IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXXIV, 1992, Numero 1 - Pagina 59

 

 

LA COMUNITA’ MONDIALE DOPO IL CROLLO DELL’URSS

 

 

1. Nel quadro delle relazioni internazionali si stanno contemporaneamente manifestando tendenze opposte: spinte alla coesione e movimenti verso la disgregazione dei legami tra Stati e comunità.

Gli eventi degli ultimi mesi hanno mostrato, da un lato, una tendenza al rafforzamento delle organizzazioni internazionali, sia per quel che riguarda le istituzioni mondiali (l’ONU), sia per quel che concerne alcune istituzioni regionali (nell’area europea o atlantica non solamente la CEE, ma anche la NATO e la CSCE). Gli eventi più recenti testimoniano, dall’altro lato, l’accelerarsi del processo di disgregazione di alcune unità politiche nell’ex Europa comunista.

Segnali di coesione provengono dal Palazzo di Vetro dell’ONU, dove il segretariato generale si avvia a conquistare un ruolo importante – e comunque più importante che in passato – per la risoluzione delle tensioni fra Stati; da Washington, dove un elevato numero di Stati ha assunto, in un quadro di azioni multilaterali, impegni a sostegno dell’economia della Russia e delle altre Repubbliche ex sovietiche; da Bruxelles, dove la NATO si è dotata di un nuovo organo, il Consiglio di cooperazione, aperto agli ex nemici dell’Europa centro-orientale; da Praga, dove gli Stati della CSCE hanno stabilito l’importante principio dell’«unanimità meno uno» come regola per l’assunzione di decisioni, compiendo il primo passo per superare il «diritto di non interferenza» e per limitare il «potere di veto» dei paesi appartenenti alla CSCE; ed infine da Maastricht, dove la Comunità europea ha compiuto progressi decisivi verso l’unità politica, con la doppia decisione di creare una moneta unica ed un quadro comune per le politiche estere.

Ma soprattutto sul versante della disgregazione si sono susseguiti avvenimenti che non sarà facile dimenticare. L’Unione Sovietica è stata sciolta come soggetto giuridico internazionale e sono comparsi al suo posto – dietro la facciata di un Commonwealth finora privo di personalità giuridica internazionale – nuovi Stati sovrani. Anche la seconda federazione dell’Europa orientale, la Jugoslavia, non è sopravvissuta agli eventi più recenti: la crisi istituzionale fra le Repubbliche, la secessione slovena e croata, la guerra civile tra Belgrado e le Repubbliche secessioniste, la proclamazione dell’indipendenza da parte di Bosnia-Erzegovina e Macedonia. Persino l’unità della Cecoslovacchia, la terza federazione dell’Europa centro-orientale, vacilla: i rapporti fra Praga e Bratislava sono caratterizzati da un elevato livello di conflittualità istituzionale, anche se non si è ancora giunti – e forse non si giungerà – alla separazione.

E’ opportuno chiedersi se questi fatti – espressioni di tendenze politiche fra loro evidentemente contrastanti – non abbiano forse anche alcune radici comuni, la cui identificazione possa consentire una lettura più unitaria e coerente di quello che sta accadendo nel mondo.

 

2. Il contemporaneo affermarsi dell’integrazione e della disgregazione come tendenze fondamentali degli avvenimenti internazionali segna l’inizio di una nuova, più complessa, fase della storia mondiale. Si potrebbe forse azzardare l’ipotesi che i nuovi eventi segnino il vero inizio della fase sovrannazionale della storia. Fino ad oggi l’esigenza di un governo mondiale discendeva da inquietudini o da pericoli tutto sommato ancora remoti. Oggi quell’esigenza riceve una conferma definitiva dalla storia. Con la caduta dell’URSS e la fine del bipolarismo ha visto definitivamente la luce una nuova fase, in cui tutti i problemi sono globali, ma mancano ancora gli strumenti per risolverli. Il nucleo di «governo mondiale», rappresentato dalla cogestione dei problemi e delle crisi da parte di Americani e Sovietici – l’esperimento tentato da Gorbaciov con Reagan e Bush – si è sgretolato. La battaglia per il rafforzamento dell’ONU diventa estremamente attuale. Al suo esito è legato in gran parte il futuro degli eventi nei prossimi anni: la crescita civile o la disgregazione dell’umanità.

Con la fine del bipolarismo il controllo degli eventi planetari è ormai possibile solamente con un deciso rafforzamento degli enti sovrannazionali mondiali, in particolare dell’ONU. I rischi che derivano dalla fine dell’URSS sono almeno altrettanto grandi dei possibili vantaggi che discendono dal tramonto del comunismo come sistema di potere totalitario e dalla fine della lotta di classe internazionale come linea di politica estera degli Stati comunisti. Potremmo assistere nei prossimi mesi a fenomeni di proliferazione nucleare, all’esportazione verso i regimi più irresponsabili di armi e tecnologie militari pericolosissime, a guerre locali e ad altre manifestazioni di instabilità in Europa ed in Asia. La cronaca è già ricca di questi fatti. Lo sfaldamento dell’URSS ed il crollo del comunismo eserciteranno inoltre senz’altro un’influenza rilevante sul conflitto Nord-Sud. Nessuno può però sapere se nel mondo in via di sviluppo i regimi socialisti verranno sostituiti da sistemi democratici e pluralisti – come è nell’auspicio di tutti – oppure da sistemi politici di altro tipo, impregnati di forti elementi di intolleranza ed aggressività etnica e religiosa. Se un giorno il problema degli squilibri economici mondiali esplodesse in rivendicazioni violente, avremmo la guerra civile mondiale.

 

3. Che cosa ha causato lo scioglimento dell’URSS e che cosa ha sconvolto la geografia dell’Europa dell’Est? Per quali ragioni – occorre inoltre chiedersi – fra le nuove leve di politici ed intellettuali filo-democratici in Europa dell’Est non ha avuto presa la logica economica ampiamente diffusa in Occidente, secondo cui un ampliamento, o almeno la conservazione, delle dimensioni delle aree integrate è il presupposto della crescita economica? Perché nell’ex URSS e nell’intero blocco socialista si sono invece imposte forze politiche e scuole di pensiero che ritengono che il miglioramento dell’economia sia legato alla disgregazione delle aree già unite?

La risposta è solo in parte legata a schemi di contrapposizione tra comunismo internazionalista e nazionalismo democratico di tipo ottocentesco. In realtà qualcosa di più complesso è successo. Per comprendere di che cosa si tratti occorre confrontare l’esperienza della ricostruzione europea occidentale negli anni Cinquanta con gli eventi di questi mesi.

Nei primi decenni del dopoguerra gli Stati nazionali dell’Europa occidentale, distrutti dalla guerra, dovettero iniziare un processo di integrazione reciproca per poter avviare la ricostruzione economica. Tale scelta di integrazione fu anche il frutto di una costrizione economica: gli Stati nazionali europei non potevano infatti avere accesso diretto al mercato mondiale. Pensiamo ad esempio ad un piccolo Stato europeo, come l’Olanda o il Belgio: senza poter disporre dei vicini mercati francesi e tedeschi, quegli Stati non avrebbero avuto futuro, perché in quegli anni nessuna delle loro imprese avrebbe potuto rivolgersi facilmente, per finanziarsi o per distribuire i prodotti, ai lontani mercati americani e, men che meno, al Giappone, alle «tigri asiatiche» o agli altri mercati extraeuropei oggi emergenti. La stessa costrizione valeva anche per gli Stati europei maggiori – Francia, Germania ed Italia – e, come la storia ha dimostrato, anche per l’Inghilterra, che pur disponeva di un Commonwealth con cui commerciare. Negli anni Quaranta e Cinquanta mancava un vero mercato mondiale, le economie internazionali non erano così integrate come oggi e solo gli Stati che – associandosi ai paesi vicini – potevano crearsi un «mercato interno» di dimensioni continentali erano in grado di assicurarsi un futuro di prosperità.

Alla fine degli anni Ottanta il mondo presentava, agli occhi degli Europei dell’Est che sognavano l’uscita dal socialismo reale, caratteristiche per alcuni aspetti diverse.

Il processo di deregolamentazione lanciato dalla signora Thatcher e dal Presidente Reagan – che ancora oggi hanno ad Est i più fedeli ammiratori – ha aperto i mercati finanziari e delle merci alle imprese di tutto il mondo. L’avvio della creazione di un mercato unico europeo non ha fatto che confermare la tendenza alla creazione di un mercato mondiale. Negli anni Ottanta si è infatti creato un mercato mondiale integrato dei capitali, che ha consentito fra l’altro agli Stati Uniti di finanziare all’estero la propria crescita interna. Gli stessi Stati Uniti, a loro volta, si sono di fatto trasformati in una parte importante del «mercato domestico» del Giappone e dell’Asia industrializzata, consentendo a questi paesi di raggiungere ritmi di crescita davvero elevati.

Il mutamento di atteggiamento della maggior parte dei paesi nei confronti di fenomeni di globalizzazione dell’economia è davvero rilevante. Le multinazionali – un tempo demonizzate – vengono corteggiate dagli Stati come veicolo di investimenti diretti e, di conseguenza, come elemento di progresso. Le grandi aree economiche internazionali si contendono – a colpi di agevolazioni e di esenzioni fiscali – i capitali internazionali. Il mercato finanziario integrato delle piazze finanziarie americane, asiatiche ed europee offre alle grandi imprese la possibilità di approvvigionarsi di mezzi finanziari e di fornire alla clientela mondiale servizi anche in aree economiche molto distanti da quelle originarie di espansione.

Non è più la dimensione delle aree economiche interne in sé, ma il grado di apertura delle singole economie al mercato mondiale che determina, negli anni Ottanta, il grado di benessere. Si osservino i casi più gravi di crisi economica nel corso del decennio: il Messico, il Brasile, l’Argentina, la Nigeria e la stessa URSS. In tutti i casi si tratta di paesi di grandi risorse e dimensioni, ma con economie chiuse: la vastità del loro territorio non ha impedito loro di scivolare lungo la china della decadenza economica. Sono invece le piccole economie industriali – costrette ad aprire all’economia mondiale e a cercare nicchie di mercato – a rappresentare gli unici casi di uscita dal sottosviluppo: Taiwan, Singapore, Hong Kong, la Corea, il Cile.

 

4. Alla fine degli anni Ottanta il mercato mondiale è divenuto il fattore determinante di sviluppo economico ed ha messo in crisi anche le grandi aree continentali chiuse.

Gli economisti e gli uomini politici più attenti alla realtà mondiale hanno sicuramente guardato con interesse a questa realtà. Il sogno dei Polacchi e dei Cecoslovacchi, degli Ungheresi e dei Baltici, degli Sloveni e dei Bulgari – come pure dei Russi che rifiutavano l’economia comunista – era quello di combinare i due grandi fenomeni cui essi potevano assistere negli anni Ottanta: il ritorno dell’America latina alla democrazia – indispensabile anche all’Est per creare l’economia di mercato – e la crescita delle «tigri asiatiche», le piccole economie flessibili ormai saldamente inserite nel commercio con Giappone, Stati Uniti ed Europa.

Non è dunque un caso che – non appena Gorbaciov ha dato la possibilità di ripudiare il socialismo reale – sia stata scelta la via dell’apertura immediata, cioè diretta e non intermediata dalla presenza di associazioni regionali, al mercato mondiale. Dopo anni di penuria tecnologica e di decadenza degli impianti industriali, l’Est si è buttato a capofitto nel mercato mondiale alla ricerca disperata di tecnologie ed investimenti. L’ansia di recuperare il tempo perduto ha spinto i paesi ad uno sforzo notevolissimo. In breve tempo sono stati liberalizzati i prezzi, che sono stati avvicinati a quelli mondiali; gli scambi commerciali, un tempo concentrati nell’area del Comecon, sono stati dirottati verso i paesi occidentali, con enormi sacrifici sul piano della congiuntura; numerosi Stati hanno raggiunto nel modo più veloce – cioè senza ricorrere ad un’Unione dei pagamenti – la convertibilità interna delle valute. Joint ventures ed investimenti stranieri sono stati incentivati ed accolti con grande favore. Molti Stati hanno infine fatto ingresso nelle organizzazioni finanziarie internazionali, in particolare nel Fondo monetario internazionale e nella Banca mondiale. L’Est ha scelto la via più diretta e dolorosa per fare subito ingresso nel mercato mondiale. Ha rinunciato a vie meno impervie sia per ragioni ideologiche sia per esigenze obiettive: i ritardi da recuperare erano ben maggiori di quelli degli Stati occidentali dopo la seconda guerra mondiale e, non bisogna dimenticarlo, l’integrazione nell’Occidente del maggiore partner economico e rivale concorrenziale – la Repubblica democratica tedesca – stava procedendo ad una velocità molto sostenuta ed imponeva a tutti i paesi vicini un passo altrettanto veloce.

Perché il processo di ingresso nel mercato mondiale potesse però essere portato a termine in tempi brevi – in modo da ridurre le fasi più difficili della transizione e da offrire molto presto agli investitori internazionali condizioni favorevoli per insediamenti industriali e collaborazioni – un ulteriore elemento era necessario: la rottura con il passato ed il distacco economico, politico e, se necessario, territoriale da tutti i vecchi sistemi di integrazione economica, politica e sociale che potevano ritardare il passaggio dall’economia chiusa all’integrazione con l’economia mondiale. Per alcune Repubbliche, il cui grado di occidentalizzazione era più avanzato – si pensi ai Baltici ed agli Jugoslavi del nord – ciò significò chiedere la secessione; per gli altri Stati, invece, comportò battersi per l’uscita dal Comecon e dal Patto di Varsavia. Così l’avvio dell’integrazione nel mercato mondiale della DDR, di Polonia, Cecoslovacchia e Ungheria e dei Baltici e Jugoslavi del nord – nel corso del 1990 – ha comportato l’inizio della dissoluzione del Comecon, dell’URSS e della Jugoslavia.

 

5. Ad un anno di distanza dal manifestarsi delle prime scelte di riforma radicale nell’Est, tre nuovi dati caratterizzano la situazione e la rendono ancora più complessa.

La politica di ingresso immediato e diretto nel mercato mondiale è questo il primo dato – è stata abbracciata da nuovi soggetti politici. Il più importante è la Russia, il più convinto e coerente è la Bulgaria, seguono poi, tra molti tentennamenti, ed in condizioni economiche disperate, Romania ed Albania. Il recente passo della Russia – la liberalizzazione dei prezzi all’inizio del 1992 – ha costretto l’Ucraina e le altre Repubbliche ex sovietiche a fare altrettanto e ad avviare il processo di apertura verso l’economia mondiale. E’ forte l’impressione che sia la stessa Russia post-gorbacioviana a volersi in realtà sbarazzare delle Repubbliche più deboli, che frenano l’apertura al mercato mondiale. In realtà Mosca non vuole più mantenere i legami con l’Asia centrale e con le regioni transcaucasiche. In questa chiave si possono leggere la decisione di concludere – in un primo tempo – un accordo confederale solamente con Bielorussia ed Ucraina, l’intenzione di aderire a medio temine alla NATO ed il disimpegno militare dalle regioni armene contese dagli Azeri. Solamente il rifiuto dell’Ucraina a partecipare a forme di associazione impegnative con la Russia obbliga oggi Mosca a ritardare il definitivo distacco dall’Asia centrale e dal Caucaso.

TI secondo dato di novità emerge soprattutto, ma non solamente, nei paesi confinanti con gli Stati membri della Comunità europea. Qui è divenuta forte la richiesta di aderire alla CEE. Il 3 ottobre 1990 la Germania orientale – il cuore produttivo del vecchio Comecon – ha del resto fatto ingresso nella Comunità europea; nel novembre 1991 Cecoslovacchia, Polonia e Ungheria hanno firmato gli accordi di associazione speciale con la CEE. Il desiderio di stringere legami più stretti con Bruxelles si leva anche nei paesi baltici, in Slovenia ed in Croazia, in Bulgaria, in Romania e addirittura in alcune Repubbliche ex sovietiche.

Il terzo dato è la definitiva disintegrazione delle vecchie forme di integrazione. Sono scomparsi il Comecon, il Patto di Varsavia, l’URSS e la Jugoslavia.

 

6. La strategia dell’ingresso immediato nel mercato mondiale è stata dunque perseguita dagli Europei centrali ed orientali con una coerenza impressionante. Emergono però alcuni elementi di rischio che potrebbero condurre i nuovi Stati là dove non volevano rimanere: in una situazione di isolamento e di sottosviluppo economico.

Il mercato mondiale, infatti, non è ancora organizzato in modo ordinato e razionale. Mancano ancora quelle garanzie giuridiche pubblicistiche, quelle salde regolamentazioni consuetudinarie, quei controlli istituzionali che consentono invece alle imprese all’interno di mercati già organizzati – come ad esempio nel mercato unico europeo – di investire, allacciare rapporti e stringere alleanze con sufficiente sicurezza. Attualmente, ad esempio, è in atto uno scontro violento tra la CEE e i suoi due maggiori partners del panorama mondiale – gli Stati Uniti ed il Giappone – su due questioni fondamentali: il libero scambio e i tassi di interesse. Vi è il rischio che le tensioni irrisolte tra i giganti del mercato mondiale vengano scaricate sugli anelli più deboli della catena e che i partners commerciali più forti trasferiscano sui nuovi venuti i problemi insoluti. Ed il pericolo che l’Occidente industrializzato colpisca con il protezionismo i nuovi paesi democratici dell’Europa centrale ed orientale in settori importanti come quello dell’ agricoltura – si pensi ad esempio che l’ingresso dell’Ucraina nel mercato mondiale sconvolgerà gli equilibri attuali – è particolarmente acuto.

Il mercato mondiale non è inoltre ancora in grado di mobilitare risorse sufficienti per lo sviluppo di tutte le aree economiche che necessitano di capitali. L’Europa dell’Est non è solamente in drammatica concorrenza con il Terzo mondo, ma anche con quegli Stati industrializzati – quali gli USA, la Germania unificata e la stessa Italia – che devono coprire enormi squilibri finanziari interni. La scarsità dei capitali si sta imponendo come uno dei fenomeni più importanti dell’economia internazionale. Anche la disponibilità degli imprenditori occidentali ad effettuare investimenti diretti non deve essere sopravvalutata: mentre l’Europa si muove, il Giappone e gli Stati Uniti hanno mostrato un’estrema cautela nei confronti di acquisizioni e joint-ventures.

A dispetto degli atteggiamenti romantici e sentimentali che spesso dominano l’opinione pubblica, molte imprese ed altrettanti governi, infine, non considerano affatto la disintegrazione economica e politica dell’Est – intenzionalmente voluta da chi cercava il contatto diretto con il mercato mondiale – come un contributo alla crescita e alla stabilità di quello stesso mercato internazionale. I fenomeni di conflittualità e di disordine che si succedono con frequenza regolare, la confusione delle competenze, il conflitto degli ordinamenti giuridici accrescono il rischio, disorientano o addirittura spaventano gli investitori e tengono lontano i capitali.

Vi è dunque il rischio che i paesi dell’Europa centro-orientale debbano affrontare da soli i problemi della transizione all’economia di mercato – senza poter cioè usufruire degli indispensabili apporti di capitali internazionali e senza più poter utilizzare la vecchia rete di rapporti commerciali ereditata dal Comecon. Uno sviluppo degli eventi così infausto rischia di cristallizzarsi per anni in tutta l’area dell’Est, con l’unica eccezione della vecchia DDR, della Cecoslovacchia, della Polonia e dell’Ungheria: i quattro paesi beneficiano in realtà non tanto di un accesso privilegiato al mercato mondiale, ma dell’integrazione con la CEE ed in particolare degli sforzi pubblici e privati dei finanziatori tedeschi, che hanno un interesse geopolitico prioritario a stabilizzare i confini orientali della Germania.

In presenza di queste condizioni, cresce la probabilità che la situazione economica si possa avvitare. Gli Stati hanno effettuato le scelte di politica economica più giuste e rigorose in materia di liberalizzazione dell’economia: ciò nonostante i capitali stranieri non affluiscono, le imprese dell’Europa orientale non ricevono ordinazioni dall’Occidente e la crisi economica si perpetua, ed anzi assume toni più gravi.

Alla base della decisione di cercare un contatto immediato con il mercato mondiale vi è stata forse un’ingenua sopravvalutazione da parte dei nuovi governanti filo-democratici delle capacità dell’Occidente. La nostra propaganda li ha forse ingannati. Si pensi alle Repubbliche secessioniste in URSS e in Jugoslavia ed al loro smarrimento di fronte alle reticenze ed al mancato sostegno – fino a quando la secessione non era divenuta fatto compiuto, non più ignorabile – da parte dell’Occidente: i loro governanti hanno pensato che l’Occidente (ed in primo luogo l’America) avesse la possibilità e la volontà sia di intervenire militarmente per difendere i territori, sia di investire risorse per la ricostruzione. Sulla corretta percezione dei limiti del funzionamento del mercato mondiale è prevalsa purtroppo una visione mitologica delle capacità dei paesi dell’area occidentale.

 

7. L’integrazione delle nuove economie nell’economia mondiale è un obiettivo importante e deve essere sostenuto dalla comunità mondiale, in primo luogo dall’Occidente e dalla Comunità europea che si accinge a divenire un’Unione. Si pone ovviamente il quesito, tutt’altro che semplice, su che cosa in concreto la comunità mondiale possa fare, nella nuova situazione non più bipolare del mondo.

E’ bene distinguere azioni di breve, medio e lungo termine. E’ paradossalmente più facile defInire quella che dovrebbe essere la soluzione di lungo termine dei problemi legati al crollo dell’URSS, tracciare cioè uno schizzo del quadro che, all’inizio del prossimo secolo, potrebbe consentire di risolvere definitivamente l’instabilità di questi mesi.

Se si considera il complesso dei problemi, nel lungo periodo le risorse dell’Europa non bastano a stabilizzare l’economia del vecchio blocco socialista e quella – ancor più travagliata – dei paesi in via di sviluppo. Occorre che lo sforzo sia sopportato da tutti i paesi che nel mondo producono risorse. A tal fine occorre accrescere i poteri dell’ONU e creare forme di governo mondiale di alcuni aspetti dell’economia: bisogna creare condizioni di sicurezza nel mercato mondiale, imponendo regole internazionali cogenti a favore degli investimenti e a tutela del libero mercato; si deve garantire la stabilità dei cambi e costruire un nuovo sistema di stabilità monetaria; bisogna raccogliere le risorse di un ampio schieramento di paesi per finanziare investimenti mirati in settori chiave, come quello dell’energia e dell’ecologia. Il rafforzamento dell’ONU deve inoltre consentire di evitare che condizioni di guerra, di instabilità e comunque di disordine si diffondano nel mondo post-comunista ed in quello in via di sviluppo.

Nel medio periodo – stiamo dunque risalendo ai nostri giorni e siamo già nel corso di questo decennio – la Comunità europea deve guardare, da un lato, a tutti gli Stati dell’Europa centrale ed orientale nell’ottica della loro progressiva integrazione, concludendo prima accordi di associazione speciale poi accordi di adesione, ed assistere, dall’altro lato, non solamente la Russia, ma anche tutte le altre Repubbliche ex sovietiche, con lo strumento comunitario dell’associazione commerciale.

Sarebbe infatti del tutto insufficiente se la Comunità scegliesse di privilegiare permanentemente i paesi centro-orientali più avanzati ed ignorasse le aree più povere, ed in particolare i Balcani. La guerra serbo-croata di questi mesi dimostra che la pace dell’Europa intera può dipendere dal futuro di questa regione. Nel nostro mondo interdipendente non si può ragionare secondo la logica «hic sunt leones», soprattutto se ci si riferisce ad aree geografiche così vicine.

Sarebbe inoltre molto pericoloso ridurre l’ex URSS ad un paese solamente europeo. La Russia è un imprescindibile elemento di fusione tra Asia ed Europa: non può essere abbandonata dall’Europa, ma non deve abbandonare l’Asia. Per questo motivo dobbiamo stigmatizzare l’uso della formula dell’Europa «dall’Atlantico agli Urali», e puntare invece al grande mercato comune euro-asiatico e ad una «grande Europa» delle coscienze e della solidarietà dall’Atlantico al Pacifico.

Nel breve periodo infine, cioè già nella prima metà degli anni Novanta, la Comunità mondiale dovrà dimostrare flessibilità e fantasia. Tutte le vecchie e nuove entità politiche dovranno entrare a far parte delle istituzioni internazionali e regionali: il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale e la BERS, la CSCE, il Consiglio d’Europa ed infine il Consiglio di cooperazione della NATO. Ognuna di queste istituzioni offre un tavolo politico di dialogo che occorre tenere aperto. Il confronto dovrà essere continuo ed intenso, in uno scambio di esperienze basato sulla reciproca fiducia. Anche i contatti a livello non governativo – tra regioni, enti locali, associazioni professionali, gruppi religiosi, ecc. – dovranno essere intensificati. Il flusso dei capitali dovrà infine divenire più continuo e consistente.

La Comunità, dal canto suo, dovrà accelerare nei prossimi mesi ed anni il proprio allargamento a Cecoslovacchia, Polonia e Ungheria ed inoltre avviare l’associazione speciale di quei paesi che presentino le condizioni politiche indispensabili. La Comunità dovrà inoltre porre e risolvere la questione delle risorse proprie e della capacità diretta di tassazione, dal momento che, senza una adeguata base finanziaria, anche la CEE dovrà limitarsi alle buone intenzioni. E’ bene ripeterlo: il rafforzamento istituzionale della Comunità e la sua trasformazione in Unione – in termini ancora più cogenti di quelli già decisi a Maastricht – costituiscono le premesse indispensabili perché l’Europa possa fare il proprio dovere nel mondo.

 

8. Si è cercato di dimostrare in questa nota che i fenomeni di disgregazione che si sono accentuati negli ultimi mesi, dopo un’incubazione di alcuni anni, nascono anche da un’esigenza – sentita da tutte le comunità che escono dall’esperienza del socialismo reale – di apertura delle economie e di ingresso nel mercato mondiale. Tale esigenza all’apertura degli Stati all’economia mondiale deve essere valutata positivamente e deve essere incoraggiata. Non altrettanto le manifestazioni che si traducono in una rottura di solidarietà tra popoli.

Compete proprio all’Europa chiedere agli Stati ed ai popoli dell’Europa centro-orientale di riprendere in modo più chiaro la via dell’integrazione regionale. Dopo la caduta del regime comunista a Mosca e la scelta di molti Stati a favore della democrazia pluralistica, del libero mercato e del libero commercio internazionale, l’opzione del «ciascuno per sé» non appare più giustificata ed è oggettivamente incoerente con le aspirazioni ad un ingresso nell’economia mondiale.

Anche le classi dirigenti di alcuni Stati stanno provvedendo ad una correzione di rotta. Polonia, Cecoslovacchia e Ungheria – che per prime hanno attuato le riforme economiche – hanno siglato un accordo per la progressiva liberalizzazione degli scambi commerciali ed hanno varato forme di cooperazione e di consultazione periodica tra i governi. Sembrerebbe logico che i tre Stati, così come tutti gli altri che sottoscriveranno con la CEE accordi di associazione speciale ed intenderanno fare poi ingresso nella Comunità europea, riconoscano gli interessi comuni che li legano, anche in vista delle trattative con la Commissione europea: potrebbero creare un «Consiglio di associazione», che costituisca un tavolo politico ed economico di coordinamento tra gli Stati che dovranno affrontare i gravi problemi dell’ingresso nella CEE.

Non tutti gli Stati dell’Europa centro-orientale faranno ingresso nella Comunità europea. Ciò non significa però che essi non abbiano interessi – sia nel settore dell’economia sia in quello della sicurezza – che li debbano spingere verso forme di integrazione. Molte nuove Repubbliche che sorgono dalle macerie dell’URSS e della Jugoslavia, così come molti paesi che un tempo costituivano gli Stati satelliti dell’URSS, debbono ancora imparare a riconoscere gli elementi di reciproca dipendenza, molti dei quali sono addirittura precedenti alla costituzione di un’area di influenza sovietica in Europa e in Asia.

Le ragioni del dialogo fra popoli un tempo uniti ed oggi divisi – sostenute dall’interdipendenza oggettiva e dalla comunanza dei problemi – torneranno probabilmente ad emergere nei prossimi mesi ed anni. Esse potranno però prevalere solamente se le economie occidentali e le istituzioni internazionali forniranno incentivi all’unificazione. E’ probabilmente necessario – prima di tutto – pensare ad un sistema di interventi preferenziali per quegli Stati che sappiano impostare in modo coordinato piani di ricostruzione. Non bisogna inoltre escludere sanzioni per quegli Stati che – in settori così delicati come ad esempio quello della proliferazione delle armi nucleari, chimiche e batteriologiche – mettano in pericolo la sicurezza del mondo con una politica pericolosa di violazione degli accordi internazionali.

Non è facile prevedere se le unità politiche e i legami commerciali che si sono dissolti negli ultimi mesi verranno ricostruiti secondo i medesimi criteri degli anni passati.

E’ però altrettanto improbabile che la logica del rifiuto di ogni stabile cooperazione e di forme più impegnative di integrazione possa durare a lungo. Non vi è dubbio: sono in primo luogo gli stessi popoli che hanno seguito la via dell’integrazione mondiale e della disintegrazione regionale a dover decidere quali debbano essere queste nuove forme di cooperazione e convivenza, ispirate all’idea della democrazia pluralistica e del libero mercato. E’ altrettanto chiaro che agli Europei occidentali spetta il compito di lanciare un messaggio chiaro: la condizione indispensabile perché gli Stati dell’Europa orientale facciano pieno ingresso nell’economia mondiale consiste nell’avviarsi verso la loro integrazione.

 

Francesco Mazzaferro

 

 

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