamento ha l’ultima parola. Va rilevato che la possibilità di aumentare le spese non obbligatorie non è illimitata. Esse non possono superare un margine calcolato ogni anno dalla Commissione sulla base di parametri economici oggettivi.
Con un nuovo trattato del 22 luglio 1975 fu completata la regolamentazione della procedura di bilancio con l’attribuzione al Parlamento europeo del potere di respingere il progetto di bilancio e di chiedere che ne venga presentato uno nuovo, deliberando a maggioranza dei membri che lo compongono e con i due terzi dei voti espressi, e con la costituzione di una Corte dei conti europea, per rendere più efficace il controllo sulle finanze della Comunità.
Nel 1975, in conseguenza dei nuovi poteri di bilancio attribuiti al Parlamento europeo, il Parlamento, il Consiglio e la Commissione hanno approvato un accordo interistituzionale, che istituisce una procedura di concertazione tra questi tre organi, allo scopo di far partecipare il parlamento all’elaborazione degli atti comunitari, che hanno «notevoli implicazioni finanziarie». Questa procedura, che non può durare più di tre mesi, attribuisce al Parlamento un potere di veto sospensivo nei confronti delle decisioni del Consiglio. Essa si avvia quando il Consiglio intende discostarsi in modo sostanziale dall’opinione del Parlamento. Quando le posizioni delle due istituzioni sono abbastanza vicine, il Parlamento formula un nuovo parere e il Consiglio delibera in modo definitivo.
A conclusione di quest’analisi occorre però rilevare che, nella sostanza, l’ultima parola rimane sempre al Consiglio. Infatti nella procedura di concertazione nulla è stabilito nel caso che i punti di vista del Parlamento e del Consiglio rimangano distanti. Ma ciò che è più rilevante è che lo stesso potere di respingere il bilancio ha rivelato tutti i suoi limiti, quando è stato esercitato. Lo ha dimostrato la battaglia sul bilancio del 1980. Com’è noto, il 13 dicembre 1979 il Parlamento ha bocciato il bilancio del 1980, ma il Consiglio ne ha riproposto uno sostanzialmente uguale e il Parlamento ha finito con l’approvarlo.
D’altra parte, se il Parlamento dispone di un potere limitato, ma reale, circa la decisione sulla spesa pubblica nella Comunità, il potere di decidere le entrate rimane saldamente nelle mani degli Stati. In assenza di poteri legislativi del Parlamento europeo, anche un lieve aumento della percentuale dell’IVA destinata alla Comunità deve essere approvata dai Parlamenti nazionali. E va aggiunto che i dazi e i prelievi agricoli (istituiti per proteggere il Mercato comune e non per alimentare le finanze comunitarie) e la quota dell’IVA (che pure rappresenta l’entrata più sostanziosa) non offrono risorse sufficienti per finanziare una politica efficace della Comunità. Basta ricordare, a questo proposito, che circa i tre quarti della spesa sono destinati a finanziare la politica agricola comune.
Nella Relazione del gruppo di studio sul ruolo della finanza pubblica nell’integrazione europea, nota come Rapporto Mac Dougall[19] (dal nome del presidente del gruppo di esperti, che nel 1977, su incarico della Commissione, elaborò il testo), sono definite le dimensioni che il bilancio della Comunità dovrebbe assumere nel corso dello sviluppo dell’unificazione europea. Sono prese in esame tre situazioni tipiche, due federali e una «pre-federale». La prima, nella quale la spesa pubblica raggiunga un livello del 20-25% del prodotto interno lordo, pari a quello della Germania federale e degli Stati Uniti. Ma è probabile che il bilancio della Comunità non dovrà mai raggiungere queste dimensioni se l’onere della spesa sociale rimarrà quasi completamente a carico dei governi nazionali. In questo secondo caso la spesa pubblica federale sarà dell’ordine di grandezza del 5-7% del prodotto interno lordo o del 7,5-10% se si include anche la difesa. Questo livello di spesa è ritenuto sufficiente a garantire un livellamento geografico della produttività e degli standards di vita e una compensazione delle fluttuazioni temporanee del reddito sufficienti per sostenere un’unione monetaria. Nella terza situazione, che è definita «integrazione pre-federale», è completato il Mercato comune, si sviluppano gli interventi di politica economica e monetaria della Comunità, pur senza giungere ad una vera e propria unione monetaria, e si rafforza la struttura istituzionale della Comunità, in seguito all’elezione a suffragio universale del Parlamento europeo. In questa fase della costruzione dell’unità europea è ritenuto necessario un aumento della spesa della Comunità dall’attuale 0,8% del prodotto interno lordo al 2-2,5%. Inoltre, se si tiene conto dei trasferimenti di spesa dal piano nazionale a quello europeo, l’aumento complessivo della spesa pubblica a ogni livello non supera l’1% del prodotto interno lordo. Si tratta di una cifra modesta se la si paragona ai bilanci dei paesi della Comunità, che ammontavano nel 1975 in media al 45% del prodotto interno lordo. Tuttavia, questo piccolo incremento della spesa pubblica comunitaria permetterebbe di realizzare una riduzione delle disuguaglianze di reddito tra le regioni della Comunità dell’ordine del 10%, di elevare al 65% la capacità fiscale dei paesi più deboli rispetto alla media comunitaria e di assicurare la convergenza tra le diverse economie.
Il Rapporto Werner e il progetto di realizzazione graduale della Unione economica e monetaria.
In esecuzione dei deliberati del vertice dell’Aja, fu affidato a un Comitato, presieduto da Pierre Werner, il mandato di studiare le modalità della realizzazione graduale dell’Unione economica e monetaria. La relazione conclusiva (Rapporto al Consiglio e alla Commissione sulla realizzazione per fasi dell’unione economica e monetaria nella Comunità), nota come Rapporto Werner,[20] presentata al Consiglio l’8 ottobre 1970, indicava come obiettivo finale l’unione monetaria, da realizzarsi attraverso la convertibilità totale e irreversibile delle monete comunitarie, la eliminazione dei margini di fluttuazione dei cambi, la fissazione irrevocabile dei rapporti di parità, la liberalizzazione completa dei movimenti di capitali, l’accentramento della politica monetaria e creditizia, l’unificazione della politica monetaria verso l’estero e la decisione sul piano comunitario degli aspetti essenziali dei bilanci pubblici degli Stati, in modo da assicurare l’equilibrio delle bilance dei pagamenti. Si prevedeva infine la costituzione di un sistema comunitario delle banche centrali e di un centro di decisione per la politica economica, responsabile di fronte al Parlamento europeo.
Quanto alla fase transitoria, che doveva durare dieci anni, il progetto prevedeva che la graduale riduzione dei margini di fluttuazione dei cambi tra le monete fosse accompagnata dall’armonizzazione delle politiche economiche e di bilancio. Secondo lo schema funzionalistico esso affidava alla collaborazione tra gli Stati l’armonizzazione delle politiche monetarie e fiscali e rinviava alla fase finale la formazione del governo dell’unione economica e monetaria europea. L’esperienza ha dimostrato che questo processo non poteva nemmeno iniziare senza il sostegno di un governo europeo con poteri limitati, ma reali.
A pochi mesi di distanza dalla decisione del Consiglio (9 febbraio 1971) di avviare la prima fase della costruzione dell’Unione economica e monetaria, il 15 agosto 1971, il governo degli Stati Uniti decideva l’inconvertibilità del dollaro in oro, decretando così la fine del sistema di Bretton Woods. Prive di uno stabile punto di riferimento, le monete dei paesi della Comunità cominciano a fluttuare. Con il venir meno del regime di parità fisse tra le monete crolla il pilastro che aveva assicurato la stabilità monetaria internazionale, la convergenza delle politiche economiche tra i paesi del blocco occidentale e quindi lo straordinario sviluppo degli scambi internazionali che aveva contribuito in modo determinante al successo del Mercato comune. La fluttuazione dei cambi non solo ha messo in discussione il funzionamento del mercato agricolo comune, che si fonda su prezzi fissati in unità di conto, ma ha anche colpito la stessa unione doganale, rendendo incerte le condizioni del commercio internazionale e ripristinando, in conseguenza delle frequenti svalutazioni e rivalutazioni delle monete, discriminazioni e ostacoli nella circolazione delle merci nella Comunità.
Se la fluttuazione dei cambi ha costituito un fattore determinante del fallimento del Piano Werner, la ricostruzione dell’ordine monetario in Europa è diventata ancora più urgente, perché ormai lo esige la stessa sopravvivenza del Mercato comune. Nel Rapporto del gruppo di riflessione «Unione economica e monetaria 1980», noto come Rapporto Marjolin dal nome del Presidente del gruppo, pubblicato dalla Commissione l’8 marzo 1975, si legge: «L’Europa non è più avanti nel cammino verso l’unione economica e monetaria di quanto non lo fosse nel 1969. In effetti, se movimento vi è stato, tale movimento è stato un regresso».[21] L’economia europea, priva di una direzione politica efficace, per un verso, non ha potuto affrontare la crisi del meccanismo di sviluppo che aveva governato il mondo dalla fine della seconda guerra mondiale e i problemi della riconversione produttiva che ne derivano, e, per l’altro verso, è stata sconvolta dalla crisi monetaria e dalla crisi energetica, che hanno accentuato l’andamento divergente dello sviluppo dei paesi della Comunità e favorito l’affermazione della tendenza al nazionalismo economico. Si è aperto così un circolo vizioso, che rischia di far cadere ogni Stato nella tentazione (che è una necessità, in mancanza di un’autorità europea capace di agire sul piano economico) di fronteggiare la crisi nel solo ambito nazionale e di spingere ogni Stato al protezionismo, alla guerra commerciale, insomma al disordine internazionale, nel quale i più forti rovesciano sui più deboli il costo della crisi. Il denominatore comune di questi fenomeni è la tendenza delle forze del nazionalismo a riprendere il sopravvento e della Comunità a disgregarsi, con la conseguenza che l’Europa «a due velocità» si sostituisce all’Europa dell’unificazione economica.
Nel Rapporto Mariolin sono illustrati i diversi problemi che la Comunità ha dovuto affrontare nella costruzione dell’unione doganale e dell’unione economica e monetaria e le relative conseguenze in termini istituzionali. «L’unione doganale», vi si legge, «presuppone solo che i Governi rinuncino, salvo circostanze eccezionali, a utilizzare — nel perseguimento degli interessi nazionali — gli strumenti della politica commerciale e, in particolare, rinuncino ai diritti di dogana e alle restrizioni quantitative; tutti gli altri strumenti di politica economica e monetaria restano a disposizione di ciascuno di loro. In una unione economica e monetaria invece i Governi nazionali trasferiscono a istituzioni comuni l’esercizio di tutti gli strumenti della politica monetaria e della politica economica, la cui azione deve esercitarsi e i cui effetti si ripercuotono sull’insieme della Comunità. Queste istituzioni devono inoltre disporre di un potere discrezionale simile a quello di cui i Governi nazionali attualmente dispongono per essere in grado di far fronte ad avvenimenti imprevisti».[22]
Questa è la ragione per la quale le scadenze nella costruzione dell’Unione economica e monetaria non sono state rispettate dai governi e le politiche comuni, con la sola eccezione della politica agricola (minacciata anch’essa dalla fluttuazione dei cambi), non si sono sviluppate. Il fallimento del tentativo di costruire l’Unione economica e monetaria segna l’esaurimento del metodo funzionalistico, sul quale si era fondato lo sviluppo dell’unificazione economica europea. Anche i più acuti tra i sostenitori di questo metodo ne prendono atto. Sempre nel Rapporto Marjolin si può leggere: «Oggi deve essere messa in discussione l’idea che è stata alla base, per venti anni, della convinzione di molti Europei, e cioè che una Unione politica europea, in particolare in materia economica e monetaria, potesse costituirsi in modo quasi insensibile. Era l’Europa dei ‘piccoli passi’. L’esperienza finora non ha confermato minimamente la validità di quest’idea: si deve pertanto legittimamente chiedersi se, al fine di determinare le condizioni effettive per la realizzabilità dell’Unione economica e monetaria, non sia necessaria al contrario una trasformazione profonda e quasi istantanea, che abbia luogo certo dopo profonde discussioni, ma che faccia apparire a un momento preciso istituzioni politiche europee».[23]
Il «Rapporto Davignon» e l’avvio della cooperazione politica.
In esecuzione del mandato ricevuto dal vertice europeo dell’Aja relativo allo studio delle modalità per progredire sulla via dell’unificazione politica, i sei ministri degli esteri della Comunità avevano incaricato una commissione composta dai direttori generali degli affari politici dei rispettivi ministeri di presentare delle proposte. Il Rapporto Davignon,[24] dal nome del presidente della commissione, approvato il 27 ottobre 1970, propone di realizzare un sistema di informazione e di consultazione regolari al fine di sviluppare la cooperazione in materia di politica estera. Il protocollo di accordo tra i sei paesi della Comunità prevede che i ministri degli esteri si riuniscano almeno due volte all’anno, che i direttori degli affari politici dei ministeri degli esteri si riuniscano almeno quattro volte all’anno per preparare le riunioni dei ministri e attuarne le decisioni e che il presidente di turno del Consiglio svolga una volta all’anno una comunicazione al Parlamento europeo sui progressi della cooperazione politica.
Successivamente, il vertice dei capi di Stato e di governo, svoltosi a Parigi il 21-22 ottobre 1972, decise di portare a quattro le riunioni annuali dei ministri degli esteri. Un secondo rapporto sulla cooperazione politica, adottato a Copenaghen il 23 luglio 1973, stabilirà che il Comitato politico si potrà riunire «in funzione delle circostanze» e che la cooperazione sarà estesa al livello delle burocrazie dei ministeri degli esteri.[25]
Si tratta in sostanza di un ben modesto risultato rispetto all’obiettivo ambizioso, ma collocato in un futuro indefinito, della unità politica europea. In definitiva, si avvia una procedura di informazione e di consultazione, che costituisce uno strumento di gran lunga più esile del Piano Fouchet, in quanto non si creano istituzioni confederali ed è escluso dalla cooperazione il settore della difesa.
Tuttavia, la cooperazione ha consentito ai governi di prendere talvolta posizioni comuni, ma senza la continuità di linea politica, che solo un governo europeo avrebbe potuto garantire. Del resto, questo risultato era già predeterminato dal metodo di lavoro impiegato per elaborare il progetto, che affidava piena responsabilità ai ministeri degli esteri e alle loro burocrazie. I governi, i ministeri, le diplomazie fondano il loro potere sull’utilizzazione di risorse, su procedure di decisione e su un consenso che hanno i confini nell’ambito dei singoli Stati. Di conseguenza, l’atteggiamento con il quale affrontano il problema dell’unificazione europea è quello della collaborazione intergovernativa sulla base della convergenza di interessi tra le politiche estere degli Stati. L’organizzazione in termini istituzionali di questa collaborazione è la confederazione, che de Gaulle voleva estendere dal settore economico a quello della politica estera e della difesa. Ma il metodo della collaborazione internazionale esclude per principio l’ipotesi del trasferimento della sovranità a organi politici europei, che metterebbe in discussione le posizioni di potere costituite.
Tuttavia, malgrado i suoi limiti, l’accordo è l’espressione della coscienza dei governi della Comunità che il problema di affrontare insieme le grandi questioni della politica internazionale è ormai maturo. Il successo dell’unificazione europea sul terreno economico ha modificato i rapporti di potere tra la Comunità, gli Stati Uniti e il resto del mondo e ha posto il problema di una maggiore autonomia internazionale e di una più incisiva partecipazione dell’Europa occidentale alla gestione della politica mondiale. Si tratta di un problema di natura politica, posto dallo sviluppo dell’unificazione economica, che non può essere risolto entro i limiti delle istituzioni comunitarie, come hanno funzionato durante il periodo transitorio del Mercato comune. Tutto ciò esige una profonda riforma delle istituzioni: da una parte, la sottrazione al Consiglio dei ministri del monopolio del potere di decisione e di esecuzione e l’attribuzione del potere legislativo al Parlamento eletto dal popolo e del potere esecutivo alla Commissione; d’altra parte, il conferimento alla Comunità delle competenze relative alla moneta e alla politica economica e successivamente di quelle relative alla politica estera e alla difesa.
La Relazione Vedel e l’ampliamento delle competenze del Parlamento europeo.
L’istituzione delle risorse proprie della Comunità, attuata con il trattato del Lussemburgo del 21 aprile 1970, ha posto il problema del rafforzamento dei poteri legislativi e di bilancio del Parlamento europeo, indispensabile per realizzare il controllo democratico di queste risorse che non poteva più essere esercitato sul piano nazionale. La Commissione incaricò un gruppo di giuristi, presieduto da Georges Vedel, di esaminare questo problema. La Relazione del gruppo ad hoc per l’esame dell’ampliamento delle competenze del Parlamento europeo,[26] che porta la data del 1972, affronta il problema del graduale sviluppo dei poteri consultivi del Parlamento europeo in un potere di codecisione con il Consiglio, in modo da associare più direttamente il Parlamento al processo decisionale della Comunità. Questo potere di codecisione consiste nel fatto che le decisioni del Consiglio non possono entrare in vigore senza l’approvazione del Parlamento.
In una prima fase questo potere è limitato a materie relative al potere costituente della Comunità e alle relazioni internazionali, come la revisione dei trattati, l’estensione dei poteri della Comunità necessari al funzionamento del Mercato comune, ma non previsti espressamente dai trattati (poteri impliciti), l’ammissione di nuovi membri e la stipulazione di accordi internazionali. Mentre è attribuito un potere di veto sospensivo, cioè il potere di chiedere al Consiglio una seconda deliberazione su una serie di materie concernenti l’armonizzazione delle legislazioni nazionali e di questioni di principio relative alle politiche comuni, che hanno una grande incidenza sul piano nazionale. Nella seconda fase sono estesi i poteri di codecisione anche alle materie rispetto alle quali il Parlamento europeo poteva esercitare durante la prima fase solo un potere di veto sospensivo.
D’altro lato, si propone di rafforzare il potere di controllo della Commissione da parte del Parlamento, integrando il potere di censura con il potere di approvare la nomina del Presidente della Commissione, decisa dai governi. E quest’ultimo, forte dell’investitura parlamentare, sarebbe a sua volta in grado di condizionare i governi nella scelta degli altri membri della Commissione. Abbiamo visto che il voto di censura configura, almeno in parte, il meccanismo della responsabilità del governo nei confronti del Parlamento. Orbene, la Relazione Vedel ritiene che sia possibile utilizzare in termini costruttivi il potere di censura, estendendo il controllo del Parlamento sulla Commissione con l’investitura del Presidente di quest’ultima. In effetti, per evitare il ricorso alla mozione di censura nei confronti di una Commissione la cui composizione e il cui programma possono essere giudicati insoddisfacenti, il Parlamento può costringere il Presidente della Commissione a esporre il proprio programma e a chiedere su questa base un voto di fiducia.
Le proposte della Relazione Vedel, che pure collocavano realisticamente il problema dell’ampliamento dei poteri del Parlamento europeo nella prospettiva di un’evoluzione istituzionale graduale, cioè senza una modifica sostanziale del sistema comunitario, non ebbero successo, perché non affrontavano con uguale realismo il problema dell’identificazione del potere capace di realizzarle. In particolare, la relazione respingeva l’impostazione di coloro che sostenevano che condizione dell’ampliamento dei poteri del Parlamento europeo era la sua elezione a suffragio universale diretto. Ma non indicava come fosse possibile mobilitare una volontà politica pari alla dimensione del problema da risolvere.
D’altra parte, la Commissione, che aveva conferito il mandato di elaborare la relazione, temendo che potesse essere respinta, decise di non sottoporla nemmeno al giudizio dei governi.
Il vertice europeo di Parigi del 1974 affronta il problema della unificazione politica.
Nel momento più grave della crisi della Comunità, di fronte alla manifesta incapacità tanto dei governi, quanto delle autorità europee a fronteggiare la crisi del sistema monetario internazionale e la crisi energetica, la Francia riprende l’iniziativa, come ai tempi del Piano Schuman, del rilancio del processo di unificazione europea, ma questa volta non più sul terreno economico, ma su quello politico. Il piano del nuovo Presidente Giscard d’Estaing, che ha impresso alla politica europea della Francia un radicale mutamento di rotta, è stato sostanzialmente accolto dagli altri capi di governo della Comunità al vertice di Parigi del 9-10 dicembre 1974.
Il comunicato finale[27] conteneva l’impegno a rafforzare la cooperazione politica, avviata già precedentemente con l’intensificazione delle riunioni al vertice a partire da quella dell’Aja del 1969, con la creazione del Consiglio europeo dei Capi di Stato o di governo, che si riuniscono, «accompagnati dai ministri degli esteri tre volte all’anno e ogni qualvolta ciò sarà necessario, come Consiglio della Comunità e a titolo di cooperazione politica». Inoltre era affidato al primo ministro del Belgio Leo Tindemans il compito di elaborare entro il 1975 un rapporto di sintesi sull’Unione europea, «sulla base dei rapporti delle istituzioni europee e delle consultazioni… con i governi e con gli ambienti rappresentativi dell’opinione pubblica». L’obiettivo dell’Unione europea (espressione deliberatamente ambigua, che comprende tanto la confederazione quanto la federazione) era già stato indicato dal vertice di Parigi del 19-20 ottobre 1972 come il traguardo da raggiungere entro il 1980 a conclusione della costruzione della Unione economica e monetaria. Infine si assumeva l’impegno a svolgere l’elezione del Parlamento europeo a suffragio universale a partire dal 1978 e si riconosceva il principio che il Parlamento europeo doveva essere associato alla costruzione dell’unità europea e che le competenze del Parlamento sarebbero state ampliate, con la concessione di alcuni poteri nel processo legislativo comunitario.
In questo quadro, l’istituzione di un Fondo di sviluppo regionale rappresentava, malgrado la sua modesta entità, un segno della rinnovata volontà politica dei Nove di rafforzare la loro unione.
Prendiamo ora in esame le conseguenze delle decisioni di Parigi.
Il Consiglio europeo.
L’istituzione del Consiglio europeo rappresenta la risposta dei governi alla debolezza istituzionale della Comunità. Essa costituisce uno sviluppo della cooperazione politica, un nuovo settore di attività comunitaria non prevista dai trattati, che aveva cominciato ad affermarsi a partire dal 1970 con l’istituzione della Conferenza dei ministri degli esteri (Rapporto Davignon).
Rispetto al Piano Fouchet, il quale, attraverso una complessa riforma istituzionale, aveva l’obiettivo di organizzare la confederazione politica, il Consiglio europeo si presentava come un organo capace di avviare una più rapida procedura di decisione, che tendeva a rafforzare la cooperazione politica, coinvolgendo i capi di governo.
L’adesione della Gran Bretagna alla Comunità, avvenuta in un’epoca nella quale quest’ultima aveva dato prova della propria solidità (il che aveva fatto cadere il veto della Francia), aveva fatto cadere l’opposizione dei cinque partners della Francia al rafforzamento della cooperazione politica, nell’ambito della quale si riteneva che la Gran Bretagna avrebbe assolto a una funzione riequilibratrice rispetto alla volontà egemonica della Francia. In quanto impegna in modo diretto e nella sua espressione più alta la responsabilità dei governi, il Consiglio europeo è in grado di esprimere l’orientamento politico di fondo della Comunità (ancora incapace di determinarlo e farlo valere, perché priva di un proprio governo autonomo) e di prendere decisioni su problemi rispetto ai quali il Consiglio dei ministri si era dimostrato impotente, come l’elezione diretta del Parlamento europeo e il Sistema monetario europeo. Si tratta in sostanza, secondo la formula suggerita da Monnet quando ne aveva proposta l’istituzione, di una specie di «governo europeo provvisorio».[28]
In sostanza, non volendo i governi nazionali istituire un governo europeo (e tanto meno un governo presidenziale europeo) hanno dato vita, come ha osservato Duverger,[29] a «un superesecutivo collettivo», che in Unione Sovietica sostituisce il Capo dello Stato e ha il potere di prendere le decisioni politiche più importanti. Duverger ha inoltre sottolineato che la divisione delle competenze, che si è venuta precisando nell’evoluzione istituzionale della Comunità tra Consiglio europeo, da una parte, e Consiglio dei ministri e Commissione, dall’altra, è la stessa che i costituzionalisti sovietici fanno tra «potere politico di Stato» e «potere amministrativo di Stato».
Sebbene il Consiglio europeo sia l’espressione del massimo potere della Comunità, sempre più spesso si constata che i capi di governo non riescono a raggiungere un’intesa. Il suo limite risiede nel fatto che il potere di indirizzo di cui dispone può essere paralizzato dal veto di ognuno dei suoi membri. Il carattere non democratico delle sue procedure di decisione coincide con l’inefficacia del sistema di governo della Comunità, che si trova ad affrontare continuamente problemi di grande rilevanza politica, economica e sociale senza avere i mezzi per risolverli.
Il Rapporto Tindemans sull’Unione europea.
Il primo ministro belga Leo Tindemans, dopo aver raccolto proposte e pareri delle istituzioni comunitarie e dopo aver consultato i governi e le forze politiche e sociali di tutti i paesi della Comunità nel corso di un anno intero, consegnò al Consiglio europeo il 29 dicembre 1975 il Rapporto sull’Unione europea,[30] in conformità con il mandato ricevuto dal vertice europeo di Parigi del dicembre 1974.
Esso offre un panorama complessivo dei problemi di politica estera, economica e sociale e di carattere istituzionale di fronte ai quali si trova la Comunità e contiene una serie di proposte per lo sviluppo dell’unificazione europea, di carattere limitato e destinate a restare valide nel breve periodo.
La prima e la più importante osservazione che si incontra nel documento è che la costruzione dell’unità europea è un’opera incompiuta, cioè un’opera che, se non si sviluppa, rischia di disgregarsi. La linea di sviluppo che Tindemans individua al di là dell’Unione economica e monetaria è quella di una politica estera e di una difesa comuni. Questi obiettivi sono indispensabili per rendere la Comunità padrona del proprio destino. Nella prospettiva dell’affermazione dell’autonomia internazionale della Comunità devono essere sottolineate le proposte relative alla messa in comune di una parte rilevante dei crediti nazionali destinati alla cooperazione per lo sviluppo e alla creazione di un’Agenzia europea per gli armamenti.
D’altra parte, viene riproposto l’obiettivo dell’Unione economica e monetaria. Mentre si riconosce che la Comunità non ha realizzato nessun progresso in questa direzione, malgrado gli sforzi compiuti, a ragione si annette a questo obiettivo una rilevanza strategica nella costruzione dell’Unione europea. Il meccanismo che si suggerisce di utilizzare è quello del «serpente», cioè l’impegno a mantenere i tassi di cambio tra le monete dei paesi della Comunità all’interno di una fascia di oscillazione predeterminato.
Ma, in considerazione della divergenza della situazione economica dei paesi della Comunità, si decide di adottare un approccio nuovo: la partecipazione al «serpente» è aperta a quegli Stati che sono in grado di osservarne la disciplina, mentre gli Stati, che hanno dei motivi riconosciuti oggettivamente validi dal Consiglio per non parteciparvi, non lo fanno.
Bisogna, d’altra parte, considerare che un processo di unificazione monetaria non garantisce, di per sé, la correzione degli squilibri territoriali. E, a questo proposito, va sottolineato che il Rapporto Tindemans non prevede l’adozione di politiche strutturali comuni, basate sul trasferimento di risorse, necessario ad attivare la domanda e a sostenere l’occupazione nelle regioni più deboli e a compensare la rinuncia alla manovra del tasso di cambio. Si propone, in sostanza, di istituzionalizzare la divisione tra paesi forti, che sono in grado di progredire verso l’Unione economica e monetaria e paesi deboli, che non sono in grado di farlo, cioè di perpetuare l’Europa «a due velocità», una delle distorsioni dell’unificazione economica fin qui perseguita. L’attuazione di questa proposta comporterebbe per la Comunità la rinuncia a perseguire uno dei suoi obiettivi fondamentali: uno sviluppo regionale equilibrato, indispensabile ad avviare a soluzione i problemi dell’arretratezza economica delle regioni più deboli e dei paesi mediterranei, che chiedono di aderire alla Comunità. Senza questa finalità, la Comunità si trasformerebbe in un club di paesi ricchi e il disegno dell’unificazione europea perderebbe il suo significato storico più profondo. Ma ciò comporterebbe anche l’aggravamento della tendenza alla disgregazione della Comunità. In effetti, mantenere, almeno sul piano dei principi, l’obiettivo di uno sviluppo regionale equilibrato, anche se la debolezza delle istituzioni comunitarie non consente di realizzarlo, permette di tener viva la contraddizione tra i valori sui quali si fonda la Comunità e i limiti delle sue istituzioni e di alimentare l’aspirazione a risolvere questa contraddizione con la trasformazione democratica della Comunità.
Malgrado questi limiti, il Rapporto Tindemans contiene alcune interessanti proposte di politica monetaria, che saranno riprese dallo SME: la modifica della parità tra le monete dovrebbe essere decisa in comune con la partecipazione anche dei paesi non inclusi nel «serpente»; i paesi partecipanti al «serpente» dovrebbero impegnarsi a non lasciarlo se non in caso di crisi manifesta, constatata da una decisione comune; il Fondo europeo di cooperazione monetaria dovrebbe essere rafforzato fino a diventare l’embrione di una banca federale europea, alla quale dovrebbe essere attribuita una parte delle riserve degli Stati; i paesi partecipanti al «serpente» dovrebbero eliminare gradualmente gli ostacoli alla libera circolazione dei capitali.
Infine, il rafforzamento delle istituzioni è indicato come un obiettivo necessario a conferire alla politica della Comunità autorità, efficacia, legittimità e coerenza. Tuttavia, le proposte di riforma sono nella sostanza deludenti. Sono evasive soprattutto sulla questione dell’attribuzione di poteri legislativi al Parlamento. Infatti, si propone soltanto che a quest’ultimo sia riconosciuta una facoltà di iniziativa, con l’impegno del Consiglio a deliberare sulle risoluzioni del Parlamento, e il potere di organizzare dibattiti di orientamento generale, in particolare il dibattito annuale sullo stato dell’Unione e sul funzionamento delle istituzioni. Più rilevante la proposta (mutuata in parte dal Rapporto Vedel) elaborato quando non era stato ancora istituito il Consiglio europeo), secondo la quale il Presidente della Commissione avrebbe dovuto essere designato dal Consiglio europeo, ricevere l’investitura dal Parlamento e successivamente designare i suoi colleghi, consultandosi con il Consiglio. In questa prospettiva, il Consiglio europeo potrebbe svolgere il ruolo di presidenza collegiale della Comunità, secondo il modello teorizzato da Duverger, nel quadro di un sistema di governo di tipo parlamentare.
I limiti del Rapporto Tindemans sono impliciti nella procedura adottata per elaborarlo. Il Consiglio europeo, cioè l’insieme dei governi nazionali, era nello stesso tempo committente e destinatario del Rapporto. L’iniziativa per l’Unione europea si collocava dunque all’interno delle strutture della cooperazione intergovernativa e non si proponeva l’obiettivo di superarle. Lo stesso Tindemans nelle osservazioni introduttive al suo documento, pur esprimendo la propria opzione personale a favore della soluzione federale del problema dell’Unione europea, dichiara di aver formulato le proprie proposte in vista della possibilità di raccogliere il consenso di ciascuno dei governi, attenendosi cioè ai vincoli derivanti dalla situazione di potere costituita. Egli afferma di aver voluto proporre un insieme di misure transitorie e non un abbozzo di costituzione dell’Unione europea. Tuttavia, il carattere moderato delle sue proposte non contribuì a facilitarne l’adozione, sia pure parziale, da parte del Consiglio europeo. Dopo essere stato messo più volte all’ordine del giorno, il Rapporto Tindemans fu accantonato per il prevalere delle resistenze nazionali anche nei confronti della politica dei «piccoli passi». D’altra parte, i governi avevano compiuto la scelta storica di far eleggere il Parlamento europeo a suffragio universale diretto e tutti ne attendevano gli effetti. Questo avvenimento, come riconosceva lo stesso Tindemans, avrebbe consentito di modificare gli equilibri istituzionali in seno alla Comunità e di porre così su nuove basi il problema della costruzione dell’Unione europea.
Tra i documenti che furono sottoposti all’esame di Tindemans nel corso della sua missione almeno uno merita di essere ricordato: il Rapporto della Commissione sull’Unione europea,[31] il quale mantiene tuttora la propria attualità.
In primo luogo, il progetto prevede in settori limitati, ma chiaramente definiti, il trasferimento di poteri dagli Stati all’Unione. Innanzi tutto l’Unione dovrebbe assumere la responsabilità dei problemi economici, la cui soluzione superi le possibilità degli Stati. Di conseguenza, essa dovrebbe essere dotata di poteri, competenze e strumenti di azione nei settori della moneta, del bilancio, della fiscalità, della politica industriale, regionale e sociale. Al momento della creazione dell’Unione, quest’ultima dovrebbe essere dotata di una competenza esclusiva nel campo monetario, mentre negli altri settori economici sopra indicati le competenze dovrebbero essere concorrenti con quelle degli Stati. Per quanto riguarda la politica estera, si prevede la sua graduale inclusione nella sfera di competenza dell’Unione, a partire dai settori della politica commerciale e della politica di cooperazione allo sviluppo con i paesi del Terzo mondo, nei quali la Comunità ha da tempo sviluppato un proprio attivo intervento. Infine, la difesa dovrebbe essere oggetto di una competenza potenziale dell’Unione e quindi, all’inizio del processo di costruzione dell’Unione, di una competenza esclusiva degli Stati. Il trasferimento sul piano europeo di poteri e di mezzi di azione in questa materia, che rappresenta il nucleo essenziale della sovranità dello Stato, presuppone infatti che si sia raggiunto un elevato grado di coesione politica tra gli Stati.
In secondo luogo, per quanto riguarda la struttura delle istituzioni, il documento discute tre soluzioni alternative. Il primo modello prevede che l’organo governativo sia composto da ministri nazionali, i quali assorbirebbero la sostanza dei poteri attribuiti alla Commissione, mentre il potere legislativo verrebbe attribuito a un parlamento bicamerale, la cui Camera dei popoli sarebbe eletta a suffragio universale diretto. Questo schema presenta però un difetto: mentre il parlamento riceverebbe i propri poteri da un’investitura sovrannazionale, il governo dipenderebbe invece dai governi nazionali.
Il secondo modello prevede un governo composto da personalità indipendenti, il quale dovrebbe riunire nelle proprie mani le funzioni esecutive del Consiglio e della Commissione. Il potere legislativo dovrebbe essere affidato a un parlamento bicamerale. Per quanto riguarda l’investitura del governo, sono proposti tre sistemi: a) che sia la Camera dei popoli a designare il governo; b) che sia la Camera degli Stati a designare il governo, fermo restando che quest’ultimo dovrebbe essere responsabile di fronte alla Camera dei popoli, la quale potrebbe ricorrere alla censura; c) che sia la Camera degli Stati a designare il governo europeo e la Camera dei popoli a ratificarne la nomina e a esercitare la censura nei confronti di un governo che non goda della sua fiducia. In sostanza, mentre la prima ipotesi esclude i governi nazionali dalla formazione del governo europeo, la seconda assegna invece ai governi nazionali un peso preponderante, la terza, che la Commissione sembra preferire, stabilisce un equilibrio nel ruolo delle due Camere.
Il terzo modello è soltanto una variante, del secondo, al quale si aggiungerebbe un organo supplementare, il Comitato dei ministri, composto dai rappresentanti dei governi nazionali in analogia con il progetto di Comunità politica adottato dall’Assemblea ad hoc. Al Comitato dei ministri sarebbero attribuiti poteri di decisione nei settori nei quali gli Stati conserverebbero, nella prima fase della costruzione dell’Unione europea, rilevanti poteri e responsabilità. Il terzo modello risponde dunque meglio alle esigenze di gradualità del processo costituente dell’Unione europea, mentre il secondo appare più conforme alle esigenze dell’Unione nel suo assetto definitivo.
In conclusione, si può affermare che il progetto della Commissione contiene un insieme organico di proposte di riforma delle istituzioni, che permetterebbe di attribuire alla Comunità quel minimo di poteri e quella capacità di decisione politica, che la potrebbero rendere pari alla dimensione dei problemi da affrontare.
In particolare, vanno sottolineate le proposte di attribuire il potere legislativo a un parlamento bicamerale e il potere esecutivo a un governo designato dal Parlamento e responsabile di fronte ad esso. Nello stesso tempo, il documento inquadra il progetto di riforma nella prospettiva di un realistico gradualismo che costruisce l’Unione europea, partendo dal governo dell’economia europea, rafforzando, su questa base, la cooperazione politica, per arrivare al trasferimento sul piano europeo delle competenze relative alla politica estera e alla difesa. Bisogna infine notare che nel progetto della Commissione, al Consiglio europeo non è assegnato un ruolo istituzionale definito. A questo proposito potrebbe essere utile il suggerimento, contenuto nel Rapporto Tindemans, di affidare al Consiglio europeo il compito di designare il Presidente della Commissione, cioè il capo del governo europeo. Ciò permetterebbe di risolvere il problema della istituzione del Presidente della Comunità, che è una necessità derivante dalla scelta del regime parlamentare, attribuendone le funzioni relative al Consiglio europeo.
Il Sistema monetario europeo.
Abbiamo visto che dalla soluzione del problema monetario dipende la sopravvivenza della Comunità. Perciò l’Europa deve ricostruire con le proprie forze le condizioni di stabilità monetaria, un tempo assicurate dall’egemonia del dollaro. La mancanza di queste condizioni ha determinato il riemergere del protezionismo e aggravato la crisi economica, che si manifesta con la recessione, la perdita di competitività con i grandi spazi economici, l’inflazione, la disoccupazione e gli squilibri territoriali.
L’istituzione del Sistema monetario europeo, entrato in vigore il 13 marzo 1979, rappresenta il tentativo di rovesciare la tendenza alla libera fluttuazione dei cambi, creando una zona di stabilità monetaria in seno alla Comunità. La novità politica più rilevante dello SME sta nel fatto che il cambiamento dei tassi centrali non può più essere deciso unilateralmente da ciascun paese, ma deve essere approvato da tutti i paesi che hanno sottoscritto gli accordi dello SME attraverso una procedura comune. Nello stesso tempo, la creazione di un fondo comune di riserve, alimentato da quote versate dagli Stati, pari al 20% delle riserve in oro e in dollari detenute dalle banche centrali, per sostenere le monete più deboli, dovrebbe rappresentare la premessa per la creazione di un Fondo monetario europeo. Il che permetterebbe l’uso dello «scudo» come moneta di riserva.
Tuttavia, la creazione del Fondo monetario europeo, prevista per il 1981, è stata rinviata. E ciò mette in luce ancora di più la fragilità dello SME, un sistema strutturalmente instabile, che non può durare a lungo, perché una convergenza permanente delle politiche economiche nazionali è impossibile se gli Stati mantengono la sovranità monetaria. Esso apre una via, che, se percorsa fino in fondo, porterà alla moneta europea, ma potrà anche risolversi in un fallimento, perché non è in grado di reggere all’urto di una grave crisi internazionale, né all’aggravarsi della divergenza tra le economie. In effetti, da una parte, lo SME non offre alla Comunità strumenti per esprimersi in termini unitari sul piano internazionale; d’altra parte, gli strumenti di intervento, previsti per sostenere le economie dei paesi più deboli, sono molto al di sotto di quel 2-2,5% del prodotto interno lordo, che il Rapporto Mac Dougall ritiene necessario per realizzare la convergenza delle economie europee, indispensabile a sostenere l’unione monetaria nella fase dell’«integrazione pre-federale».
Dall’elezione europea alla riforma democratica della Comunità.
L’elezione a suffragio universale diretto del Parlamento europeo fu decisa al vertice di Parigi del 9-10 dicembre 1974 in termini approssimativi e in modo più preciso dal Consiglio europeo di Roma del 1°-2 dicembre 1975, nel corso del quale fu fissata la data per il maggio-giugno 1978, e rinviata poi di un anno (7-10 giugno 1979), a causa del ritardo determinato dalle procedure parlamentari britanniche.
Non è facile stabilire le ragioni che indussero i governi a prendere questa decisione storica, dopo averla rinviata per tanti anni. È certo però che su di essi influirono la crisi economica, la crescente ingovernabilità della Comunità e il suo processo di disgregazione. La soluzione europea di questi problemi era stata identificata da tempo nell’Unione economica e monetaria, intesa come tappa sulla via dell’Unione europea. E questi obiettivi sono stati in effetti continuamente riproposti, malgrado il fallimento dei tentativi di realizzarli, per le loro implicazioni di carattere interno (rafforzamento della coesione della Comunità) e internazionale (rafforzamento dell’autonomia internazionale della Comunità). Ma questa volta il perseguimento dell’Unione economica e monetaria è accompagnato dall’esigenza di sostenerlo con adeguati strumenti politico-istituzionali. Di qui la volontà di rafforzare il consenso verso la Comunità e di associare il popolo e i suoi rappresentanti (i partiti) alla determinazione del futuro dell’Europa.
Deve d’altra parte essere sottolineato che i governi non avrebbero certamente compiuto questa scelta, se le forze federaliste non l’avessero tenuta viva nel dibattito politico, riproponendola continuamente, anche quando correvano il rischio di rimanere isolati.
L’elezione europea rappresenta una svolta storica nello sviluppo della Comunità, perché apre la strada al controllo popolare della politica europea, finora determinata dai governi, con la partecipazione della tecnocrazia comunitaria, e dalle gigantesche concentrazioni economiche multinazionali. Si tratta della premessa indispensabile per spostare la lotta tra i partiti e le altre forze sociali dal piano nazionale al piano europeo e per far partecipare tutte le forze attive della società alle scelte politiche europee.
Dal punto di vista formale, l’elezione diretta non ha cambiato in nulla il ruolo del Parlamento in seno alla Comunità. Di fatto però essa, rendendo più evidente la contraddizione di un Parlamento dotato di soli poteri consultivi, ha creato le condizioni per accrescere l’indipendenza del Parlamento europeo dagli Stati e per modificare l’equilibrio istituzionale della Comunità; e ha posto, di conseguenza, in termini inequivocabili l’esigenza che al popolo sovrano sia attribuito, attraverso la sua rappresentanza parlamentare, il potere di fare le leggi e di controllare l’esecutivo.
Già nella Relazione generale che Fernand Dehousse scrisse nel 1960, e allegò ai testi elaborati dal Parlamento europeo per regolare la propria elezione diretta, in applicazione dell’articolo 138 del trattato istitutivo della Comunità economica europea, il dilemma dell’elezione diretta o dell’ampliamento delle competenze del Parlamento europeo era risolto a favore della prima soluzione.[32] La scelta della priorità dell’elezione diretta si fondava su due argomentazioni: da una parte, le decisioni della Comunità tendono ad assumere un’importanza tale che la mancanza di qualsiasi forma di controllo popolare sul piano europeo è in contraddizione con il principio democratico, che pure costituisce il fondamento di legittimità degli Stati nazionali; d’altra parte, l’associazione del popolo al controllo della Comunità europea avrebbe finito con il rafforzare anche i poteri del Parlamento e della Comunità nel suo complesso.
In effetti, l’interesse dell’elezione europea consiste nel fatto che permette di affrontare il problema del trasferimento del potere dal piano nazionale al piano europeo in modo graduale, a partire dagli spazi aperti dai trattati.
L’elezione diretta del Parlamento europeo ha stabilito un legame politico praticamente indistruttibile tra il popolo europeo e la Comunità, perché il riconoscimento del diritto di voto dei cittadini sul piano europeo (in un’area nella quale le istituzioni democratiche sono profondamente radicate nel costume), e l’aspettativa della ripetizione dell’elezione europea ogni cinque anni (con le conseguenze che ciò comporta) hanno come solido fondamento quello stesso delle grandi conquiste democratiche (ampliamento e approfondimento del diritto di voto), che non possono essere revocate senza mettere in discussione lo stesso principio della democrazia. D’altra parte, la trasformazione democratica della Comunità europea corrisponde a una profonda necessità storica, perché istituzioni, come quelle europee, nell’ambito delle quali si prendono decisioni di grande rilievo per il benessere e la sicurezza dei cittadini, non possono essere efficaci se non hanno una struttura democratica.
Il Parlamento europeo, in conseguenza della sua investitura popolare, tende in effetti a diventare il motore di un processo di riorganizzazione della Comunità in senso democratico. Questa evoluzione è stata bloccata dai governi, i quali pretendono di continuare a governare la Comunità con i metodi tradizionali della diplomazia. Ma dopo l’elezione europea ciò rappresenta una sfida intollerabile al principio democratico.
La vita del Parlamento europeo dopo l’elezione diretta è stata caratterizzata da due fasi. La prima, nel corso della quale il Parlamento europeo ha operato nel quadro istituzionale esistente, allo scopo di utilizzare tutti gli spazi offerti dai trattati, per accrescere il proprio ruolo nel processo decisionale e per rafforzare i propri poteri. Il Parlamento europeo ha affrontato tutti i maggiori problemi politici, economici e sociali, contribuendo in questo modo a collocarli nella dimensione giusta, quella europea. Ma questa capacità di assumere posizioni europee non è stata accompagnata da poteri adeguati a risolvere i problemi. Il Parlamento può esprimere solo opinioni, eccetto che in materia di bilancio. Ma anche lo strumento del rigetto del bilancio, quando è stato impiegato, ha rivelato, come si è visto, tutti i suoi limiti.
Deludendo le aspettative che si erano formate nell’opinione pubblica al momento dell’elezione diretta, il Parlamento europeo corre il rischio di diventare un’istituzione screditata. La stessa autorità dei deputati europei è minacciata. Questi ultimi hanno appreso dalla lezione dei fatti le ragioni dell’inefficacia del Parlamento europeo quando si tratta della soluzione dei maggiori problemi e hanno deciso di percorrere una via nuova, iniziando cosi la seconda fase della propria esperienza politica. Si tratta dell’iniziativa costituente, che il Parlamento europeo ha deciso di assumere con la risoluzione, approvata a grande maggioranza, il 9 luglio 1981. La risoluzione contiene l’impegno ad «assumere pienamente l’iniziativa di dare nuovo slancio alla creazione dell’Unione europea», a «procedere alla creazione di una commissione istituzionale permanente, a partire dalla seconda metà della legislatura del Parlamento europeo, incaricata di elaborare delle modifiche ai trattati esistenti», a «presentare, discutere e votare proposte di riforma concernenti i compiti della Comunità e, conseguentemente, le sue istituzioni», e infine a trasmettere «le proposte di riforma direttamente per ratifica ai competenti organi costituzionali in ciascuno Stato membro».[33]
Con questa decisione il Parlamento europeo ha compiuto il primo e il più importante atto sulla via dell’assunzione di un ruolo costituente. Come aveva previsto Brandt nel suo intervento al Convegno dell’Europa, svoltosi a Bruxelles dal 5 al 7 febbraio 1976, il Parlamento europeo dopo l’elezione ha sviluppato la tendenza a trasformarsi nella «assemblea costituente permanente dell’Europa».[34] E questo compito è stato assunto di propria iniziativa dal Parlamento europeo, senza che esso ne fosse investito da un mandato dei governi, ma sulla base della legittimazione democratica derivante dal voto.
L’elezione europea sembra dunque aver aperto un nuovo periodo transitorio nella costruzione dell’unità europea, che si sviluppa sul piano politico-istituzionale. Si può infatti affermare che essa ha trasformato la Comunità nell’embrione di uno Stato (non si conoscono infatti confederazioni la cui assemblea si fondi sul voto) e che, di conseguenza, lo svolgimento dell’unificazione europea avviene ormai sul terreno costituzionale (il voto è, in effetti, il principale diritto costituzionale). Il gradualismo, che ha dato buoni risultati sul terreno economico, si deve ora estendere sul piano politico. Bisogna ricordare che la costruzione dello Stato europeo non può essere il risultato di un solo atto costituzionale. Si tratta infatti di un compito ben più complesso di quello affrontato dalle assemblee costituenti, che si sono limitate a cambiare il regime di uno Stato già esistente. Il processo costituente europeo tende a costruire un nuovo Stato sul territorio occupato da un insieme di Stati sovrani, con una propria moneta, un proprio apparato amministrativo e un proprio esercito, per affrontare i problemi sui quali i governi nazionali hanno sempre esercitato una competenza esclusiva. Si tratta dunque di un compito che, per essere portato a compimento, richiederà molti anni.
Va ancora sottolineata la novità della procedura proposta per l’approvazione del trattato-costituzione. Esso dovrà essere sottoposto per la ratifica ai parlamenti nazionali o a referendum popolare. È questo il solo metodo per evitare che il testo passi attraverso il filtro delle burocrazie e delle diplomazie nazionali o degli esperti scelti dai governi, cioè per sottrarlo al vaglio di centri di decisione intergovernativi, che ne depotenzierebbero fatalmente la portata innovativa. È evidente, d’altra parte, che, se il dibattito sulla riforma democratica della Comunità dovesse essere limitato nell’ambito del Parlamento europeo, il progetto di rifondazione della Comunità sarebbe condannato a una sicura sconfitta. La strategia dei parlamentari del «Club del coccodrillo»,[35] che hanno elaborato la risoluzione del 9 luglio 1981, si propone di vincere la congiura del silenzio e dell’indifferenza che circonda la coraggiosa iniziativa del Parlamento europeo, di portare il dibattito sui contenuti della riforma della Comunità in ogni Stato e in ogni regione — in modo che i cittadini, le forze sociali e le forze politiche si possano pronunciare — di aprire una lotta per la formazione in ogni paese di maggioranze favorevoli al progetto del Parlamento europeo e di trasformare così la seconda elezione europea in una specie di referendum per o contro la riforma della Comunità, in modo che sia il popolo a dire l’ultima parola in proposito. Solo se gli sforzi del Parlamento europeo si collocheranno in questa prospettiva, sarà possibile mobilitare sul terreno europeo forze proporzionate alla dimensione del compito.
Occorre infine ricordare che il 9 luglio 1981 il Parlamento europeo ha approvato altre cinque risoluzioni su problemi istituzionali, le quali contengono proposte sul rafforzamento del ruolo del Parlamento europeo nel quadro dei trattati e degli altri accordi esistenti.[36] La risoluzione sulle relazioni tra Parlamento e Consiglio contiene proposte sul rafforzamento dell’influenza del Parlamento europeo nel processo decisionale della Comunità. In particolare, si rivendica l’ampliamento dei poteri del Parlamento europeo nell’attività legislativa, la partecipazione del Parlamento alla nomina della Commissione[37] e l’estensione delle «dichiarazioni comuni» tra Parlamento e Consiglio nei settori dell’informazione reciproca, della consultazione e della concertazione, per rendere il «processo decisionale più equilibrato, più efficace e legittimato democraticamente». Sono inoltre formulate proposte per migliorare l’informazione del Parlamento da parte del Consiglio, per estendere la consultazione del Parlamento a tutte le iniziative di carattere normativo e a quelle relative alle relazioni esterne e per rafforzare il ruolo del Parlamento nella procedura di consultazione; per migliorare la procedura di concertazione ed estenderne la sfera di applicazione alle decisioni relative ai problemi di carattere istituzionale, alle più importanti politiche comunitarie, al settore delle relazioni esterne, per difendere e rafforzare il ruolo del Parlamento europeo nella procedura di bilancio. Si auspica infine che il Consiglio prenda le proprie decisioni a maggioranza. Inoltre due risoluzioni sono dedicate rispettivamente al miglioramento delle relazioni tra il Parlamento europeo e i parlamenti nazionali e il Parlamento europeo e il Comitato economico e sociale.
Un’altra risoluzione è dedicata allo sviluppo del diritto di iniziativa legislativa del Parlamento europeo. Questo obiettivo dovrebbe essere perseguito attraverso l’approvazione di risoluzioni indirizzate alla Commissione, alla quale formalmente spetta questo diritto, e quest’ultima dovrebbe impegnarsi poi a trasmetterle al Consiglio. Nello stesso tempo, si invita il Consiglio a non decidere prima di aver conosciuto il parere del Parlamento europeo o di avere illustrato a quest’ultimo le ragioni per le quali non si è conformato a tale parere.
Un’ultima risoluzione è dedicata al ruolo del Parlamento europeo nella cooperazione politica. Vi si chiede il miglioramento dei meccanismi della cooperazione politica e il rafforzamento dell’influenza del Parlamento europeo in questo settore e, in particolare, la creazione di un Segretariato permanente che garantisca la continuità dei lavori della cooperazione politica e sia responsabile di fronte al Consiglio dei ministri degli esteri; la definizione di una procedura che consenta ai ministri degli esteri di riunirsi entro 48 ore su richiesta di almeno tre Stati; l’invito alle riunioni della cooperazione politica di tutti gli altri ministri interessati, in modo da assicurare un esame completo degli argomenti relativi alle relazioni esterne, incluso il problema della sicurezza; la creazione di più stretti legami con il Consiglio, per giungere a una politica comunitaria coerente, soprattutto in materia di relazione economiche esterne, relazioni con i paesi in via di sviluppo e di tutela internazionale dei diritti dell’uomo; l’ammissione della Commissione alle riunioni della cooperazione politica in ogni loro parte; l’impegno del Consiglio europeo a esprimersi con una sola voce su tutte le questioni di politica estera, che rivestono un’importanza vitale per la Comunità.
La filosofia alla quale queste cinque risoluzioni si ispirano è quella dei piccoli progressi da realizzare nel quadro istituzionale esistente. Da sole, le proposte contenute in queste risoluzioni non sarebbero in grado di superare i limiti strutturali delle istituzioni comunitarie e di dare una risposta adeguata ai gravi problemi interni e internazionali che nel loro ambito si devono affrontare. Tuttavia, il fatto che siano state approvate simultaneamente con la risoluzione relativa alla revisione complessiva dei trattati, proposta dal «Club del coccodrillo», fa cambiare il loro significato. Assumono cioè il significato di soluzioni transitorie in vista della riforma globale della Comunità, che richiederà, nella migliore delle ipotesi, alcuni anni per realizzarsi. D’altra parte, la politica dei «piccoli passi» non avrebbe alcuna possibilità di successo senza l’iniziativa costituente del Parlamento europeo, la quale apre la possibilità di ottenere, anche nel breve termine e nel quadro dei trattati, progressi concreti nel funzionamento delle istituzioni.
Il Rapporto dei « tre saggi» sulle istituzioni europee.
Prima di concludere questa rassegna di progetti di riforma delle istituzioni comunitarie, occorre ancora prendere in esame due documenti, il Rapporto dei «tre saggi» e il Piano Genscher-Colombo, i quali danno la misura della presa di coscienza, anche da parte dei governi, della necessità di affrontare la questione della modifica delle istituzioni comunitarie.
Il 5 dicembre 1978 il Consiglio europeo, su proposta del Presidente Giscard d’Estaing, conferì a un comitato di tre «saggi» (Barend Biesheuvel, Edmund Dell e Robert Marjolin) il mandato di studiare «gli adattamenti dei meccanismi e delle procedure delle istituzioni», che sono possibili nel quadro dei trattati, per realizzare «il funzionamento armonioso delle Comunità e il progresso sulla via dell’Unione europea». Nel comunicato del Consiglio europeo si sottolinea inoltre la necessità di poter disporre di «proposte concrete suscettibili di essere messe in opera rapidamente» soprattutto nella prospettiva del secondo allargamento della Comunità.[38]
La tesi di fondo che sorregge tutta la relazione, trasmessa ai capi di governo nell’ottobre 1979, rovescia i termini del mandato conferito dal Consiglio europeo. Secondo i «tre saggi» la crisi della Comunità non dipende dai limiti delle istituzioni, che hanno un ruolo «assolutamente secondario». Possono tutt’al più «aggravare i problemi di sostanza». La crisi, che contrasta paradossalmente con le dichiarazioni dei governi circa l’obiettivo dell’unione e con l’intento di cercare soluzioni comuni ai problemi più gravi, non dipende dalla «mancanza di sedi di discussione». La sua causa si trova piuttosto «nelle circostanze politiche e negli atteggiamenti, che talora hanno dato origine a concezioni antagonistiche sulla strada da seguire, e altre volte hanno impedito che emergesse qualsiasi concezione». Occorre quindi spostare l’attenzione dai problemi istituzionali alle «difficoltà economiche e politiche soggiacenti, che costituiscono… i principali ostacoli al progresso».[39] Con questa espressione gli autori del rapporto intendono riferirsi in primo luogo alla recessione, all’inflazione, alla disoccupazione e a tutti gli altri fenomeni che hanno accompagnato la crisi economica internazionale degli anni ‘70. Una seconda difficoltà deriva dall’ampliamento e dalla crescente complessità delle materie trattate dalla Comunità. In terzo luogo, l’allargamento della Comunità rende più arduo raggiungere un accordo tra gli Stati membri e aggrava le difficoltà del processo decisionale.
Esaurita questa premessa, la relazione affronta, in conformità con il mandato ricevuto, il tema istituzionale. E, attenendosi alla propria impostazione generale, i «tre saggi» precisano che non formulano proposte per modificare l’equilibrio esistente tra le istituzioni, ma per «far funzionare ogni istituzione il più efficacemente possibile nel suo ruolo attuale».[40]
Prendendo in esame il ruolo del Consiglio europeo, si suggerisce che quest’ultimo, nell’esercizio della sua funzione di indirizzo politico della Comunità e con la collaborazione della Commissione e del Parlamento, proponga una specie di documento programmatico circa «le priorità per razione della Comunità nei prossimi anni». Inoltre, per integrare meglio nella struttura della Comunità il Consiglio europeo, si propone che ogni Presidente di quest’ultimo partecipi a una riunione del Parlamento europeo per discutere sulle linee di fondo della politica europea.
D’altra parte, per far fronte alla debolezza del Consiglio dei ministri, si propone di rafforzare la Presidenza, riconoscendole particolari responsabilità nella direzione del lavoro del Consiglio e nel coordinamento con gli altri organi della Comunità, assicurandole l’autorità necessaria per far applicare le regole che consentono un buon funzionamento del Consiglio, attribuendole le risorse in termini di organizzazione e di personale, indispensabili ad assolvere ai propri compiti. Per quanto riguarda quest’ultimo punto, si propone il rafforzamento del Segretariato del Consiglio. Inoltre, per evitare che il Consiglio sia travolto dall’enorme quantità di decisioni che deve prendere, si suggeriscono due rimedi: la delega di determinati compiti alla Commissione e l’attribuzione delle questioni di importanza politica minore al COREPER. Per quanto riguarda poi la procedura di voto in seno al Consiglio, si prende atto che è impossibile eludere il «compromesso di Lussemburgo», cioè il riconoscimento del diritto di veto di ciascuno Stato membro. Si raccomanda tuttavia il ricorso al voto a maggioranza nei casi in cui il trattato non impone l’unanimità e non sono in gioco interessi molto importanti di nessuno Stato.
Il rapporto dei «tre saggi» formula poi le proprie proposte sulla Commissione. Il numero dei commissari dovrebbe essere ridotto a uno per ogni Stato, come era già stato suggerito dal Rapporto Spierenburg,[41] per rendere efficace e coerente il funzionamento di questa istituzione. Inoltre, l’autorità del Presidente dovrebbe essere rafforzata, in modo da consentire a quest’ultimo di assolvere al proprio ruolo al più alto livello negli affari della Comunità. Nello stesso tempo, il Presidente della Commissione dovrebbe continuare a essere scelto dal Consiglio europeo almeno sei mesi prima degli altri membri della Commissione, in modo che la designazione di questi ultimi da parte dei governi nazionali avvenga «in stretta consultazione» con il Presidente. In definitiva, queste proposte dovrebbero evitare di ridurre la Commissione a un «segretariato» tecnico del Consiglio e permetterle di diventare più indipendente e di interpretare gli interessi complessivi dell’Europa.
Per quanto riguarda il Parlamento, esso dovrebbe continuare a discutere il programma annuale della Commissione, ma dovrebbe anche discutere ogni sei mesi lo stato di avanzamento del programma. I commissari dovrebbero presentarsi al Parlamento, quando si discutono questioni importanti. E la Commissione dovrebbe prendere maggiormente in considerazione le risoluzioni del Parlamento. Infine, la relazione sostiene la necessità di evitare che si formino relazioni troppo strette tra Parlamento e Commissione, che si isolerebbe così dal Consiglio. Mentre dovrebbe svilupparsi una relazione triangolare Parlamento-Commissione-Consiglio, che permetterebbe di assicurare un equilibrio istituzionale più completo e più stabile.
Prendendo in considerazione i problemi posti dall’allargamento della Comunità, il rapporto rifiuta la proposta di differenziare la posizione dei vari Stati in seno alla Comunità, che finirebbe con il creare un’Europa che si sviluppa «a due velocità». In ogni caso provvedimenti limitati di questo genere dovrebbero essere presi con la partecipazione di tutti gli Stati membri senza pregiudicare il funzionamento del Mercato comune e avere carattere provvisorio.
Il limite teorico della relazione dei «tre saggi» consiste nella sottovalutazione del ruolo delle istituzioni nella storia. L’analisi dell’evoluzione della Comunità dimostra, come ho cercato di fare nelle pagine precedenti, che lo sviluppo della società europea ha fatto nascere nuovi bisogni e nuovi problemi, ai quali l’assetto istituzionale esistente non è più in grado di dare una risposta. La crisi della Comunità è la crisi di un’organizzazione politica che non è in grado di compiere scelte e prendere decisioni all’altezza dei soverchianti problemi interni e internazionali, che rischiano di travolgerla. È vero che istituzioni comunitarie più forti non avrebbero potuto certamente evitare la crisi economica, la quale è un effetto dell’esaurimento del ciclo storico, iniziato dopo la conclusione della seconda guerra mondiale e sviluppatosi sotto la guida degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica, e quindi anche un effetto della crescita dell’influenza internazionale della Comunità europea, cosi come del Terzo mondo. In realtà, il rafforzamento della Comunità ha determinato la crisi monetaria, cosi come il rafforzamento del Terzo mondo ha determinato la crisi energetica. Si tratta di problemi che non è possibile risolvere in modo evolutivo nel quadro del vecchio ordine mondiale bipolare. Si può quindi affermare che un diverso equilibrio istituzionale nella Comunità e il trasferimento sul piano europeo di competenze almeno nei settori monetario, fiscale e del bilancio avrebbero potuto offrire alla Comunità i mezzi per fronteggiare in modo più efficace la crisi tanto nel campo politico, quanto nel campo economico e monetario e per difendere quanto è stato realizzato in trent’anni di vita comunitaria ed è oggi gravemente minacciato.
Chi si attende, come i «tre saggi», che una struttura che affida i poteri esecutivo e legislativo a un organismo che opera con i metodi tradizionali della diplomazia (il Consiglio dei ministri più il Consiglio europeo) possa gestire la politica europea e affrontare la nuova sfida mondiale, va contro il senso comune e contraddice i principi di razionalità, di efficacia e di democrazia, sui quali si fonda l’organizzazione dei nostri Stati. In realtà, la Comunità necessita di una profonda riforma del sistema istituzionale e non dei piccoli aggiustamenti proposti dai «tre saggi». D’altra parte, come già abbiamo sottolineato, il problema di questa riforma non può essere risolto da un comitato di esperti. Ne è una prova il risultato fallimentare di tutti i tentativi (compreso quello che qui stiamo esaminando) di realizzarla attraverso questa procedura. La responsabilità delle scelte di questa portata spetta ai politici e non può essere delegata ai tecnici. Solo con gli strumenti della lotta politica, le forze favorevoli al cambiamento della Comunità potranno far trionfare il loro progetto di riforma delle istituzioni.
D’altra parte, se il Consiglio europeo ha avuto il merito di porre il problema del cambiamento delle istituzioni, reso ormai indilazionabile dal secondo allargamento, va tuttavia sottolineato che l’ha fatto in termini riduttivi. Conformemente ai suoi interessi di potere, che esigono la conservazione delle sovranità nazionali, ha chiesto che il progetto istituzionale non si spingesse al di là del quadro dei trattati.
L’attenzione di chi vuole una riforma efficace del sistema comunitario deve rivolgersi al Parlamento europeo, il quale, dopo l’elezione diretta, ha acquisito un potere di fatto, un potere di mobilitazione e di lotta, che lo può trasformare nel motore dell’unificazione europea. Il Parlamento europeo non può rafforzarsi, ed estendere i suoi poteri, se non ha un esecutivo europeo da controllare. Il suo stesso interesse politico lo spinge pertanto a rafforzare la Comunità e a sviluppare l’indipendenza di quest’ultima rispetto agli Stati. Dal Parlamento europeo ci si deve dunque attendere l’indicazione sia del modello istituzionale che può permettere all’Europa di progredire verso l’unità, sia della procedura da adottare e del cammino da percorrere per raggiungere questo obiettivo.
Il Piano Genscher -Colombo sul rilancio dell’Unione europea.
Prendiamo ora in esame il Piano Genscher-Colombo,[42] che i ministri degli esteri tedesco e italiano hanno presentato ufficialmente per la prima volta al Parlamento europeo nel novembre 1981. Il piano è composto di due documenti: un progetto di Atto europeo, relativo al rilancio dell’Unione europea, e un progetto di Dichiarazione sui temi dell’integrazione economica, nel quale si afferma che l’Unione europea presuppone ulteriori progressi nell’integrazione economica, in particolare l’Unione economica e monetaria.
L’iniziativa italo-tedesca ha avuto il merito di riportare sul tavolo del Consiglio europeo e più in generale, di rimettere all’ordine del giorno del dibattito politico europeo, il problema del rafforzamento della Comunità, dalla cui mancata soluzione dipendono le crisi e, per certi aspetti, i regressi dell’unificazione europea negli anni ‘70. Quanto agli obiettivi, essa propone di estendere la cooperazione dai settori economico e della politica estera a quelli della sicurezza, della cultura e del diritto. Per quanto riguarda le istituzioni, essa propone di rafforzare il ruolo del Consiglio europeo e di inserire organicamente quest’ultimo nel corpo delle istituzioni comunitarie. Il Consiglio europeo diventa il supremo organo direttivo della Comunità e unifica sotto la propria responsabilità anche le materie che sono oggetto della cooperazione politica. Sono istituiti i Consigli dei ministri per la cooperazione culturale e della giustizia. Inoltre il Consiglio europeo e il Consiglio dei ministri, quando trattano questioni concernenti le Comunità europee saranno assistiti dal Segretariato del Consiglio, e nel settore della politica estera, della sicurezza e della cooperazione culturale da un Segretariato di carattere evolutivo della cooperazione politica. D’altra parte, il Parlamento sarà consultato e informato con maggiore sistematicità: il Consiglio presenterà un rapporto semestrale sulla propria attività e uno annuale sui progressi dell’Unione europea; il Presidente del Parlamento sarà consultato prima della nomina del Presidente della Commissione e, dopo la nomina della Commissione, si svolgerà nel Parlamento un dibattito sulla investitura; la «procedura di concertazione» tra Parlamento, Consiglio e Commissione è estesa, su richiesta del Parlamento, a tutte le materie di «particolare rilevanza»; il Parlamento sarà consultato prima della conclusione di accordi di adesione e di associazione di altri Stati e di trattati internazionali. Sulla procedura di voto in seno al Consiglio, si ribadisce la legittimità del diritto di veto da parte dello Stato che invochi un «interesse vitale», ma quest’ultimo dovrà indicarne le ragioni per iscritto. Infine, dopo cinque anni dalla firma, l’Atto europeo sarà sottoposto a una revisione che incorpori i progressi realizzati in un trattato sull’Unione europea, che sarà preparato dai ministri degli esteri e presentato, per parere, al Parlamento.
Nel complesso si tratta di una risposta inadeguata al problema del rafforzamento della capacità di azione della Comunità, anche se si deve ammettere che essa contiene un elemento positivo: aver riconosciuto che la sfera degli interessi e degli obiettivi della Comunità europea si deve estendere dal terreno economico a quello della politica estera e della difesa. Nello stesso tempo, però, porre questi nuovi obiettivi, dopo il fallimento del tentativo di costruire l’Unione economica e monetaria, può apparire evasivo.
In effetto, senza progressi sul terreno della formazione di un governo dell’economia europea, in particolare in assenza di una manifestazione di volontà circa il passaggio alla seconda tappa dello SME e il rafforzamento del bilancio comunitario, la prospettiva di far evolvere l’unificazione europea sul piano politico e militare appare del tutto inconsistente. A titolo di esempio, va ricordato che l’uso dello «scudo» come mezzo di pagamento internazionale potrà rappresentare un potente strumento per dare alla Comunità un ruolo internazionale.
D’altra parte, va aggiunto che l’esperienza della Comunità ha oramai dimostrato, senza possibilità di contraddizione, che la cooperazione intergovernativa non è in grado di far progredire in modo sostanziale l’unificazione europea sul terreno istituzionale. Infatti, chi gestisce i poteri nazionali tende a pensare alla costruzione dell’unità europea in termini di collaborazione tra i governi e a escludere l’ipotesi del trasferimento della sovranità a organi politici europei, a meno che il processo storico non abbia posto un problema la cui soluzione sia tale da mettere in discussione le sovranità nazionali, come avvenne con la proposta di creare un esercito europeo come alternativa al riarmo della Germania federale.
I governi, così come tutte le formule fin qui sperimentate di collaborazione tra i governi, hanno esaurito il loro potere di direzione politica in seno alla Comunità. La conclusione inevitabile da trarre da questa considerazione è che bisogna cambiare le relazioni tra gli Stati, rafforzando le istituzioni della Comunità. Il Piano Genscher-Colombo è espressione di questa consapevolezza, anche se la riforma che propone è inadeguata. Spetta al Parlamento europeo raccogliere questa sfida e proporre le riforme istituzionali di cui la Comunità ha bisogno.
Le condizioni del successo della riforma istituzionale.
Nel filo di questa esposizione è possibile riconoscere un criterio di spiegazione del fallimento dei progetti di riforma delle istituzioni finora proposti. Come è ovvio, i governi oppongono una resistenza strutturale a qualsiasi progetto di riforma delle istituzioni comunitarie che intacchi le sovranità nazionali. Tuttavia, l’indirizzo di fondo della politica estera dei governi è la collaborazione sul piano europeo necessaria ad affrontare i maggiori problemi politici ed economici. La contraddizione, che comincia a profilarsi fin dall’inizio dell’unificazione europea e che si aggrava progressivamente ad ogni sua fase evolutiva, risiede nell’estensione della dimensione supernazionale del processo produttivo, la quale tende a creare un’unità europea di fatto, cui corrisponde la dimensione nazionale dei governi, che hanno l’ultima parola nelle decisioni anche in materia europea attraverso la concentrazione del potere nel Consiglio dei ministri e nel Consiglio europeo. Nello stesso tempo, la Comunità è diventata progressivamente una potenza economica, che tende a mettere in discussione l’egemonia americana sul mondo occidentale e l’ordine internazionale che ha reso possibile l’unificazione europea
La conseguenza di queste contraddizioni è una tensione sempre più forte tra i bisogni di cambiamento, che si accumulano in tutti i settori della società, e l’ostacolo che trovano nelle istituzioni comunitarie, con la loro inefficienza e la loro debolezza nella gestione delle politiche comuni e della politica di costruzione dell’unità europea e con la loro impotenza di fronte ai centri di potere politici ed economici internazionali, cui sono tuttora subordinate.
In certi momenti della vita politica europea queste contraddizioni si sono aggravate a tal punto da determinare delle crisi così acute che la stessa stabilità delle istituzioni politiche nazionali è stata messa in pericolo. Solo in circostanze del genere i governi sono stati indotti a compiere scelte che comportavano il superamento, sia pure graduale, delle sovranità nazionali. Abbiamo avuto modo di illustrare un precedente storico importante: il tentativo di costruire, nel contesto della guerra fredda, un esercito europeo, che aveva spinto i governi ad avviare la procedura per la costituzione di una Comunità politica europea.
Anche l’elezione europea, scelta dai governi in risposta alla gravissima crisi economica e al pericolo di disgregazione della Comunità, sta rivelando tutte le sue implicazioni di carattere costituzionale. Abbiamo sottolineato che in entrambe le circostanze l’intervento delle organizzazioni federaliste si rivelò decisivo nello stimolare i governi a trovare una via di uscita dalla crisi, dando un nuovo impulso alla costruzione dell’unità politica europea. Si può quindi affermare che, se i governi dispongono del potere per realizzare progetti di questa portata, in circostanze normali, non sono però in grado di spingersi al di là del metodo della cooperazione intergovernativa. Le organizzazioni federaliste dispongono invece solo di un potere di iniziativa, che, in circostanze eccezionali, si è dimostrato decisivo nel determinare i governi a prendere decisioni che si muovevano nella direzione della rinuncia alla sovranità e della costruzione dello Stato federale europeo. Tutta la storia dell’unificazione europea dimostra che, nel reciproco isolamento, né i governi né l’avanguardia federalista sono in grado di realizzare progressi verso quell’obiettivo. I progressi sono stati sempre il risultato della convergenza tra questi due elementi.
Anche le iniziative di Jean Monnet relative alla CECA e alla CED avevano caratteristiche analoghe e si dimostrarono decisive nello stimolare i governi a trovare una via di uscita dalla crisi derivante dal problema tedesco, attraverso lo sviluppo dell’unificazione europea. Ma il progetto di Monnet aveva carattere funzionalistico e la sua attuazione si scontrò con le contraddizioni del metodo che l’aveva ispirato. Mentre le organizzazioni economiche europee si sono sviluppate e hanno consentito di approfondire la collaborazione tra gli Stati senza mettere in discussione la sovranità nazionale, e quindi senza modificare i rapporti di forza interni e internazionali esistenti, è fallito il tentativo di estendere il modello comunitario al settore militare. L’esercito rappresenta l’oggetto di una prerogativa fondamentale della sovranità. Era quindi illusorio pensare che fosse possibile creare un esercito europeo senza un governo europeo. Questa contraddizione aprì quindi lo spazio all’iniziativa costituzionale del Movimento federalista europeo, che ottenne il risultato di affidare all’Assemblea allargata della CECA il compito di elaborare lo statuto della Comunità politica europea. Così fu colmato il limite della proposta di Comunità europea di difesa, formulata da Monnet, anche se il progetto non si realizzò, come si è visto, soprattutto a causa della caduta di tensione nella guerra fredda.
In conclusione, si può affermare che la condizione determinante per il successo del tentativo di costruire lo Stato europeo è costituita dalla confluenza di tre fattori: la decisione dei governi di accettare una proposta di carattere costituzionale proveniente dall’avanguardia federalista nel contesto storico di una situazione eccezionale, nella quale la sopravvivenza stessa delle sovranità nazionali è minacciata.
Quanto alla procedura da seguire per ottenere un progetto adeguato alle necessità di riforma del sistema istituzionale, occorre osservare innanzitutto che il Parlamento europeo è il solo organo in grado di elaborare un testo soddisfacente. In primo luogo, perché è l’unica istituzione nella quale è rappresentato democraticamente l’insieme dei popoli della Comunità e dei partiti tanto di governo quanto di opposizione e quindi ha l’autorità necessaria ad assolvere a un compito costituente. Bisogna però rilevare che questa condizione era realizzata solo parzialmente nell’Assemblea della CECA, che elaborò il progetto della Comunità politica europea, perché i suoi membri erano eletti di secondo grado e non tutti i partiti di opposizione vi erano rappresentati. In secondo luogo, perché l’interesse politico primario del Parlamento europeo è quello di trasformare i propri poteri consultivi in poteri legislativi e, più in generale, di battersi per sviluppare le potenzialità federali presenti nella dinamica istituzionale della Comunità fino al traguardo dell’unificazione politica.
La Commissione ha un uguale interesse al rafforzamento della Comunità, ma non dispone di un potere pari alla dimensione del compito, perché è un organo tecnocratico e non democratico. E questa sua caratteristica segna un limite invalicabile ai suoi sforzi diretti a modificare l’equilibrio istituzionale della Comunità. Questo limite è emerso chiaramente nel tentativo, attuato da Hallstein nel 1965, di attribuire risorse proprie alla Comunità e di rafforzare i poteri di bilancio del Parlamento europeo, che è stato esaminato sopra.
Queste osservazioni sono di per sé sufficienti a spiegare il fallimento dei progetti di origine governativa o elaborati da esperti nominati dai governi o da altre istituzioni comunitarie.
Un altro aspetto essenziale della procedura proposta dal Parlamento europeo per portare a compimento la riforma istituzionale è quello di sottoporre il proprio progetto direttamente alla ratifica dei parlamenti nazionali o a referendum popolare. Così sarebbe possibile aggirare l’ostacolo rappresentato dai governi nazionali, i quali, com’è noto, operarono prima per snaturare, poi per accantonare il progetto costituzionale elaborato dall’Assemblea ad hoc.
I contenuti minimi della riforma istituzionale.
A conclusione di questa analisi occorre ancora cercare di individuare alcuni principi fondamentali che definiscano i contenuti minimi della riforma istituzionale. Lo scopo della riforma deve essere un profondo cambiamento, come abbiamo cercato di dimostrare, perché la Comunità, nella struttura attuale, non funziona più. Tuttavia, il successo del cambiamento dipende dalla capacità del progetto di riforma di inserirsi nel solco dell’evoluzione storica e politica della Comunità e di far leva sulle contraddizioni dei meccanismi istituzionali per trasformarne il funzionamento e farlo corrispondere ai nuovi bisogni maturati nella vita politica europea.
La Comunità è in embrione un sistema federale con un regime parlamentare. La riforma si deve innestare sulle contraddizioni di questa struttura. Come ha scritto Albertini, «il Parlamento può censurare la Commissione, ma questo controllo dell’esecutivo è imperfetto, perché il Parlamento non ha l’ultima parola circa l’approvazione delle leggi e la formazione della Commissione. La Commissione può elaborare la politica della Comunità, ma questo potere è imperfetto, perché è un potere di proposta al Consiglio, ma non di attuazione, e quindi obbliga la Commissione a proporre le soluzioni accettabili da ognuno dei ministri del Consiglio invece che soluzioni adeguate alla natura dei problemi sul tappeto. Il Consiglio ha il potere di difendere gli interessi vitali degli Stati membri, ma questo potere è imperfetto, perché può essere esercitato solo con il veto, cioè con la paralisi dell’azione della Comunità».[43]
Di conseguenza, occorre correggere le imperfezioni delle istituzioni comunitarie nella prospettiva del completamento del sistema di governo federale e della piena realizzazione del regime parlamentare. Ciò comporta che si attribuisca al Parlamento europeo il potere legislativo e il potere di investire il governo; che si conferisca alla Commissione il potere esecutivo non solo per quanto riguarda l’iniziativa della politica comunitaria, ma anche per quanto riguarda la sua attuazione; che si trasformi il Consiglio nella seconda Camera dell’organo legislativo della Comunità (la Camera degli Stati), la quale consentirebbe di difendere gli interessi degli Stati, però senza che questi ultimi debbano ricorrere al potere di veto; che il Consiglio europeo assuma il ruolo di presidenza collegiale della Comunità, in conformità con l’esigenza di prevedere un organo di questa natura in un regime parlamentare.
D’altra parte, per quanto riguarda la ridistribuzione delle competenze tra gli Stati e la Comunità, ciò comporta che si avvii un processo in due fasi: la prima, nel corso della quale si attribuiscano alla Comunità i poteri monetari, fiscali e di bilancio, che sono necessari al governo dell’economia europea. In questa fase, il Consiglio manterrebbe il potere di decisione in materia di politica estera e di difesa. Ciò significa che ogni Stato conserverebbe il proprio potere di veto in questi settori, nei quali si incontrano le maggiori difficoltà a un trasferimento di competenze.
Tuttavia, l’uso dello «scudo» come mezzo di pagamento internazionale consentirebbe di rafforzare la cooperazione politica nel campo della politica estera e militare, e di preparare, di conseguenza, la transizione alla seconda fase, che comporta il trasferimento completo di queste competenze alla Comunità.[44]
Quarant’anni dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale gli Europei, eleggendo il Parlamento europeo a suffragio universale diretto e avviando poi la trasformazione della Comunità in senso democratico e federale, sembrano aver appreso la lezione della storia. La crescente distruttività della guerra li ha indotti, come aveva previsto Kant due secoli fa,[45] a imboccare la via della costruzione di un governo democratico sovrannazionale. La elezione europea è il primo esempio storico di un’elezione a carattere sovrannazionale. Essa ha permesso di estendere la partecipazione democratica, che finora si fermava ai confini degli Stati, dal piano nazionale al piano internazionale. È la premessa indispensabile per arrivare al controllo popolare di quel settore della vita politica, che fino ad oggi ha costituito il dominio esclusivo della ragion di Stato e quindi dello scontro diplomatico e militare tra gli Stati e della concorrenza anarchica tra le società multinazionali.
Con l’elezione europea si è aperta una prima breccia nel bastione della ragion di Stato, contro il quale si sono infrante le ondate dell’internazionalismo liberale, democratico e socialista. La prima affermazione della democrazia internazionale configura dunque un nuovo modo di organizzare le relazioni tra gli Stati, una formula che permette di sfuggire all’alternativa del nazionalismo e dell’imperialismo e di superare la logica della potenza nelle relazioni internazionali. Se l’unificazione europea raggiungerà il traguardo federale, questo evento segnerà una tappa della storia: l’avvio del superamento dello Stato nazionale, l’espressione della più profonda divisione politica e del più forte accentramento del potere che la storia dell’umanità abbia conosciuto. L’alternativa federalista, che oggi è all’ordine del giorno in Europa, tende a essere operante anche negli altri continenti, che aspirano all’unificazione, e su scala mondiale, per risolvere i problemi della crescente interdipendenza tra gli Stati e del disordine internazionale e per consentire all’umanità di intraprendere la marcia verso la pace perpetua, il disarmo universale e l’uguaglianza di tutte le nazioni.
LUCIO LEVI
BIBLIOGRAFIA
AA. VV., Vers les élections européennes, DEPP, Paris, s.d., ma 1977.
M. Albertini, L’integrazione europea e altri saggi, Il Federalista, Pavia, 1965.
Id., «La fondazione dello Stato europeo. Esame e documentazione del tentativo intrapreso da De Gasperi nel 1951 e prospettive attuali», Il Federalista, XIX, 1976, n. 1.
Id., «La Comunità europea, evoluzione federale o involuzione diplomatica?», Il Federalista, XXI, 1979, n. 3-4.
A. Albonetti, Preistoria degli Stati Uniti d’Europa, 2a ed., Giuffré, Milano, 1964.
H. Brugmans, L’idée européenne. 1920-1970, 3a ed., De Tempel, Bruges, 1970.
N. Catalano, «I poteri effettivi che i trattati di Roma attribuiscono all’Assemblea parlamentare europea» in I poteri e le competenze del Parlamento europeo, Giuffré, Milano, 1979.
A. Chiti-Batelli, L’Unione europea. Proposte, sviluppi istituzionali, elezioni dirette, Senato della Repubblica, Roma, 1978, con una appendice di documentazione di 30 voll.
Id., I «poteri» del Parlamento europeo, Giuffré, Milano, 1981.
R. Ducci, B. Olivi, L’Europa incompiuta, CEDAM, Padova, 1970.
R. Jackson, J. Fitzmaurice, The European Parliament. A Guide to Direct Elections, Penguin Books, Harmondsworth, Middlesex, 1979.
E. Jouve, Le général de Gaulle et la construction de l’Europe (1940-1966), Librairie générale de droit et de jurisprudence, Paris, 1967, 2 voll.
W. Hallstein, Der Unvollendete Bundesstaat (1969), trad. it. Europa federazione incompiuta, Rizzoli, Milano, 1971.
V. Herman, J. Lodge, The European Parliament and the European Community, MacMillan, London, 1978.
J. Lecerf, Histoire de l’unité européenne, Gallimard, Paris, 1965-1975, 2 voll.
L. Levi, L’unificazione europea. Trent’anni di storia, SEI, Torino, 1979.
J.-C. Masclet, L’Union politique de l’Europe, PUF, Paris, 1973.
L.V. Majocchi, F. Rossolillo, Il Parlamento europeo. Significato storico di un’elezione, Guida, Napoli, 1979.
J. Monnet, Les Etats-Unis d’Europe ont commencé, Laffont, Paris, 1955.
Id., Mémoires, Fayard, Paris, 1976.
B. Olivi, Il tentativo Europa, Etas Libri, Milano, 1979.
A. Papisca, Europa ‘80. Dalla Comunità all’Unione europea, Bulzoni, Roma, 1975.
Id., Verso il nuovo Parlamento europeo. Chi come perché, Giuffré, Milano, 1979.
Parlamento Europeo, L’integrazione europea e il futuro dei Parlamenti in Europa, Segretariato generale, Direzione generale della ricerca e della documentazione, Luxembourg, 1975.
C. Sasse, Le processus de décision dans la Communauté européenne. Les exécutifs nationaux au Conseil de ministres, PUF, Paris, 1977.
A. Spinelli, L’Europa non cade dal cielo, Il Mulino, Bologna, 1960.
Id., La mia battaglia per un’Europa diversa, Lacaita, Manduria, 1979.
G. Zampaglione, L’Europa e gli organismi comunitari, ERI, Torino, 1979.
C. Zorgbibe, La construction politique de l’Europe (1978), trad. it., La costruzione politica dell’Europa, Il Saggiatore, Milano, 1979.
[1] Questo testo si trova in L. Levi, L’unificazione europea. Trent’anni di storia, SEI, Torino, 1979, pp. 90-91.
[3] W. Hallstein, Der Unvollendete Bundesstaat (1969), trad. it. Europa federazione incompiuta, Rizzoli, Milano, 1971, p. 27.
[4] Per il verbale della riunione sopra ricordata si veda: M. Albertini, «La fondazione dello Stato europeo. Esame e documentazione del tentativo intrapreso da De Gasperi nel 1951 e prospettive attuali», Il Federalista, XIX, 1976, n. 1. Il testo del trattato istitutivo della CED si trova in Relazioni internazionali, XVIII, 1954, n. 27.
[5] A. Spinelli, «Rapporto politico al V congresso del MFE», Europa federata, V, 30 novembre 1952, n. 1, p. 6.
[6] Assemblea ad hoc incaricata di elaborare un progetto di trattato per l’istituzione di una Comunità politica europea, Discussioni. Resoconti stenografici delle sedute, Strasbourg, s.d., ma 1953, p. 7.
[8] La novità della procedura adottata in questa occasione fu sottolineata dal Presidente dell’Assemblea ad hoc, Paul-Henry Spaak, al momento della consegna dei testi approvati dall’Assemblea stessa ai Ministri degli esteri (ibid., p. 439).
[9] Assemblea ad hoc incaricata di elaborare un progetto di trattato per una Comunità politica europea, Progetto di trattato concernente lo Statuto della Comunità europea. Informazioni e documenti ufficiali della Commissione costituzionale, Edizione del Segretariato della Commissione costituzionale, Paris, 1953. Il progetto di trattato recepisce in gran parte le proposte formulate dal Comitato di studi per la costituzione europea, presieduto da Spaak e composto da giuristi e dirigenti federalisti, tra cui Spinelli. Il Comitato fu istituito il 6 marzo 1952 per definire le strutture dell’organizzazione costituzionale dell’Europa e per dare quindi un contenuto preciso all’esigenza espressa dall’articolo 38 del Trattato istitutivo della CED. Il risultato dei lavori del Comitato è costituito da nove risoluzioni, raccolte in: Comité d’Etudes pour la Constitution Europénne, Résolutions, Mouvement européen, Bruxelles, 1952, trad. it., Risoluzioni del Comitato di studi per la costituzione europea, CEDAM, Padova, 1954. Esso conserva tuttora la propria attualità, come mostra il lavoro di F. Rossolillo, Proposte per la soluzione della crisi istituzionale della Comunità, il quale costituisce un aggiornamento delle risoluzioni elaborate nel 1952, allo scopo di adeguarle all’evoluzione storica della Comunità e di dare al Parlamento europeo eletto utili indicazioni per il suo compito costituente. Va ricordato infine che tra il materiale messo a disposizione dell’Assemblea ad hoc era compreso il lavoro curato da R.R. Bowie e C.J. Friedrich, Etudes sur le fédéralisme, Mouvement européen, Bruxelles, 1952-53, 7 voll., trad. it., Studi sul federalismo, Comunità, Milano, 1959.
[11] P. Delouvrier, «Esperienze in fatto di integrazione europea e prospettive per il futuro», in L’integrazione europea, a cura di C. Grove Haines, Il Mulino, Bologna, 1957, pp. 172-73.
[14] Si veda E. Jouve, Le Général de Gaulle et la construction de l’Europe (1940-1966), Librairie générale de droit et de jurisprudence, Paris, 1967, vol. II, pp. 242-43. Nel progetto di de Gaulle era prevista la convocazione di «un solenne referendum europeo» per dare una legittimazione democratica alle istituzioni confederali. Esso avrebbe permesso di mobilitare il popolo europeo e i partiti nel dibattito politico sulla costruzione della unità europea e di dimostrare l’elevato grado di adesione dell’opinione pubblica all’idea dell’Europa unita. È vero che si trattava di un surrogato negativo dell’elezione a suffragio universale diretto del Parlamento europeo. Ma è anche vero che all’inizio degli anni ‘60, in una fase di impetuoso sviluppo dell’unificazione economica, non esistevano le condizioni politiche per spingere gli Stati e concedere il diritto di voto sul piano europeo e a riconoscere così la sovranità del popolo europeo. La proposta fu tuttavia abbandonata nel corso delle successive trattative su richiesta del cancelliere Adenauer, perché nella costituzione della Germania federale non è previsto l’istituto del referendum.
[15] «Premier projet de traité établissant une Union d’Etats présenté par la France devant la Commission Fouchet», in E. Jouve, op. cit., p. 442.
[16] J. Monnet, Mémoires, Fayard, Paris, 1976, p. 512.
[17] L. Levi, op. cit., pp. 177-78.
[18] Si veda C. Sasse, Le processus de décision dans la Communauté européenne. Les exécutifs nationaux au Conseil des ministres, P.U.F., 1977, pp. 155-58.
[19] Commissione delle Comunità Europee, Relazione del gruppo di studio sul ruolo della finanza pubblica nell’integrazione europea, Ufficio delle pubblicazioni ufficiali, Bruxelles-Luxembourg, 1977, 2 voll.
[20] «Rapporto al Consiglio e alla Commissione sulla realizzazione per fasi dell’Unione economica e monetaria nella Comunità», Bollettino delle Comunità europee, 1970, supplemento n. 11.
[21] Commission des Communautés européennes, Direction générale des affaires économiques et financières, Rapport du groupe de réflexion «Union économique et monétaire 1980», Bruxelles, 8 marzo 1975.
[24] «Rapporto dei ministri degli affari esteri ai capi di Stato e di governo degli Stati membri delle Comunità europee», Bollettino delle Comunità europee, 1970, n. 11, p. 9 e segg.
[25] «Secondo rapporto sulla cooperazione politica europea in materia di politica estera», Bollettino delle Comunità europee, 1973, n. 9.
[26] «Relazione del gruppo ad hoc per l’esame dell’ampliamento delle competenze del Parlamento europeo», Bollettino delle Comunità europee, 1972, supplemento n. 4.
[27] Si veda C. Sasse, op. cit., pp. 170-77.
[28] J. Monnet, op. cit., p. 592.
[29] M. Duverger, «Le présidium de la Communauté», Le Monde, XXXV, 7 dicembre 1978, pp. 1-2.
[30] «L’Unione europea. Rapporto al Consiglio europeo», Bollettino delle Comunità europee, 1976, supplemento n. 1.
[31] «Rapporto della Commissione sull’Unione europea», Bollettino delle Comunità europee, 1975, supplemento n. 5.
[32] Parlamento europeo, Commissione politica, Per l’elezione del Parlamento europeo a suffragio universale diretto. Raccolta di documenti, Direzione generale della documentazione parlamentare e dell’informazione, Luxembourg, 1969, pp. 29-43.
[33] Si veda «Europe documenti. Il Parlamento europeo e la riforma delle istituzioni», in Europe. Agence internationale d’information pour la presse, XXI, 31 agosto 1981, n. 207, pp. 1-2.
[34] Si veda L. Levi, op. cit., p. 228.
[35] Sull’attività del «Club del Coccodrillo» si veda la rivista Crocodile. Lettera ai membri del Parlamento europeo, edita da A. Spinelli e F. Ippolito a Bruxelles a partire dall’ottobre 1980.
[36] Si veda Europe documenti. Il Parlamento europeo e la riforma delle istituzioni, cit., pp. 2-12.
[37] Già il 17 aprile 1980 il Parlamento europeo aveva approvato una risoluzione, sulla base di una relazione di Jean Rey, nella quale si chiedeva che al Parlamento fosse riconosciuto il potere di investitura della Commissione, utilizzando in modo costruttivo il diritto di censura attribuitogli dai trattati, press’a poco come era stato proposto dalla Relazione Vedel.
[38] Rapport sur les Institutions européennes, présenté au Conseil européen par le Comité des Trois, Bruxelles, ottobre 1979, p. 1.
[41] Proposte per una riforma della Commissione delle Comunità europee e dei suoi servizi, Bruxelles, 24 settembre 1979.
[42] Si veda «Iniziativa Italo-Tedesca di ‘Atto europeo’ e Iniziativa Italo-Tedesca di dichiarazione sui temi dell’integrazione economica», UniEuropa , XI, 31 dicembre 1981, n. 24, pp. 3-5.
[43] M. Albertini, «La crisi dell’integrazione europea e il problema delle istituzioni», Il Federalista, XXIII, 1981, n. 3-4, p. 170.
[44] Queste proposte sono sviluppate in M. Albertini, «La proposta del MFE per il dibattito sulla riforma istituzionale della Comunità», Il Federalista, XXIII, 1981, n. 2, pp. 111-16 e in F. Rossolillo, op. cit.
[45] I. Kant, Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico (1784), in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, a cura di N. Bobbio, L. Firpo e V. Mathieu, Torino, 2a ed. 1965, pp. 131-34.