IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LX, 2018, Numero 2-3, Pagina 131

 

 

SOLUZIONI ISTITUZIONALI SONO IN GRADO
DI RIDURRE IL “DEFICIT DEMOCRATICO”
DELL’UNIONE EUROPEA?

 

 

Le istituzioni democratiche non sono strutture statiche dello spazio politico, sono anzi continuamente esposte a sfide e cambiamenti. La democrazia europea ha subito modificazioni sostanziali negli ultimi cinquant’anni parallelamente agli sviluppi politici: un’Unione europea in espansione sta attribuendo poteri sostanziali a istituzioni sovranazionali molto lontane, se non addirittura completamente indipendenti, dai cittadini.[1] Questa evoluzione mette in discussione le caratteristiche dell’attuale e della futura democrazia in Europa: chi governerà e a quali interessi il governo dovrebbe rispondere quando i cittadini sono in disaccordo ed hanno richieste divergenti?[2] Il “deficit democratico” può nascere sia dall’input, sia dall’output del processo politico. Il primo si riferisce alla rappresentanza dei cittadini nel processo legislativo; il secondo, invece, alla misura in cui le politiche rispecchiano le preferenze dei votanti.[3] Date le dimensioni e la varietà delle comunità politiche che formano l’Unione europea, la democrazia ha bisogno di basarsi sul consenso e sulla partecipazione. Nei prossimi paragrafi intendo sviluppare ulteriormente l’analisi del concetto di “deficit democratico”, contestualizzandolo poi nel caso dell’Unione europea. Alla luce dell’evoluzione storica delle istituzioni europee e della loro struttura attuale, sostengo che il “deficit democratico” stia nella mancanza di governo per il popolo e di governo del popolo. È tuttavia necessario definire queste due categorie e identificare i loro contorni. Per fare ciò, faccio riferimento alla definizione delle istituzioni politiche data da Mosca,[4] secondo il quale la democrazia rappresentativa è un sistema politico che dà al pubblico una qualche voce nella selezione dell’élite politica, ma non è in grado di cancellare sostanziali diseguaglianze di potere, e di conseguenza le società differiscono in primo luogo per la misura in cui le loro istituzioni assicurano una “circolazione delle élites”, e verifico quale sia lo stato delle élites europee.

L’analisi della democrazia nell’Unione europea deve prendere in considerazione due relazioni diverse. In primo luogo: il canale cittadini-istituzioni europee offre una rappresentanza democratica (input) – i cittadini dei paesi europei sono ben rappresentati nelle istituzioni europee? Questo tipo di problema richiede l’analisi dello spazio politico nel suo insieme e di domandarsi se esso soddisfi tre condizioni di base: 1) l’esistenza di un’opinione pubblica, che renda trasparente il processo politico; 2) il fatto che il processo legislativo non comporti un numero eccessivo di livelli di delega, perché la delega introduce un elemento di disturbo; 3) la protezione dei diritti delle minoranze.[5] Per la terza condizione è cruciale essere coscienti del fatto che a livello europeo non è sufficiente avere una rappresentanza nazionale, intesa come “tutti i paesi dovrebbero essere rappresentati”, ma anche una rappresentanza politica, nel senso che i membri delle istituzioni sovranazionali discutano i problemi in un’ottica politica e non solo tecnica. In secondo luogo, nel processo di integrazione europea gli Stati nazionali hanno delegato competenze ad organismi sovranazionali. Ora, poiché nel complesso sistema dell’Unione europea le istituzioni creano norme, ma gli Stati nazionali sono tuttora i soli che mettono in atto politiche (output) nei settori più importanti per i concreti diritti dei cittadini (mercati del lavoro e politiche sociali), è cruciale capire se gli Stati nazionali siano in grado di operare entro i limiti fissati dalle prime. Riunendo le due relazioni e attenendoci alla definizione di Mosca: ai cittadini dei paesi europei è stata data la possibilità di scegliere con il voto i loro rappresentanti nelle istituzioni sovranazionali (e di decidere sulla creazione delle istituzioni stesse) che ora definiscono le regole secondo cui i governi nazionali intervengono sulle loro preferenze?

E’ necessario un breve excursus storico per rispondere a queste domande. Le tre principali istituzioni che detengono il potere legislativo ed esecutivo, il Parlamento europeo e il Consiglio dell’Unione europea per il primo e la Commissione per il secondo, sono nate come istituzioni della CECA con il Trattato di Parigi nel 1951, con nomi e funzioni differenti. Il Trattato è stato firmato dai Primi ministri di sei paesi europei. Col tempo, le istituzioni sono evolute ed hanno accolto nuovi membri; infine è stato introdotto il suffragio universale per l’elezione del Parlamento europeo con una decisione del Consiglio europeo del 1976 e la prima elezione ha avuto luogo nel 1979. Oggi il Presidente della Commissione è eletto dal Parlamento europeo su proposta del Consiglio Europeo, mentre il Consiglio dell’UE è formato da rappresentanti degli Stati nazionali eletti con cariche ministeriali all’interno dei loro governi. Tornando alle condizioni di base di Crombez per la rappresentanza,[6] si può onestamente affermare che la vox populi non abbia avuto un ruolo centrale nella scelta delle élites che hanno dato vita alle istituzioni europee[7] e che il sistema che ne è scaturito sia complesso e con un elevato grado di delega. Una tappa fondamentale nell’integrazione europea è stato il Trattato di Maastricht, firmato nel 1992, con il quale è stata decisa l’Unione economica e monetaria; esso è successivamente evoluto con la creazione della Banca centrale europea e con l’introduzione dell’euro. La prima ha tolto ai governi nazionali il controllo della politica monetaria e l’introduzione del secondo ha portato alla convergenza dei tassi di interesse in tutti gli Stati europei. La politica fiscale è rimasta nelle mani dei governi nazionali, sottoposta, però, (in teoria) a stretti vincoli.[8] Tuttavia da allora sono state portate avanti iniziative sporadiche e spesso non coerenti per allineare economie che continuano a mantenere strutture diverse, nelle quali i cittadini hanno diverse preferenze, per cui la produzione di politiche può essere divergente, come ha dimostrato la crisi dell’eurozona. Inoltre, gli stretti vincoli esistono, ma le sanzioni correlate alla loro violazione non sono mai state applicate.

La mancanza di un’opinione pubblica è una caratteristica centrale dell’UE, dal momento che i cittadini non erano in grado di selezionare, se non in modo molto indiretto, le élites che li avrebbero rappresentati a livello sovranazionale. Tuttavia l’evoluzione delle istituzioni ha portato ad un quadro istituzionale che non è sostanzialmente antidemocratico. Un sistema formato da un legislativo bicamerale e da un esecutivo può ben funzionare in modo democratico. Gli aspetti sui quali il dibattito sul deficit democratico si è spesso concentrato negli anni recenti, come la precisa composizione delle istituzioni e le modalità di voto in seno al Consiglio, sono interessanti ed importanti, ma non intaccano sostanzialmente il quadro istituzionale.[9] Ciò che invece è cruciale è la “circolazione delle élites” nell’attuale quadro istituzionale: nel loro comportamento, che si traduce nel processo decisionale dell’UE, l’interesse nazionale prevale sul conflitto sociale[10] o su qualsiasi altra forma di divisione sociale presente nelle società nazionali. Ciò è anche dovuto al fatto che la distinzione delega-sussidiarietà nell’UE è così complessa da non tracciare chiare demarcazioni di responsabilità, e così per i cittadini diventa difficile comprendere le dinamiche politiche a più livelli, rendendo tutto il processo governativo meno trasparente; inoltre la competizione tra i partiti politici che concorrono nelle elezioni europee non ha un riscontro reale nell’attribuzione di responsabilità nella scelta delle politiche comuni, alla luce dei poteri limitati del PE, cosicché le scelte elettorali finiscono per essere effettuate su problemi nazionali: piuttosto che richiedere la circolazione delle élites a livello dell’UE, un primo passo sarebbe di dar loro un effettivo potere. La mancanza di un preesistente senso di identità collettiva, la mancanza di un dibattito politico a livello europeo e la mancanza di un’infrastruttura istituzionale a livello europeo che possa assicurare la responsabilità politica di quanti svolgono ruolo politico europeo rappresentano un triplo deficit che sembra impossibile superare,[11] considerando anche il fatto che nessuno di questi deficit è stato colmato prima dell’allargamento ad Est, che ha esacerbato i contrasti. Nel quadro politico europeo manca quindi il governo del popolo.

Il secondo aspetto, quello della produzione di politiche, è il governo per il popolo.[12] L’importanza del principio di sussidiarietà è chiara: le regole espresse dalle élites europee, altamente delegate e tecniche, lasciano uno spazio politico e – cosa ancor più importante – economico sufficiente per decisioni politiche nazionali o locali? L’argomentazione sulla democrazia qui non è altrettanto chiara come nel caso del governo del popolo, ma se le istituzioni potessero portare avanti politiche che garantiscano diritti economici e sociali, la preoccupazione democratica per la rappresentanza dovrebbe almeno diminuire. Tuttavia, sorgono subito problemi: la pluralità degli interessi nazionali, che a loro volta dipendono dalle diverse identità entro gli Stati nazionali, limita sistematicamente la capacità dell’Europa di portare avanti un’integrazione positiva. Per tale motivo, la politica al livello europeo dà il suo meglio nel campo dell’integrazione negativa, dove la Commissione e la Corte di giustizia non hanno incontrato vincoli politici nell’espandere l’ampiezza e l’intensità della politica di concorrenza, che ha fortemente ridotto le opzioni politiche per il governo di economie capitalistiche, senza essere in grado di esprimere capacità di governo proporzionatamente ampie a livello europeo.[13] Questa affermazione generale trova espressione concreta nel Trattato di Maastricht, che ha conferito il potere della politica monetaria ad un’istituzione non elettiva, la Banca centrale europea, che agisce autonomamente nello stabilire i tassi di interesse. Il Trattato fissa inoltre strette linee guida per le politiche fiscali che lasciano poco spazio per interventi sul bilancio da parte dei governi, specialmente in caso di emergenze, come ha dimostrato la crisi dell’eurozona.[14] In termini di equilibrio di potere tra gli Stati nazionali nell’arena europea, l’introduzione dell’euro ha portato le prestazioni macroeconomiche al primo posto dell’ordine del giorno delle istituzioni. Dopo la crisi, il peso dell’assestamento tra le diverse strutture economiche e tra i diversi programmi di welfare ha creato due blocchi contrapposti, i paesi del Nord, con la Germani in testa, e i paesi del Sud. Poiché la bilancia del potere ha favorito la rigidità nordica, i paesi meridionali sono rimasti con ancor meno spazio di manovra. Non intendo sostenere una posizione “sovranista”, ma l’analisi condotta in questo capoverso mostra che il “dare spazio al mercato”[15] è la conseguenza di uno scarso spazio per l’integrazione positiva in seno all’UE. Inoltre, dopo la crisi, il governo per il popolo è stato messo sotto una pressione ancora maggiore a causa della divergenza dei cicli economici.

Secondo Moore,[16] lo sviluppo della democrazia nasce dalla competizione per realizzare tre obiettivi: 1) individuare le regole arbitrarie; 2) sostituire le regole arbitrarie con regole giuste e razionali; 3) ottenere la partecipazione alla fissazione delle regole da parte della popolazione ad esse sottoposta. I punti due e tre sono quanto la democrazia europea ha bisogno per un governo per il popolo e del popolo. Tuttavia le soluzioni non si realizzeranno all’improvviso. L’attuale sviluppo dell’Unione bancaria europea può essere considerato un buon passo avanti nell’evitare situazioni divergenti in tempi di crisi, insieme all’aumento della supervisione sovranazionale sul sistema bancario (e indirettamente sui conti nazionali). Tuttavia emerge un paradosso: completare l’Unione bancaria richiederebbe la mutualizzazione del debito, cosa sulla quale i paesi del Nord non sono d’accordo, in quanto questi richiedono anzitutto che i paesi meridionali riducano i propri debiti; contemporaneamente, nella misura in cui vengono realizzate politiche di austerità, questi ultimi dispongono di pochissimo spazio per ridurli senza tagli ai salari e alla protezione sociale. Il dibattito è aspro sia in ambiente accademico,[17], [18] sia nelle istituzioni. Questa specifica situazione mette in luce un quadro più ampio: le istituzioni sovranazionali sono state create e da allora sono state mantenute dagli Stati europei, che non intendono però conferire loro ulteriore potere. Ciò appare chiaramente nel fatto che il Consiglio è attualmente l’istituzione più forte e probabilmente la meno trasparente. Aumentare i poteri del Parlamento europeo, o dare al Presidente della Commissione una maggior legittimazione popolare, attraverso la sua elezione diretta, richiederebbero una diminuzione dei poteri del Consiglio,[19] e quindi dei governanti degli Stati. Il complesso sistema di check and balances a livello europeo riduce gli incentivi a procedere in questa direzione, in quanto la ricerca della democrazia si trasformerebbe in un’ennesima battaglia per il potere. Tuttavia l’integrazione “a piccoli passi” incontrerà ostacoli crescenti in relazione al contesto globalizzato in cui si trova l’UE. La capacità dello Stato di temperare la competizione del mercato con la protezione sociale[20] verrà svuotata da una maggior integrazione internazionale e la questione del governo per il popolo potrebbe essere ridotta ad uno slogan elettorale.

In conclusione, le cause del deficit democratico dell’UE stanno nell’impianto istituzionale dell’UE. I funzionari che richiedono “un’unione sempre più stretta” e sostengono che non ci sia alternativa all’integrazione europea hanno continuamente trovato resistenze a governare da Bruxelles nel mondo reale.[21] La crisi esistenziale dell’Europa è interamente istituzionale e la massima parte del dibattito è centrata su un problema che pone ancor maggior pressione sia sugli Stati sia sulle istituzionali sovranazionali: chi assicurerà in futuro il governo per il popolo? Ma ciò che viene trascurato è l’importanza del governo del popolo.

Emilio Massimo Caja


[1] P.A. Hall, Institutions and the Evolution of European Democracy, in J.E.S. Hayward and A. Menon (eds.), Governing Europe, Oxford, Oxford University Press, 2003, p. 1.

[2] A. Lijphart, Patterns of democracy: government forms and performance in thirty- six countries, New Haven – London, Yale University Press, 1999.

[3] C. Crombez, The democratic deficit in the European Union: much ado about nothing?, European Union Politics, 4 n. 1 (2003), p. 103.

[4] G. Mosca, The Ruling Class, New York, McGraw Hill, 1939 . La classe politica, Bari, Laterza, 1994

[5] C. Crombez, op. cit., p. 105.

[6] Ibid., p 104.

[7] L. Hooghe and G. Marks, A Postfunctionalist Theory of European Integration: From Permissive Consensus to Constraining Dissensus, British Journal of Political Science, 39, n. 1 (2008).

[8] P. De Grauwe, Design Failures in the Eurozone: can they be fixed?, London School of Economics Europe in question discussion paper series, 2013.

[9] C. Crombez, op. cit., p. 115.

[10] S. Hix, The Political System of the European Union, London, Macmillan, 1999.

[11] F. W. Scharpf, Governing in Europe: Effective and Democratic?, Oxford, Oxford University Press, 1999.

[12] Ibid.

[13] W. Streeck, From Market-Making to State-Building? Reflections on the Political Economy of European Social Policy, in S. Leibfried and P. Pierson (eds.), European Social Policy: Between Fragmentation and Integration, Washington, Brookings, 1995, pp. 389-431.

[14] Y. Dafermos, Debt cycles, instability and fiscal rules: a Godley-Minsky model, Economics Working Paper Series No. 1509 (2015), University of the West of England.

[15] P.A. Hall, op. cit..

[16] B. Moore, Social origins of dictatorship and democracy: lord and peasant in the making of the modern world, Boston, Beacon Press, 1996.

[17] A. Benassy-Quéré, M. Brunnermeier, H. Enderlein, E. Farhi, M. Fratzscher, C. Fuest, P. Gourinchas, P. Martin, J. Pisani-Ferry, H. Rey, I. Schnabel, N. Véron, B. Weder di Mauro and J. Zettelmeyer, Reconciling risk sharing with market discipline: A constructive approach to euro area reform, Policy Insight n. 91 (2018), CEPR, London.

[18] W. Schäuble, Non-paper for paving the way towards a Stability Union (2017).

[19] C. Crombez, op. cit., p.117.

[20] K. Polanyi, The Great Transformation, Boston, Beacon Press, 1957.

[21] J. Zielonka, Is the EU doomed?, Cambridge, Polity Press, 2014.

 

 

 

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