IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LXIV, 2022, Numero 2-3, Pagina 104

 

 

LA RUSSIA DA GORBAČËV A PUTIN

 

 

Quando nel 1985 Michail Gorbačëv assunse l’incarico di Presidente dell’URSS, il mondo iniziò ad osservare la politica della nuova dirigenza sovietica con grande curiosità ma, nello stesso tempo, con diffidenza. Davvero l’URSS sarebbe cambiata? Davvero iniziava una nuova fase politica che avrebbe posto fine agli anni della Guerra fredda? La svolta che aveva portato Gorbačëv alla guida del partito e del Paese si era resa necessaria a seguito di una profonda crisi che la Russia stava attraversando sia al proprio interno che all’estero. La corsa agli armamenti imposta dalla presidenza USA di Ronald Reagan che era arrivata ad ipotizzare uno scudo spaziale per contrastare una possibile aggressione, stava dissanguando le già esauste finanze russe e il perdurare della occupazione dell’Afghanistan si stava rivelando un disastro sia in campo militare che in quello politico. Le vittime cadute in guerra e l’alto numero di feriti (circa mezzo milione) stava provocando una crisi di credibilità del regime nonché proteste in piazza dei familiari delle vittime. Da qui la svolta epocale di eleggere alla guida del Paese un uomo relativamente giovane per gli standard sovietici.

Gorbačëv iniziò da subito una campagna di rinnovamento che diede vita a quella che è nota come l’epoca della perestrojka (ristrutturazione) e della glasnost (trasparenza). Una epoca in realtà molto breve, durò sei anni, ma sconvolse gli equilibri mondiali e si concluse con lo scioglimento dell’URSS. La sua politica ebbe due effetti tra loro contrastanti: raccolse ampi consensi in campo internazionale, senza però riuscire a eliminare l’ombra del sospetto e della paura nel campo occidentale; all’interno del Paese il rinnovamento auspicato portò alla sua frantumazione senza superare gli endemici problemi legati alla corruzione, ai gravi ritardi in campo economico e industriale che imponevano alla popolazione una generale condizione di povertà. Fu coraggioso nel porre fine alla occupazione dell’Afghanistan nel 1988, interrompendo così le sanzioni che l’Occidente aveva promosso contro l’URSS dall’anno della invasione avvenuta nel 1979. Non intervenne per contrastare le proteste popolari contro i regimi comunisti che si stavano svolgendo in Polonia o in Romania. Di fatto poneva fine alle pressioni sui Paesi vicini ed alleati. Non si oppose alla prima guerra del Golfo voluta dagli USA nel 1991. Si prodigò in una serie di incontri bilaterali con il Presidente USA Reagan (Ginevra, novembre 1985, e Reikiavik, ottobre 1986) e poi con il suo successore Bush (Malta, dicembre 1989), visitò gli Stati Uniti (novembre 1987) con l’obiettivo di sostenere una campagna per la riduzione degli armamenti[1] e per mostrare la volontà di avviare nuove relazioni pacifiche con l’antagonista di un tempo. Numerose furono anche gli incontri con i leaders europei con l’obiettivo di favorire l’avvicinamento della allora Comunità europea alla nuova URSS. Da qui l’idea della Casa comune europea a più riprese proposta sino alla stesura della Carta di Parigi per una nuova Europa nel novembre 1990. Questi sforzi di un avvicinamento con l’Occidente furono vissuti con grande interesse, ma, allo stesso tempo, persisteva un’ombra. Restava cioè il dubbio che l’URSS fosse veramente in grado di porre fine alla contrapposizione politica e militare. Le difficoltà di questo dialogo con le istituzioni e i governi occidentali sono ricordati da uno stretto collaboratore di Gorbačëv e suo consigliere economico Ivan Ivanov[2], che ben descrisse le difficoltà nel dialogare con le istituzioni europee e internazionali nel far comprendere gli sforzi del nuovo corso imposto dalla perestrojka. Questa incomprensione si palesa anche nel fallito tentativo di Gorbačëv di far entrare l’URSS nel FMI nel 1986, per una ostilità politica, giustificata dall’Occidente con motivazioni di natura tecnica.[3] Il paradosso di questo atteggiamento lo si vide nel 1998, quando l’URSS ormai non esisteva già più e la Russia di Eltsin venne accolta nel FMI, con il Paese ormai prossimo al default.
 

La Casa comune europea.

Il mondo occidentale accolse con grande entusiasmo Gorbačëv quando intervenne a Strasburgo nel luglio del 1987 in occasione di una riunione del Consiglio d’Europa che, per l’occasione, vide la partecipazione straordinaria dei parlamentari europei. Nel suo discorso ebbe modo di richiamare un principio importante a proposito del rispetto delle sovranità nazionali più volte violato in passato dall’URSS[4] affermando che: “l’idea dell’unità europea deve essere ripensata collettivamente (…) qualsiasi tentativo di limitare la sovranità degli Stati — sia amici che alleati — è inammissibile”. Si trattava di una nuova dottrina che favoriva l’apertura a compromessi politici e, addirittura, a forme di liberalizzazioni in pieno contrasto con le teorie dell’ortodossia sovietica suggerite sino ad allora da Michail Suslov, sostenitore dell’intervento armato nel caso gli alleati si fossero allontanati dalla guida politica di Mosca. L’intervento di Gorbačëv a Strasburgo fu certamente importante, ma ancora di più fu quello che tenne il 1° agosto, dinanzi al Soviet Supremo. Gorbačëv fu estremamente coraggioso, perché dinanzi all’organo più rappresentativo dell’identità sovietica indicò una svolta e una sfida ai suoi oppositori in seno al Partito. A proposito della politica mondiale disse: “l’inammissibilità e l’assurdità di una soluzione bellica dei problemi e dei conflitti tra Stati; la priorità dei valori universali; la libertà di scelta; la riduzione degli armamenti e il superamento del confronto militare; la necessità della cooperazione economica tra est ed ovest e la internazionalizzazione degli sforzi nel campo della ecologia; la correlazione tra politica ed etica (…). Ogni popolo decide autonomamente le sorti del proprio Paese e sceglie il sistema e il regime che preferisce e nessuno può, con qualsiasi pretesto, intromettersi dall’esterno e imporre le proprie concezioni a un altro Paese”.[5]

Si trattava di aperture che i suoi oppositori gli rimproverarono, perché così agendo erano convinti che avrebbe portato l’URSS alla dissoluzione: fare concessioni agli Alleati, aprire al dialogo con gli USA e con l’Occidente, favorire forme di liberalizzazione, porre fine al centralismo di Mosca, significava aprire una crisi di regime.[6] In base a queste nuove scelte l’URSS non intervenne per reprimere le proteste anticomuniste nei diversi Paesi membri del Patto di Varsavia sino ad arrivare ad accettare l’abbattimento del Muro di Berlino nel novembre 1989 avviando così la riunificazione tedesca. Scelte che valsero a Gorbačëv il premio Nobel per la Pace nel 1990; quello fu il momento più alto della perestrojka, ma anche l’inizio della parabola discendente. Il riformismo di Gorbačëv non piacque né ai conservatori del partito, né ai progressisti radicali, il suo principio di una riforma senza distruzione dell’apparato si scontrò con la dura realtà. Lo sforzo riformista che tanto successo stava riscuotendo all’estero, non trovò un valido appoggio da parte del mondo Occidentale che non gli garantì un sostegno politico, economico e finanziario nel suo Paese ma, anzi, assistette con una forma di compiacimento allo sgretolamento dell’URSS senza valutarne le possibili conseguenze. Quando, nel maggio del 1990, Eltsin fu eletto Presidente del Soviet Supremo della Repubblica Russa, nel suo intervento invocò la piena sovranità della Repubblica Russa rispetto alle altre 14 Repubbliche che, insieme, costituivano l’URSS. Era la stessa costituzione sovietica a consentirlo. La Costituzione dichiarava le repubbliche sovietiche Stati sovrani con il diritto di separarsi dall’Unione anche se, di fatto, sino ad allora era stato esercitato un potere fortemente centralizzato da parte di Mosca. La perestrojka, come ha lasciato scritto lo stesso Gorbačëv, puntava a rendere autonome le singole repubbliche dando vita così ad una vera federazione.[7] Eltsin nello stesso tempo, si dimise dal PCUS dichiarando: “Il vecchio sistema è crollato prima che il nuovo cominciasse a funzionare e la crisi sociale si è fatta ancor più acuta. Ma cambiamenti radicali in un Paese così vasto non possono passare in modo indolore, senza difficoltà e sconvolgimenti”. La sfida a Gorbačëv il cui motto era “riforma senza distruzione” era così lanciata e divenne ancor più evidente dopo il golpe dell’agosto 1991 quando un gruppo di militari nostalgici lo rapì.[8] Il golpe fallì miseramente con Eltsin che mobilitò le piazze ottenendo la liberazione di Gorbačëv che da quel momento venne emarginato. Il successo di Eltsin contro il golpe raccolse il pieno sostegno dei leaders occidentali, Gorbačëv rappresentava ormai il passato.
  

Così poca la strada percorsa, così tanti gli errori commessi.[9] 

L’ascesa di Eltsin segna una svolta che porterà a mutare non solo il volto della Russia. Nel corso del 1991, in pochi mesi, l’URSS si dissolse e 14 repubbliche proclamarono la propria indipendenza e sovranità prendendo come esempio quanto dichiarato da Eltsin nella Repubblica Russa. Nello stesso tempo Eltsin annunciò lo scioglimento del Patto di Varsavia che legava all’URSS i paesi dell’est europeo che erano stati liberati dall’Armata Rossa nel corso della Seconda guerra mondiale. Questi atti segnarono la caduta dei regimi comunisti in quegli stessi paesi. L’atto conclusivo che sancì la fine dell’URSS avvenne la notte del 25 dicembre quando Gorbačëv rassegnerò le proprie dimissioni con il passaggio dei poteri a Eltsin. In diretta tv fu ammainata dal Cremlino la bandiera rossa con la falce e il martello e venne issata la bandiera a strisce bianco blu e rossa di epoca zarista. Si apriva in Russia un periodo di torbidi politici e di abbandono della politica estera a causa dei conflitti interni che imposero una chiusura su se stessa sia della Russia sia delle nuove repubbliche alle prese con la stesura di nuove costituzioni, con la definizione dei confini, con la ripartizione del Tesoro della Banca centrale e quella ancor più drammatica della ripartizione degli armamenti, tra cui quelli nucleari. Occorsero lunghi anni per disegnare il nuovo volto della Russia che, con Eltsin, si aprì al libero mercato pur essendone totalmente impreparata dopo oltre settanta anni di economia controllata dallo Stato.

La dissoluzione dell’impero sovietico ruppe i fragili equilibri a livello mondiale lasciando gli USA come unica superpotenza che, da quel momento, intervenne in numerosi focolai di guerra e tensione cercando di svolgere il ruolo di poliziotto dell’ordine internazionale, spesso senza riuscirvi. In quegli stessi anni si ebbero due altri importanti avvenimenti: l’ascesa della Cina come potenza economica, che presto avrebbe svolto anche una leadership politica, e il passaggio della Comunità europa ad Unione con il Trattato di Maastrich. È importante il richiamo a Maastricht, perché per l’Europa si trattò di un passaggio epocale. Tuttavia, il Trattato ebbe un senso di incompiutezza, come le relazioni con la Russia dimostrarono, portando a conseguenze che ancora oggi viviamo: la mancata assegnazione all’Unione di competenze in campo di politica estera, di difesa e di politica industriale. Mentre la Russia viveva una profonda crisi istituzionale e politica nel passare dalla economia di Stato a quella di libero mercato, l’Unione Europea non svolse e non propose una politica economica e finanziaria comune che sarebbero state invece indispensabili per sostenere la nuova Russia. Le iniziative intraprese furono di fatto lasciate ai singoli Stati membri dell’Unione e tra questi la Germania svolse il ruolo principale. La UE, nel frattempo, dimostrò la propria inconsistenza nel corso della drammatica crisi in Jugoslavia la cui dissoluzione nel 1991 fu un’altra delle conseguenze del crollo dell’URSS. Lo stesso accadde quando la UE pretese di svolgere un ruolo nella crisi in Libia. Anche in questo caso, come già in Jugoslavia, fu necessario richiedere l’intervento degli USA, ma senza conseguire un successo, e la questione libica resta tuttora aperta. Di fatto la UE si affidò agli USA nella gestione delle crisi internazionali (per es. in Iraq o in Afghanistan) e assecondò, anzi favorì, l’allargamento ad est, prima alla Nato (la Polonia fu la prima) e poi alla stessa UE, dei Paesi un tempo satelliti dell’URSS.[10] L’allargamento ad est sia della UE che della Nato senza un coinvolgimento e una condivisione con la Russia hanno generato una serie di incomprensioni che hanno favorito, nel tempo, un avvicinamento sempre più stretto di Mosca con Pechino e il rafforzamento, nell’ala nazionalista e oltranzista presente in Russia, di una sindrome da accerchiamento da parte dell’Occidente. Lo stesso Gorbačëv, pur critico nei confronti delle leaderships che l’hanno seguito, ha avuto modo di contestare pesantemente gli USA perché “sono convinti che solo il dominio e un approccio unilaterale possono garantire un ruolo guida nella politica mondiale”.[11] Mentre negli Stati Uniti la fragilità della Russia degli anni Novanta veniva vista come un successo della propria politica e la UE mostrava la propria debolezza assecondando le scelte statunitensi, il primo paese che dimostrò una apertura politica verso Mosca fu il governo di Pechino: le rivalità di un tempo su chi tra Russia e Cina fosse legittimato a sostenere nel mondo il ruolo di guida del comunismo era oramai un ricordo del passato. La Cina si avvicinò alla Russia non certo in modo disinteressato, approfittando della inconsistenza della UE e della volontà degli USA di mantenere il più a lungo possibile quel gigante ed antico avversario in una condizione di debolezza. Fu così che nel 1996 Pechino promosse una Organizzazione per la Cooperazione (detta di Shangai o SCO) con l’obiettivo di coinvolgere la Russia e alcune repubbliche asiatiche dell’ex-URSS. L’Organizzazione doveva favorire la cooperazione in campo economico e militare per contrastare il separatismo e il terrorismo di quegli anni in Asia centrale. Quello fu il primo atto di un avvicinamento che successivamente andò rafforzando le relazioni in campo economico e militare tra Pechino e Mosca. L’iniziativa cinese aveva un chiaro scopo: favorire un proprio ruolo in Asia a discapito degli USA e di una Russia indebolita. Inoltre, aveva l’obiettivo di garantire l’unità territoriale ai propri confini per evitare il sorgere di spinte separatiste a carattere politico, etnico e religioso dopo quanto stava accadendo nella regione caucasica con la guerra in Cecenia.[12]

La guerra in Cecenia e la disastrosa situazione finanziaria in cui si dibatteva la Russia, incapace di gestire la transizione verso una economia di libero mercato, portarono la Banca centrale a dichiararne il default nell’agosto del 1998, con la popolazione che era ritornata al baratto poiché il rublo aveva perso qualsiasi valore e i prezzi cambiavano nel giro di poche ore: era lo spettro di una nuova Weimar. A quel punto, con Eltsin gravemente malato, le redini del governo, l’anno successivo, vennero affidate al suo delfino: Vladimir Putin. Quello stesso anno la Russia entrò a pieno titolo nel FMI. Gli USA e la UE avevano assistito sino all’ultimo senza intervenire al tracollo russo, una cosa che non sarebbe stata dimenticata.
  

Io non dimentico. 

Le vicende che hanno visto la dissoluzione dell’URSS portano Putin a ripetere spesso nei suoi interventi pubblici che non può dimenticare l’atteggiamento oltraggioso e provocatorio che, ai suoi occhi, l’Occidente aveva tenuto negli ultimi anni.[13] Tuttavia, inizialmente i suoi mandati furono concentrati nel ristabilire l’ordine interno, agendo da subito con durezza verso i possibili oppositori. Riprese la guerra in Cecenia ponendovi fine, in modo sanguinoso, nel 2009, rafforzando, con la sua azione, l’immagine dell’uomo forte, ma solo dopo numerosi attentati che avevano sconvolto l’opinione pubblica russa.[14] Crebbe intorno a lui la cerchia dei cosiddetti oligarchi che altri non erano se non gli ex-funzionari che, per conto del Partito, avevano controllato le aziende di Stato. Una volta crollata l’URSS questi ex-funzionari si ritrovarono ad essere i diretti responsabili delle diverse industrie. Fu così che in pochi mesi uomini senza alcuna particolare dote o capacità manageriale ne assunsero il controllo; il loro unico merito era stato quello di essere stati uomini dell’apparato. La fedeltà al nuovo Presidente li favorì nell’accumulare enormi ricchezze, anche perché chi non sosteneva il nuovo regime che andava consolidandosi rischiava la vita o la prigione – una situazione che tuttora perdura.

Se il primo obiettivo di Putin fu ristabilire l’ordine interno e avviare nuove relazioni con le ex-repubbliche ora divenute nazioni indipendenti, il secondo puntava a far rientrare la Russia nell’agone internazionale. Era questione di tempo, ma le intenzioni erano già ben chiare quando svolse il suo intervento alla Conferenza sulla Sicurezza a Monaco nel febbraio 2007. In quella occasione dichiarò: “Il mondo cambia e noi non possiamo agire in base a schemi che si formarono dopo la Seconda Guerra Mondiale.[15] Perfino con gli alleati non si può più parlare come in passato. Nuovi pericoli si manifestano, nuovi centri di forza si delineano e tutto ciò deve essere messo nel conto, perché può accadere che qualcuno ne resti scottato. E noi dobbiamo creare una situazione più sicura, perché se non lo faremo sorgeranno continuamente conflitti”.[16] Parole forti, pronunciate quando la Russia stava ancora conducendo la guerra in Cecenia, ma che preannunciavano la volontà di tornare a svolgere un ruolo di superpotenza. Nello stesso intervento ebbe parole sferzanti verso i Ministri degli Esteri europei presenti, accusandoli, senza giri di parole, di sudditanza alle decisioni della Nato e degli Stati Uniti.

Gli anni che vanno dal 1985 sino agli inizi del nuovo millennio possono pertanto essere ricordati come anni sprecati dagli europei nel non svolgere un’azione politica e industriale comune verso un orso ferito che pure aveva un disperato bisogno di aiuto e che certamente sarebbe tornato ad esercitare presto un ruolo in campo internazionale, inevitabile per un paese di dimensioni continentali, con enormi ricchezze naturali e con una popolazione di quasi 150 milioni di abitanti.[17] Il rientro a pieno titolo della Russia nella politica internazionale avvenne con la crisi ucraina sul finire del 2013 quando il governo di Kiev guidato dal Presidente Janukovyc non firmò l’associazione con la UE, ma preferì sottoscrivere un accordo economico proposto da Putin che prevedeva aiuti finanziari per $ 300 mld. Si trattava di un aiuto non previsto dalla UE anche se era noto che nella primavera del 2014 era in scadenza un rimborso al FMI che la Banca centrale ucraina non era in grado di soddisfare, il che avrebbe causato il default del paese. Gli avvenimenti che da quel momento si succedettero in Ucraina sono noti. Il governo in carica dovette fuggire sotto la pressione delle proteste popolari che in maggioranza chiedevano l’avvio dell’associazione alla UE e accusavano il governo di essersi venduto alla Russia. Nel corso delle manifestazioni vi furono molteplici scontri e attentati che causarono numerose vittime, mentre parte della regione del Donbass, con il sostegno russo, proclamava la propria indipendenza da Kiev con la creazione delle Repubbliche Popolari di Lugansk e Donetsk. Putin cavalcò questa crisi accusando l’Occidente di aver fomentato la caduta del governo e garantì aiuti finanziari e militari ai secessionisti del Donbass, per altro la regione più ricca del paese. Forte della posizione acquisita, sostenne nel 2014 il referendum secessionista in Crimea che rientrò così nell’ambito della Federazione Russa. Da quel momento ebbe inizio una guerra silente tra il nuovo governo di Kiev, in generale filoccidentale, e la regione secessionista filorussa. L’Occidente avviò come risposta le prime sanzioni contro la Russia. La situazione nella regione è poi precipitata nel febbraio 2022 con l’inizio della cosiddetta “operazione speciale” voluta da Putin con l’obiettivo di impedire in ogni modo sia l’adesione dell’Ucraina alla UE, sia l’adesione alla NATO, che per altro stava valutando le ipotesi di adesione della Georgia e della Moldavia, entrambe nazioni che un tempo facevano parte dell’URSS.

La guerra in Ucraina si presta a numerose considerazioni che andrebbero approfondite, perché lo scontro in atto cambia gli equilibri mondiali. Non è più solo la rivendicazione della Russia di svolgere un ruolo negli equilibri mondiali o la difesa della propria sovranità da parte della Ucraina, è molto di più. Si mostra ancora una volta che non esistono periferie nella politica mondiale e che l’Europa è diventata un focolaio di crisi per la politica mondiale come anticipava nel 2019 Gorbačëv che si poneva la domanda: come è potuto accadere? [18] La sua risposta è che i fatti che hanno sconvolto l’Ucraina sono da ricondurre alle scelte compiute dagli europei nel corso degli anni Novanta. Come si è cercato di sottolineare, l’allargamento ad est della UE e della NATO hanno sì rafforzato l’Occidente ed indebolito la Russia, ma purtroppo non si è attivata allo stesso tempo alcuna politica che desse garanzie, ma soprattutto aiuti tangibili a Mosca. Se da una parte era ed è comprensibile l’atteggiamento degli USA che puntavano e puntano a indebolire sempre e comunque la Russia, dall’altra parte la UE non ha svolto alcun ruolo di mediazione quando invece gli spazi per agire sarebbero e sono più che mai necessari, sia in campo politico che economico. Per poter agire occorre però disporre della autorità politica che dia gli indirizzi. Non è casuale il fatto che la guerra in corso in Ucraina mostri in modo inequivocabile i ritardi che la UE ha accumulato sino ad oggi. Non disponendo di un governo, dinanzi ad una guerra alle proprie porte ha scoperto la propria impotenza in settori strategici quali la politica estera e di difesa, la politica energetica ed industriale. La UE è fragile e per molti aspetti impotente, ma la guerra sta mostrando un’altra fragilità ed è quella che riguarda la Russia di Putin nonostante i roboanti proclami bellici. La guerra sta mostrando come anche una possente armata mal guidata e con minori capacità tecnologiche rispetto agli armamenti occidentali garantiti all’esercito ucraino, possa far crollare in poche settimane la credibilità di una superpotenza. Una superpotenza certamente in termini di quantità per numero di uomini e mezzi, ma debole sul fronte dell’intelligence e delle nuove tecnologie. Senza entrare sull’andamento bellico e nella doverosa condanna alla aggressione voluta da Putin, è evidente che aver cambiato in pochi mesi sei comandanti in capo dell’esercito e aver fatto ricorso all’arruolamento forzato di oltre 300.000 giovani mostrano le difficoltà di una guerra che, nelle intenzioni, doveva essere rapida come una blitzkrieg. Non è questa la sede per valutare sul piano militare il corso della guerra, anche perché gli scenari rischiano di mutare rapidamente qualora il conflitto si allargasse alla Bielorussia o la situazione politica interna in Russia o in Ucraina dovesse in qualche modo precipitare. Nel contesto generale vi è una sola certezza, ed è che la guerra è destinata a concludersi anche se è impossibile dire in quali termini e in quanto tempo. Ed è in quel momento che si dovrà procedere ad una nuova fase in cui la UE dovrà contribuire per garantire all’Ucraina un aiuto materiale per le distruzioni subite, mentre con la Russia si dovrà avviare una nuova collaborazione politica. La Russia è parte integrante della storia europea ed è impensabile poterla isolare per sempre. La UE ha bisogno della Russia non solo per le sue ingenti ricchezze naturali, ma anche la Russia ha bisogno della UE, perché non può permettersi di cedere alle lusinghe cinesi per un lungo periodo di tempo e perché il cuore pulsante della Russia è in Europa e non in Asia.
  

Ci abbiamo provato.[19] 

Abbiamo richiamato gli errori commessi dal mondo occidentale e in particolare dagli europei negli anni sul finire del secolo scorso, per limiti politici e incapacità di agire. Il punto è ora di evitare il ripetersi di quegli stessi errori e per fare questo è necessario che la UE intervenga là dove la Russia è più fragile e bisognosa. L’economia di mercato, la politica industriale, il settore agricolo e la qualità media della vita in Russia sono gli indicatori della fragilità del paese. Nonostante gli sforzi compiuti dagli anni Novanta con l’apertura al libero mercato, la Russia non è un paese leader nell’economia industriale. Nel settore dell’industria manifatturiera dipende in gran parte dell’import che nel corso della guerra e in base alle previsioni è destinato a crollare per tutto il 2023, impoverendo il paese.[20] A indicare il livello di povertà è stato lo stesso ex-primo ministro Medvedev che, nel 2019 dichiarò che 19 milioni di russi (il 14% della popolazione) vivono al di sotto della soglia della povertà.[21] È nota l’importanza del settore energetico ed estrattivo in Russia: è la prima voce dell’export. La seconda voce è rappresentata dal settore agricolo in cui sono impegnati 14 ml di addetti, ma che interessa circa 60 ml di cittadini che vivono in aree rurali che non dispongono di strade asfaltate. Il 45% non dispone di acqua potabile e il 5% non ha accesso alla rete fognaria. Si tratta di dati oggi uguali a quelli del 1990.[22] La resa per ettaro dei campi agricoli è inferiore del 10% rispetto a quelli della UE, un segnale del ritardo nell’adottare le nuove scoperte scientifiche ad un settore vitale non solo per la Russia. Inoltre, la qualità della vita del cittadino russo, dai tempi dell’URSS ad oggi, è certamente migliorata, ma non è migliorata in termini di una maggiore tutela della salute. La vita media di un uomo in Russia è infatti di 66 anni: più è alta l’aspettativa di vita più è alto il livello di sviluppo di una nazione. La vita media nella UE è di 20 anni superiore. Quando nel 2018 la Duma propose una revisione del sistema pensionistico fermo ai tempi dell’URSS (con la possibilità di andare in pensione a 55 anni) per portare l’età pensionabile a 66 anni, vi furono violente proteste di piazza e Putin fece ritirare la proposta di legge.

Oltre agli aspetti economici che impattano su quelli sociali, la Russia dovrà ritrovare un ruolo anche tra i Paesi vicini, un tempo parte integrante del suo territorio. La guerra e il suo andamento hanno indebolito la solidarietà, a volte imposta, da parte delle Repubbliche asiatiche con cui la Russia intrattiene rapporti economici e militari privilegiati. Queste Repubbliche, nel corso delle prime votazioni all’ONU di condanna dell’aggressione all’Ucraina, si erano astenute o non avevano partecipato al voto,[23] mostrando solidarietà a Putin. Nel corso della riunione della Russia con le Repubbliche asiatiche svoltasi ad Astana nell’ottobre 2022, alcuni Presidenti invece hanno preso le distanze. Il Presidente del Tagikistan ha chiesto espressamente a Putin di “portare rispetto” verso le ex-Repubbliche dell’URSS e i Presidenti di Uzbekistan e Kazakistan si sono dichiarati preoccupati per la comparsa di una nuova cortina di ferro a seguito della guerra, chiedendo il rispetto della integrità territoriale ucraina.[24] Queste prese di posizione, impensabili sino a pochi mesi prima, sono un segnale delle difficoltà che Putin subisce: da una parte le pressioni dell’ala più oltranzista, dall’altra quella favorevole ad un compromesso[25] e in più la pressione dei Paesi asiatici che mostrano segnali di distanza da Mosca in un momento di debolezza. Senza dimenticare che anche Cina e India spingono per una fine della guerra. In un contesto così complesso il ruolo che la UE potrebbe svolgere è enorme. Mettere a disposizione, con accordi specifici, le capacità industriali europee e il know-how tecnologico nei settori agricoli e manifatturieri rappresenterebbero una svolta epocale nei rapporti con la Russia. È però chiaro che occorrono due condizioni. In primis in Russia Putin o il suo successore dovranno mostrare la disponibilità a riaprire un dialogo con i paesi europei, dall’altro la UE dovrà avviare le riforme necessarie perché possa interloquire con una sola voce: senza una politica estera e industriale comune andrebbe incontro di nuovo ai vecchi problemi. Si tratterà comunque di un processo lungo, perché la guerra trascinerà per anni rancori e diffidenze. Come europei il compito in questo arco temporale è quello di avviare nella UE le riforme per disporre di quella autorità politica che oggi manca e che ha favorito gli errori del passato. Per lungo tempo gli europei hanno preferito demandare agli USA scelte strategiche fondamentali di cui oggi, in gran parte, paghiamo le conseguenze. Qualora la ragionevolezza non dovesse tornare nella leadership russa perché continueranno a prevalere i falchi, a maggior ragione si porrebbe il problema di rafforzare il governo dell’Unione. È tempo di scelte radicali per poter almeno dire al mondo “ci abbiamo provato”. Questo in fondo era ed è l’obiettivo indicato dai cittadini che hanno partecipato alla Conferenza sul futuro dell’Europa. 

Stefano Spoltore


[1] START 1, Strategic Arms Reduction Treaty, e Trattato INF, Intermediate Range Nuclear Forces Treaty.

[2] I. Ivanov, Perestrojka e mercato globale, Milano, IPSOA Scuola d'impresa, 1989, pp. 33-76.

[3] M. Ruffolo, L’URSS vuole entrare nel FMI, La Repubblica, 17 agosto 1986.

[4] Si pensi agli interventi sovietici in Ungheria (1956) o in Cecoslovacchia (1968) e a quello in Afghanistan (1979).

[5] M. Gorbačëv, La Casa Comune Europea, Milano, Mondadori, 1989, pag. 193.

[6] C. De Carlo, Le riforme in un regime sono i primi sintomi di un imminente crollo, QN, 6 dicembre 2022.

[7] M. Gorbačëv, La posta in gioco, manifesto per la pace e la libertà, Milano, Baldini + Castoldi, 2020, p. 143. Un segno delle difficoltà di Gorbačëv in patria ancora in anni recenti, è dato dal fatto che questo libro non è stato pubblicato in Russia, bensì in lingua tedesca in Germania nel 2019 con il titolo Was jetzt auf dem Spiel steht.

[8] È opportuno ricordare come uno dei golpisti, all’epoca maggiore dell’esercito, non subì alcuna conseguenza per la sua insubordinazione. Proseguì nella carriera militare e Putin, nell’estate del 2022, lo ha nominato Comandante in Capo dell’esercito russo nella cosiddetta operazione speciale contro l’Ucraina: il generale Surovikin.

[9] S.A. Esenin, poeta russo, citato in V.Salamov, I racconti della Kolyma, Milano, Adelphi, 2009, p. 19. L’opera di Salamov descrive la sua esperienza negli anni Cinquanta nei gulag e anticipa di pochi anni il più noto Arcipelago Gulag di A. Solženicyn.

[10] L’allargamento ad est della Nato ebbe inizio nel 1999, mentre nel 2004 fecero il loro ingresso tutti i paesi un tempo membri del Patto di Varsavia. Nella UE l’allargamento ai paesi dell’est ebbe inizio nel 2004 e nel 2007 tutti i paesi un tempo satelliti dell’URSS divennero membri effettivi. L’allargamento ad est favorì senza dubbio il consolidamento delle democrazie in quei paesi.

[11] M. Gorbačëv, La posta in gioco ..., op. cit., p. 102.

[12] Si veda S. Spoltore, Russia e Cina per un nuovo ordine mondiale, Il Federalista, 63, n. 2-3 (2021), p. 117.

[13] A titolo di esempio: Askanews, Putin: io non dimentico, 3 dicembre 2015. Più recentemente: Lettera di Putin ai russi, intopic.it, 19 giugno 2020.

[14] Il caso più clamoroso fu l’azione ordinata per stroncare l’assedio di un commando ceceno al Teatro di Dubrovka (26 ottobre 2002) dove fu condotta una operazione che portò alla eliminazione del commando composto da 39 elementi, ma vide anche la morte di 129 ostaggi uccisi nello scontro dai reparti speciali inviati da Mosca per ordine di Putin.

[15] Usò proprio questo termine quando in Russia la Seconda guerra mondiale viene ricordata come Guerra patriottica.

[16] https://www.resistenze.org/sito/os/mo/osmo7b13-001073.htm. Al link indicato il testo integrale.

[17] Si veda: F.Rossolillo, L’Ucraina e l’equilibrio mondiale, Il Federalista, 57 n.1 (2005), p. 31.

[18] M. Gorbačëv, La posta in gioco ..., op. cit., p. 108.

[19] La risposta di Gorbačëv alla domanda del regista Herzog che gli chiedeva quale epigrafe avrebbe voluto sulla sua tomba. Documentario intervista del dicembre 2019.

[20] Le previsioni del Consiglio europeo indicano nel 2021 un import di € 248mld, che nel 2022 scendono a € 133 per crollare nel 2023 a € 94.

[21] M. Gorbačëv, La posta in gioco ..., op. cit., p. 153.

[22] F.Scaglione, Agricoltura russa, dall’izba alla holding. Lettera da Mosca, 5 dicembre 2020.

[23] Kazakistan, Tagikistan si erano astenuti mentre Uzbekistan e Turkmenistan non avevano partecipato alla votazione.

[24] Si vedano D. Cancarini, Ora che l’Asia Centrale sfida la Russia, Il Fatto, 22 ottobre 2022; D. Cancarini, Guerra Russia Ucraina dipendenza da Mosca, Il Fatto, 13 aprile 2022.

[25] G. Savino, Cosa sta succedendo dentro il sistema di potere di Putin, www.valigiablu.it, 17 dicembre 2022.

 

 

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