IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXXVIII, 1996, Numero 3, Pagina 208

 

 

TOLLERANZA E SOCIETA’ MULTICULTURALE
 
 
L’idea di tolleranza, che oggi è oggetto di innumerevoli dibattiti e pubblicazioni e che sembra diventata una delle idee-chiave per leggere, interpretare e indirizzare le scelte morali e politiche di una società che tende sempre più ad assumere la caratteristica della multiculturalità, in realtà si è presentata spesso alla ribalta nelle riflessioni di uomini di cultura delle epoche passate, anche se il termine «tolleranza» è stato a volte sostituito da altre espressioni, e anche se l’ambito della sua applicazione pratica è cambiato, allargandosi a contesti sempre più vari e complessi.
La tolleranza è stata ed è di volta in volta indicata come la risposta, da una parte all’esigenza di difendere la propria identità e, dall’altra, a quella di garantire la convivenza dei membri di una comunità attraverso il reciproco riconoscimento di una pari dignità per ognuno di essi. La tolleranza è in questo senso l’antidoto a ciò che Rousseau chiama, riferendosi agli individui, «amor proprio», ossia la vanagloria, la pienezza di sé dell’individuo che non tollera di essere offuscato dalle idee e dalle azioni degli altri individui. «Il compito che si pone ogni momento a ogni uomo», scrive Gadamer, «è davvero gigantesco: si tratta di tenere sotto controllo i propri personali preconcetti, la sfera egocentrica degli impulsi e degli interessi privati, in modo che l’Altro non diventi o non resti invisibile».[1]
Ma quale di queste due polarità, individualità e comunità, è prioritaria? E’ più pressante, nel mondo in cui viviamo, l’esigenza di difendere le diversità, oppure l’esigenza della convivenza civile basata sul presupposto della solidarietà? Gadamer definisce la solidarietà come «quell’accordo irriflesso e spontaneo sulla base del quale è possibile prendere decisioni comuni e valide per tutti nella sfera morale, sociale e politica»,[2] che impongono di andare alla ricerca nell’Altro e nel Diverso di quel che vi è di comune. E’ forse questa la via che, ponendo le due esigenze sullo stesso piano, permette di conciliarle?
 
Tolleranza e pregiudizi.
 
L’intolleranza può essere legata sia a pregiudizi sia a giudizi di valore. Certo, ciò che separa gli uni dagli altri può essere una linea sottile, ma la sfera del pregiudizio tende comunque a prescindere dal confronto tra valori che possono confliggere fra di loro nella vita sociale. Essa è l’atteggiamento di coloro che disprezzano qualsiasi contesto culturale diverso dal proprio e qualsiasi differenza esteriore (colore della pelle, modo di vestire, di parlare, ecc.), indipendentemente da considerazioni di merito o demerito, di giustizia o ingiustizia, di adeguatezza o inadeguatezza alla convivenza nell’ambito di una comunità.
Naturalmente spesso i pregiudizi sfociano in conflitti di valore laddove il disprezzo si tramuta in concreta emarginazione, ma alla base di essi non c’è un atteggiamento razionale (considero ciò giusto o sbagliato), bensì c’è un atto di volontà basato sul «gradimento» (accetto o rifiuto di approvare).
Ci sono armi contro il pregiudizio? Esso sembrerebbe un atteggiamento difficile da sradicare, se ha condizionato il pensiero di grandi uomini che non si possono certo tacciare di sciocca ignoranza. Voltaire — che pure ha dato un importante contributo all’analisi dell’idea di tolleranza[3] — sostenne che «se l’intelligenza dei Negri non è di un’altra specie rispetto al nostro intelletto, è però di molto inferiore».[4] E così anche David Hume, che scrisse: «Propendo a ritenere che i Negri, e in generale tutte le altre specie di uomini… siano naturalmente inferiori ai bianchi».[5] E ancora Thomas Jefferson riteneva che «i Negri — siano essi una razza originariamente distinta, oppure che si è differenziata con il tempo e le circostanze — siano inferiori ai bianchi nella costituzione del corpo come dello spirito».[6]
Certo, essi non avevano a disposizione le conoscenze che l’uso di strumenti di ricerca sempre più sofisticati — in particolare, nel campo delle cosiddette differenze razziali, la genetica — mettono a disposizione dei contemporanei,[7] ma in realtà non esiste un rapporto necessario e quasi automatico tra cammino della conoscenza ed eliminazione dei pregiudizi. Questi col tempo diventano qualcosa di intimo e pervadono le nostre relazioni, diventando una specie di rifugio, una cittadella murata in difesa dei propri interessi individuali. E nel conflitto fra conoscenza e interessi spesso vince la tendenza a privilegiare i secondi.
Questo rapporto tra conoscenza e tolleranza ha perciò bisogno di intermediari che svolgano la loro azione nel tempo: da una parte la coercizione per quanto riguarda le conseguenze sociali negative del pregiudizio, e dall’altra l’educazione che condiziona le intime convinzioni di ognuno.
Ma l’educazione alla tolleranza implica il vivere insieme, implica la contiguità che permette la conoscenza reciproca. Per questo è del tutto sbagliata la tendenza, che sta prendendo piede in alcune società multiculturali e multietniche, verso la valorizzazione delle differenze attraverso la «separazione». E’ quello che sta succedendo, ad esempio, nella più variegata delle società del mondo moderno, la società americana, in cui al melting pot si contrappone una frammentazione che privilegia l’identità e i diritti dei gruppi etnici, in cui il dogma multietnico viene abbandonato, e il separatismo si sostituisce all’integrazione.[8] Ma la separazione e la competizione tra gruppi non generano che mania di persecuzione e sospetto reciproco, mentre la cosiddetta politically correctness diventa un simbolo di tolleranza e rispetto del tutto ambiguo.
 
Tolleranza e diversi giudizi di valore.
 
Per quanto riguarda il rapporto fra giudizi di valore e tolleranza, il discorso è più complesso. Il concetto di tolleranza, in questo caso, è collegato alla disapprovazione e avversione verso qualcosa che si considera sbagliato, dato che è incoerente parlare di tolleranza nei confronti di ciò che si approva.[9] In un certo senso è una sorta di indulgenza. «Indulgente, scrive Kant, è chi non odia gli altri per i loro errori. Chi è indulgente è tollerante».[10] Ma la tolleranza nei confronti di qualcosa che si considera sbagliato presenta delle ambiguità, o perlomeno pone dei problemi.
Che rapporto si instaura fra tollerante e tollerato? La tolleranza è inevitabilmente collegata al relativismo, e al limite allo scetticismo (la verità non esiste: esistono tante verità), oppure può diventare una premessa per avvicinarsi alla formulazione di verità condivise? E’ giusto che chi crede in una certa idea o in certi valori accetti passivamente, tollerandole, le conseguenze concrete di azioni motivate da idee o valori che non condivide? La tolleranza è una scelta «di principio» o «funzionale», ossia è un bene in sé o è legata a considerazioni di ordine pubblico e di pace sociale (coesione dello Stato)?
Per rispondere a queste domande si può iniziare collegando il concetto di tolleranza a quello di pari dignità delle persone e delle idee. Uno dei presupposti fondamentali della tolleranza è appunto l’uguale dignità di tutti gli esseri umani, che perciò meritano rispetto in quanto tali, in quanto cioè possono essere kantianamente definiti agenti razionali, potenzialmente liberi e capaci di formare e definire la propria identità.
Ma la definizione della propria identità non è un fatto privato: essa avviene attraverso il dialogo continuo con gli altri ed implica perciò il riconoscimento. Mentre il rispetto è una forma di «astensione» dal giudizio ed ha come presupposto l’uguaglianza, il riconoscimento è un atteggiamento attivo, che spinge verso la valorizzazione della differenza. Proprio quest’ultima è diventata il punto di forza di quei movimenti contro le discriminazioni che caratterizzano le società pluralistiche e multiculturali del nostro tempo. Le risposte che la cultura e la politica liberal-democratica hanno dato al problema della libertà e dell’uguaglianza sono messe in discussione sulla base della considerazione che vanno garantite non solo le libertà fondamentali (di pensiero, di parola, di stampa, ecc.) e il soddisfacimento dei bisogni fondamentali (istruzione, reddito, salute, ecc.), ma vanno garantite anche le specificità culturali di individui e gruppi che non si riconoscono nella cultura dominante. La virtù della tolleranza non dovrebbe dunque consistere solo nel «lasciar vivere» o nell’«astenersi dall’esercitare il proprio potere nei confronti delle opinioni ed azioni altrui, anche se sono diverse dalle proprie per aspetti rilevanti ed anche se le si disapprova dal punto di vista morale»,[11] ma anche nel «creare delle opportunità per gli altri e fare di tutto per aiutarli a mantenere e coltivare le loro diversità».[12]
L’accento posto sulle differenze e sulla loro difesa, come già ricordato, è ciò che sta mettendo in crisi la società americana. La politica del riconoscimento si è legata all’esigenza di autoaffermazione etnica contro la nazionalizzazione culturale, alla celebrazione dell’etnia mediante lo sviluppo di una letteratura o di una storia compensatoria ispirata a risentimento o orgoglio di gruppo e basata spesso su falsificazioni,[13] all’organizzazione di forme di sostegno alla comunità etnica (scuole apposite, centri di riunione esclusivi, ecc.), e alla rivendicazione di un ruolo attivo dello Stato in difesa dei diritti delle minoranze oltre che di quelli individuali, attraverso la concessione di opportunità a cui la maggioranza non dovrebbe avere diritto.[14]
Ma è giusto andare in questa direzione? In realtà, sia nella storia americana che in quella europea, è stata proprio l’accentuazione e l’esasperazione delle differenze che ha portato all’intolleranza. Se il pluralismo si associa alla creazione di forme di segregazione, il positivo si tramuta in negativo, ciò che viene considerato una forma fondamentale di civiltà diventa strumento di inciviltà. Le varie forme di tribalismo che si stanno manifestando nel mondo (a livello etnico, religioso o politico), basate sull’esigenza di partecipazione ad emozioni comuni, esclusive, rischiano di immergerci in un’atmosfera di fanatismo.[15]
L’idea di tolleranza portata fino a questo limite ha come premessa una sorta di scetticismo, o relativismo, per cui ciò che conta per ogni uomo e per ogni gruppo è «la sua verità» (le sue idee, la sua cultura, le sue scelte morali e di vita), che non può e non deve essere influenzata né condizionata dalla «verità degli altri». E a sua volta questa premessa si fonda sulla paura dell’uniformità, dell’omogeneizzazione, che sono viste, oggi in particolar modo, come pericoli reali legati alla società della «comunicazione globale». Se la tolleranza per la diversità avesse la funzione di promuovere la scoperta della verità, ciò porterà alla fine, si teme, alla scomparsa della diversità, cioè all’unanimità.[16]
Contro la necessità di pervenire a dei punti fermi unanimemente condivisi si è espressa, ad esempio, Hannah Arendt. Essa difende la diversità in se stessa e subordina la verità al pluralismo che permette un discorso senza fine fra gli uomini: l’idea tradizionale di verità, sostiene, minaccia la pluralità di prospettive in continuo mutamento e la libera scelta delle opinioni a cui aderire, e sostituisce l’infinita conversazione della politica con la singola voce di tutti gli uomini razionali.[17] Perciò la tolleranza va difesa in quanto sta alla base della possibilità di discussione e di dibattito, e ciò costituisce un valore superiore alla verità.
Porre l’accento sulla diversità può dunque condurre a due sbocchi: il fanatismo o il pluralismo come valore prioritario, e dunque fine a se stesso, e ambedue, seppure in modi diversi, hanno un fondamento relativistico.
Ma esiste un terzo sbocco che, non assolutizzando la diversità, la recupera come elemento di un processo, un processo senza fine, ma non senza punti fermi — e questi sono quei valori la cui presenza o assenza condiziona la possibilità del dialogo infinito fra le diversità. La tolleranza, in questo caso, si basa sul concetto di fallibilismo. «Il fatto che gli esseri umani siano fallibili, scrive Popper, vuol dire che tutti possiamo sbagliare… Ma affermare questo equivale a dire che la verità esiste, e che ci sono azioni che sono moralmente giuste, o quasi giuste. Il fallibilismo certo implica che la verità e il bene non sono a portata di mano, e che dovremmo essere sempre pronti a scoprire che ci siamo sbagliati». Nel confronto fra opinioni diverse bisogna partire da questo presupposto: «Può darsi che io abbia torto e tu abbia ragione». Se coloro che si confrontano «sottoscrivono questa affermazione, ciò è sufficiente a garantire reciproca tolleranza… Ma se si vuole evitare il relativismo si deve andare oltre. Dovrebbero dire: ‘Può darsi che io abbia torto e tu abbia ragione; e se discutiamo il problema razionalmente può darsi che possiamo correggere i nostri errori e può darsi che tutti e due possiamo avvicinarci di più alla verità…’».[18]
Sulla base degli stessi presupposti si fondano le affermazioni di John Stuart Mill sulla tolleranza, che egli ritiene un mezzo per un fine, la verità. «Man mano che l’umanità avanza, scrive, il numero delle dottrine che non sono più messe in discussione o in dubbio aumenterà costantemente; e il benessere dell’umanità può quasi essere misurato dal numero e dall’importanza delle verità che sono diventate incontestabili…».[19] La tolleranza nei confronti delle opinioni diverse, per Mill, è dunque strumentale ed è in funzione di un punto d’arrivo, raggiunto il quale in un certo senso essa non ha più alcun ruolo: se il fine della tolleranza è la formazione di opinioni consolidate, una volta che queste hanno preso forma devono avere lo stesso valore per tutti.
Che non si possa fare a meno di punti fermi è dimostrato anche dalla constatazione che tutti coloro che si sono occupati del problema della tolleranza concordano sul fatto che la sua messa in pratica impone dei limiti. Non si può, ad esempio, tollerare l’intolleranza, non si può essere tolleranti verso la manipolazione dei fatti, non è tollerabile la negazione dell’uguaglianza dei diritti, ecc.
La tolleranza è dunque la premessa per il confronto e il dialogo, ma nello stesso tempo è subordinata a quei valori negando i quali viene negata essa stessa, valori che sono progressivamente emersi nel corso della storia e che, sia pure non pienamente e universalmente realizzati, tendono a diventare il fondamento del vivere in comune.
I diversi gruppi etnici e religiosi presenti nelle società multiculturali che fanno della diversità la loro bandiera, e che chiedono quel riconoscimento in senso forte che implica la concessione di diritti particolari da parte dello Stato, creano invece una contrapposizione fra diritti particolari e valori comuni, a cui pure si appellano. Le richieste di trattamento differenziato da parte dei franco-canadesi del Québec sono un esempio. Questo ha adottato diverse leggi relative alla difesa della lingua francese: una stabilisce che né i francofoni né gli immigrati possono iscrivere i propri figli a scuole di lingua inglese, un’altra impone l’uso del francese sul lavoro nelle imprese con più di cinquanta dipendenti. In nome della sopravvivenza collettiva di un gruppo il governo del Québec ha cioè imposto ai cittadini residenti delle restrizioni che da una parte sono contrarie ai contenuti della Carta canadese dei diritti adottata nel 1982, dall’altra ledono il diritto di tutti i cittadini di fare scelte libere e autonome relative ad alcuni aspetti della loro vita.[20]
 
Cittadinanza e appartenenza.
 
La logica della società multiculturale sembra generare una sorta di «scollatura… tra cittadinanza e appartenenza. L’idea democratica moderna di un’appartenenza interamente risolta nella cittadinanza, scrive Giacomo Marramao, non è più in grado di fronteggiare le sfide della società contemporanea. Sappiamo ormai che vi sono dei bisogni di identificazione simbolica che non possono trovare mai piena realizzazione nella sfera della cittadinanza… La virtualità di rispondere alla domanda sociale con un ampliamento degli orizzonti… della cittadinanza è data fino a quando si ha a che fare con conflitti politici (sui diritti di uguaglianza), oppure con conflitti economici e sociali (rivendicazioni di interessi o di status). Ma non si dà più nel momento in cui entra in campo il conflitto etico, il conflitto di valori».[21]
Ora, se è vero che stiamo assistendo un po’ ovunque nel mondo alla manifestazione di questo fenomeno di frammentazione basata sul proliferare di identità «blindate», ciò che bisogna chiedersi è se la tolleranza verso la «proliferazione meccanica della logica identitaria» può spingersi fino all’accettazione passiva della disgregazione, che inevitabilmente sfocia nel conflitto, oppure se è possibile trovare un punto di equilibrio che risolva la contrapposizione fra cittadinanza e appartenenza e renda pensabile la cittadinanza multiculturale.
Il potenziale conflitto fra cittadinanza e appartenenza intesa come identificazione simbolica è stato risolto dall’ideologia nazionale, attraverso l’imposizione di una cultura unitaria e attraverso simboli mitici che hanno portato alla coincidenza della cittadinanza con l’appartenenza a una comunità nazionale resa e considerata omogenea in modo fittizio.
Ma proprio la crisi degli Stati nazionali legata alla nuova realtà che si sta profilando, al progressivo aumento dell’interdipendenza, contiene il germe di una nuova soluzione più libertaria di quel conflitto. Lo contiene in senso dialettico, perché proprio questa crisi e l’interdipendenza sono fra i fattori scatenanti del processo di disgregazione in nome della tolleranza come riconoscimento delle diversità, e ciò rappresenta la negazione della sintesi fra cittadinanza e appartenenza. Ma nello stesso tempo quei due fattori pongono una domanda a cui non si può fare a meno di dare una risposta: la domanda di quali istituzioni alternative debbano affermarsi proprio per governare la crisi e affrontare l’interdipendenza senza scatenare fenomeni di disgregazione.
Ciò che sta avvenendo in Europa, se essa riuscirà a portare a compimento la sua unificazione federale, è la risposta concreta che gli Stati europei danno a quella domanda e l’indicazione della via che dovrà percorrere il mondo intero, se non si vorrà rassegnarsi a subire le conseguenze dell’ingovernabilità dei problemi globali. Ma nello stesso tempo questa risposta conterrà un elemento politicamente e simbolicamente nuovo: il superamento della cittadinanza esclusiva.
Paradossalmente, la reazione ai pericoli di disgregazione della più avanzata società multiculturale, la società americana, può portare verso il nazionalismo. Lo stesso Arthur Schlesinger così risponde alla crisi del melting pot: «La storia dà il senso dell’identità. Non dobbiamo pensare che i nostri valori siano in assoluto i migliori, ma essi sono ancorati alla nostra esperienza nazionale (i documenti, gli eroi, le tradizioni, ecc.). Chi ha una storia diversa avrà valori diversi. Ma noi crediamo che i nostri siano i migliori per noi». L’antidoto contro le minacce alla coesione dello Stato è, pur con il dovuto apprezzamento per le diversità, l’esaltazione della «nazionalità americana».[22]
Al contrario in Europa la risposta ai pericoli di disgregazione sarà la formazione di uno Stato federale multinazionale, i cui cittadini potranno diventare i soggetti di una vera «rivoluzione culturale». Se — come è pensabile, vista la variegata struttura della società europea — con la Federazione europea nascerà un nuovo modello di Stato federale, più articolato rispetto al modello americano e strutturato in vari livelli di governo che diano voce e potere alle varie comunità territoriali (locali, regionali, statali e federali), ciò significherà la fine della cittadinanza esclusiva e la nascita di un nuovo concetto di identità.
La ricerca di identità «blindate» è legata al fatto che il senso di appartenenza viene collegato al bisogno di identificazione simbolica che non si ritiene soddisfatto nella sfera della cittadinanza proprio perché questa fino ad ora ha avuto il carattere dell’esclusività. Questo carattere ha comportato un ruolo pervasivo dello Stato al di là della sfera pubblica — la sfera dei diritti e doveri fondamentali dei cittadini sanciti nelle costituzioni democratiche — per invadere la sfera privata delle scelte etico-culturali. Il superamento della cittadinanza esclusiva porta alla separazione delle due sfere, abolendo tendenzialmente l’ingerenza statuale nella seconda, il cui controllo è strettamente legato all’esigenza della interiorizzazione da parte dei cittadini dell’ideologia nazionale. E ciò permetterà di invertire la tendenza all’esasperata e spesso intollerante richiesta di riconoscimento delle differenze che è una delle cause della rinascita del nuovo nazionalismo tribale che si sta sviluppando nelle nostre società.
Nello stesso tempo il modello di democrazia federale basato su diversi livelli di governo può innescare un processo virtuoso di recupero della democrazia in termini sostanziali, creando le condizioni per una società più aperta e tollerante.
I conflitti di valore nella sfera pubblica, così come i conflitti di interesse, possono essere composti senza fratture definitive e contrapposizioni non costruttive se istituzioni adeguate non solo garantiscono a tutti, attraverso la libertà e l’uguaglianza, la soddisfazione dei «bisogni primari», ma anche favoriscono il dialogo continuo come strumento per risolvere i conflitti. La tolleranza, in un quadro istituzionale adeguato, non appare più come «gentile concessione» di chi crede di avere aprioristicamente ragione nei confronti di chi ha opinioni diverse, ma come la condizione naturale di una società che ammette e dà voce a «dissensi morali rispettabili».[23] Ciò è possibile se ogni individuo, indipendentemente dal contesto culturale a cui si sente legato e dalle sue scelte di vita, può partecipare efficacemente, insieme agli altri individui, alle scelte che riguardano il mondo che egli condivide con loro. La tolleranza, in definitiva, può progressivamente diventare una pratica spontanea — e sfuggire così al pericolo di rivolgersi contro se stessa attraverso le cosiddette «politiche della differenza» — solo se gli individui-cittadini si sentiranno pienamente partecipi di progetti comuni. Se uno degli elementi essenziali delle rivendicazioni dei neocomunitari è la «ricerca compensativa di calore comunitario contro il ‘grande freddo’ delle istituzioni puramente procedurali delle nostre democrazie»,[24] si tratta di opporsi all’attuale tendenza a definire la comunità come il «luogo» dell’identità etnica, religiosa, culturale e di definirla invece in termini territoriali, ossia come il luogo in cui gli individui, con le loro differenze, convivono e progettano insieme il loro futuro attraverso «il discorso e l’azione».[25]
L’emergere e il diffondersi della società multiculturale è in un certo senso un fenonleno «necessario», nel senso che, essendo legato all’evoluzione del modo di produrre, ad esso non si può opporsi: ciò che possiamo fare è, da una parte accertare i problemi che pone e dall’altra cercare di padroneggiarli.
Abbiamo visto come di fronte ai nuovi problemi posti dal multiculturalismo, fra cui quello della tolleranza, spesso emergono reazioni scomposte, più legate alla paura, a sentimenti immediati, che a una ricerca di nuovi criteri di giudizio e quindi di nuove soluzioni. L’affermazione di un nuovo concetto di «cittadinanza», legato alla creazione di istituzioni federali articolate in vari livelli territoriali e di governo, può essere la soluzione per evitare di assolutizzare il bisogno di identificazione simbolica, che può portare a un fanatismo intollerante, per cercare una sintesi fra cittadinanza e appartenenza ed affermare la cittadinanza multiculturale.
 
Nicoletta Mosconi


[1] Hans Georg Gadamer, Das Erbe Europas, Francoforte, Suhrkamp Verlag, 1989 (trad. it., L’eredità dell’Europa, Torino, Einaudi, 1991, p. 21).
[2] Ibidem, p. 97.
[3] Voltaire, Trattato sulla tolleranza, Milano, Feltrinelli, 1995.
[4] Paolo Rossi, Naufragi senza spettatore, Bologna, Il Mulino, 1995, p. 114.
[5] Ibidem, p. 114.
[6] Ibidem, p. 115.
[7] Luca e Francesco Cavalli-Sforza, Chi siamo. La storia della diversità umana, Milano, Mondadori, 1995.
[8] Arthur M. Schlesinger, The disuniting of America, New York-London, W.W. Norton & Company, p. 17.
[9] Susan Mendus (a cura di), Justifying Toleration, Cambridge, Cambridge University Press, 1988, pp. 3 e segg.
[10] Immanuel Kant, Benjamin Constant, La verità e la menzogna. Dialogo sulla fondazione morale della politica, Milano, Mondadori, 1996, p. 256.
[11] Susan Mendus e David Edwards (a cura di), On Toleration, Oxford, Clarendon Press, 1987 (trad. it., Saggi sulla tolleranza, Milano, Il Saggiatore, 1990, p. 6).
[12] Ibidem, p. 21.
[13] Arthur M. Schlesinger, op. cit., p. 55.
[14] Michael Walzer, What It Means to be an American. Essays on the Arnerican Experience, New York, Marsilio, 1992 (trad. it., Che cosa significa essere americani, Venezia, Marsilio, 1992).
[15] Michel Maffesoli, Le culture comunitarie, Roma, Il Mondo 3 Edizioni, 1996.
[16] Susan Mendus, Justifying Toleration, cit., p. 177.
[17] Susan Mendus, ibidem, pp. 183-84.
[18] Susan Mendus e David Edwards, Saggi sulla tolleranza, cit., p. 37.
[19] John Stuart Mill, On Liberty, citato in Susan Mendus, Justifying Toleration, cit., p. 92.
[20] Charles Taylor, Multiculturalism and the Politics of Recognition, Princeton, Princeton University Press, 1992 (trad. it., Multiculturalismo. La politica del riconoscimento, Milano, Anabasi, 1993, p. 76).
[21] Giacomo Marramao, Zone di confine, Roma, Il Mondo 3 Edizioni, 1996, p. 46.
[22] Arthur M. Schlesinger, op. cit., pp. 137-38.
[23] Charles Taylor, Multiculturalismo, cit., pp. 36 e segg.
[24] Giacomo Marramao, op. cit., p. 40.
[25] Hannah Arendt, The Human Condition, Chicago-London, University of Chicago Press, 1958 (trad. it., Vita Activa. La condizione umana, Milano, Bompiani, 1994).

 

 

 

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