IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XLVII, 2005, Numero 2, Pagina 90

 

 

LA CRISI DELLE NAZIONI UNITE
 
 
In questi ultimi tempi stiamo assistendo ad un paradosso davvero singolare. Da parte di alcuni Stati o movimenti di opinione, infatti, con il complicarsi dello scenario mondiale e di fronte alle oggettive difficoltà di individuare soluzioni appropriate alle varie crisi che lo sconvolgono, si guarda con sempre maggiore insistenza alle Nazioni Unite come ad una sorta di governo mondiale, al quale solo spetterebbe il compito di prendere decisioni e svolgere azioni relativamente a tali crisi. Le Nazioni Unite sarebbero, secondo costoro, un ente superiore agli Stati, dotato di una propria volontà e capacità di azione, separata da quella dei singoli Stati, così che questi ultimi sarebbero ormai esonerati dal gravoso onere di prendere posizione in merito a tali crisi, o comunque di prendere posizioni diverse da quelle dell’adeguamento puro e semplice a decisioni e azioni che dovrebbero essere ipoteticamente assunte a livello delle Nazioni Unite. Non sempre quest’atteggiamento maschera ossessivi complessi antiamericani, come verrebbe fatto a prima vista di pensare; spesso è dettato da semplice ignoranza. Dall’altra parte, mai come di questi tempi le Nazioni Unite sembrano addentrarsi in una crisi sempre più profonda di legittimità e credibilità, che pone sotto gli occhi di chiunque guardi ad esse con oggettività e senza pregiudizi la loro intrinseca — si direbbe strutturale — incapacità di svolgere quel ruolo di governo mondiale che alcuni Stati o movimenti di opinione pretendono di attribuire alle stesse e dietro il quale essi si trincerano per vari motivi, tra cui, a volte, purtroppo quello di sfuggire alle proprie responsabilità.
Questa crisi delle Nazioni Unite è di natura giuridico-istituzionale e, pertanto, di essa posso parlare con qualche cognizione di causa. Non posso, invece, addentrarmi in altri fattori di crisi, relativamente ai quali non ho le conoscenze necessarie per esprimermi con competenza. Non mi riferisco, quindi, agli sprechi e all’elefantiasi dell’organizzazione che alcuni lamentano, né agli scandali che la stampa riporta riguardanti l’attività delle Nazioni Unite e del suo Segretario generale. Né prendo in considerazione certe situazioni, che tante perplessità suscitano, di Stati che, pur sistematicamente violando i diritti dell’uomo, hanno un ruolo preminente negli organi delle Nazioni Unite preposti a tutelare tali diritti. Né, infine, mi sentirei di ricondurre i problemi che affliggono le Nazioni Unite ai casi in cui, in relazione a grosse crisi internazionali rappresentanti chiare minacce per la pace o per la tutela dei diritti fondamentali degli individui, come ad esempio in Sudan, l’azione delle Nazioni Unite è stata inesistente o, comunque, non ha avuto successo. Giudizi del genere, infatti, dovrebbero prendere in considerazione anche quei casi in cui le Nazioni Unite hanno svolto un qualche ruolo utile. Soprattutto, però, occorre sempre ricordare che le Nazioni Unite hanno, sì, un compito fondamentale, che è quello del mantenimento della pace (cui sono dedicate le norme di gran lunga più importanti della Carta, quelle contenute nei capitoli VI e VII), ma svolgono anche tutta una serie di mansioni più tecniche, direttamente o attraverso i vari istituti specializzati (ILO, FAO, OMS, UNESCO, ecc.), le quali sono indispensabili per la convivenza tra i membri della Comunità internazionale. In particolare, in un campo che mi concerne direttamente, quello dello sviluppo del diritto internazionale, non potranno mai apprezzarsi abbastanza i lodevoli sforzi della Commissione di Diritto internazionale delle Nazioni Unite. Quello che vorrei cercare di sottolineare, invece, è che, a prescindere dai successi o dagli insuccessi delle Nazioni Unite in relazione a crisi particolari, esse sono ormai divenute strutturalmente inadeguate a far fronte al compito principale che i redattori della Carta avevano loro affidato, quello del mantenimento della pace. Di conseguenza è una pericolosa illusione quella di coloro che nascondono la loro incapacità o riluttanza a prendere decisioni in materia di politica estera dietro il preteso ruolo delle Nazioni Unite come governo mondiale. Aggiungo anche che nessuna delle proposte di modifica della Carta attualmente sul tappeto è idonea a risolvere la crisi che attanaglia le Nazioni Unite stesse.
Nessuna delle suddette proposte tocca, infatti, l’aspetto centrale che è alla base della crisi delle Nazioni Unite: il diritto di veto spettante alle cinque potenze vincitrici della seconda guerra mondiale in relazione alle votazioni più importanti in seno al Consiglio di Sicurezza. Per mettere a fuoco la natura di tale diritto vorrei sottolineare che esso pone ciascuna delle potenze che ne beneficiano «al di sopra della legge», o meglio le esenta di fatto dall’obbligo di rispettare le norme più importanti della Carta, quali, per esempio, il divieto dell’uso della forza e l’obbligo di cooperare per il mantenimento della pace. Questo perché qualora fosse in discussione dinanzi al Consiglio di Sicurezza l’adozione di una misura prevista dal capitolo VII della Carta nei casi in cui la pace sia violata o minacciata dal comportamento di uno Stato che benefici del diritto di veto, questo Stato non ha l’obbligo di astensione, come richiederebbe il principio generale di diritto nemo judex in re sua, ma può, invece, con il suo veto, bloccare l’azione del Consiglio di Sicurezza. Naturalmente, questo diritto di veto potrà essere esercitato da ciascuno Stato che ne beneficia non solo per bloccare l’azione delle Nazioni Unite contro sé stesso, ma contro qualsiasi altro Stato che rientri nella sua sfera di influenza. Questo succedeva regolarmente in un mondo diviso in due blocchi prima della caduta del muro di Berlino, ma continua a verificarsi oggi anche se le linee di divisione tra gli Stati con diritto di veto sono diverse da quelle Est-Ovest.
Dire che alcuni membri delle Nazioni Unite sono al di sopra delle norme poste dalla Carta significa anche dire che l’ordinamento delle Nazioni Unite non si conforma ai principi dello Stato di diritto, che richiede che tutti i membri di una determinata comunità siano sottoposti alla rule of law e che rappresenta una conquista del mondo occidentale a partire dalla rivoluzione francese. Il risultato pratico è che tutte le volte che il Consiglio di Sicurezza esamina l’adozione di una misura sulla base del capitolo VII, implicante o meno l’uso della forza, e che questa misura riguardi uno dei membri aventi diritto di veto, ovvero uno Stato suo alleato od amico, la cosiddetta «azione delle Nazioni Unite» si riduce ad un negoziato tra i cinque membri dotati di diritto di veto, volto a trovare un accordo secondo i tradizionali sistemi diplomatici intergovernativi. In questo contesto, ad esempio e con riferimento alla crisi in Iraq, è difficile comprendere perché un atto di uno Stato, legittimo per il diritto internazionale generale, dovrebbe diventare illegittimo se uno solo dei membri aventi diritto di veto lo qualifichi invece come aggressione e si rifiuti di approvarlo, oppure perché un atto di uno Stato, illegittimo per il diritto internazionale generale, dovrebbe essere qualificato come un atto di legittima difesa solo perché i cinque membri con diritto di veto così stabiliscano. La verità è che quando si pensa alle Nazioni Unite come ente che dovrebbe gestire le più importanti crisi internazionali, si dovrebbe, in effetti, tenere presente che tale «gestione» significa la ricerca di un compromesso, sempre faticosa e a volte impossibile, tra cinque Stati, quelli, cioè, che detengono il diritto di veto.
Il fatto che cinque membri delle Nazioni Unite si pongano al di sopra delle norme più importanti poste dalla Carta e non siano di fatto soggetti all’azione degli organi delle Nazioni Unite in relazione a situazioni di minaccia alla, o violazione, della pace può scandalizzare solo chi non comprende appieno la natura della comunità internazionale, del diritto internazionale e delle organizzazioni internazionali. La comunità internazionale è essenzialmente anorganica, nel senso che il rispetto della sovranità dei suoi membri implica che non vi siano strutture della comunità stessa cui gli Stati possano essere sottoposti anche contro la loro volontà (come avviene, al contrario, nelle comunità degli Stati nazionali, i cui cittadini sono, invece, sottoposti alle strutture statali). Il diritto internazionale è l’espressione diretta della comunità internazionale stessa e le sue sole norme a carattere generale non possono essere che consuetudinarie, data l’inesistenza di un legislatore a livello mondiale. Le uniche strutture che la comunità internazionale crea sono, appunto, le organizzazioni internazionali, tra cui la più importante è l’ONU. Ma queste strutture sono creazioni degli Stati stessi attraverso trattati internazionali, cui gli Stati aderiscono solo se lo desiderano, quindi su base volontaria. Tali strutture non possono, per loro stessa natura, assurgere né al livello di legislatore mondiale, né a quello di governo mondiale e sostituire i propri processi decisionali — quelli, cioè, previsti dai rispettivi trattati istitutivi — a quelli tradizionali della comunità internazionale nel suo complesso, anche perché i processi decisionali di un’organizzazione internale sono codificati, mentre quelli della comunità internazionale si evolvono con l’evolversi inarrestabile della comunità stessa.
A questo riguardo è noto fin dal tempo dei padri del diritto internazionale (per esempio Grozio) che il diritto internazionale è l’espressione delle forze dominanti nella comunità internazionale, come, del resto, il diritto interno è l’espressione delle forze dominanti in una determinata comunità statale. Quindi, al momento in cui le Nazioni Unite furono create, l’attribuzione di un diritto di veto, con relativa posizione di privilegio, alle cinque potenze vincitrici della seconda guerra mondiale poteva apparire naturale, data l’indubbia posizione di dominanza della comunità internazionale di allora che tali potenze rivestivano. Il problema è che, a più di cinquanta anni di distanza, questo non è più vero e, ammesso e non concesso che il diritto di veto debba sopravvivere, esso dovrebbe essere attribuito a potenze che rappresentino l’attuale assetto dominante della comunità internazionale. Ancora più importante è la necessità che la Carta contenga meccanismi per adeguare l’attribuzione del diritto di veto al mutevole assetto della comunità internazionale stessa. Invece la Carta delle Nazioni Unite è una costituzione rigida, che non si può modificare senza l’assenso dei cinque membri dotati di diritto di veto.
La Carta delle Nazioni Unite prevede, all’art. 108, una procedura per apportare emendamenti e, all’art. 109, una procedura per revisioni (si ritiene che le revisioni comportino modifiche più sostanziali degli emendamenti). Entrambe le procedure sono complesse, ma sono accomunate dal fatto che né emendamenti, né revisioni possano mai entrare in vigore senza il consenso di tutti e cinque i membri con diritto di veto. Di qui la rigidità della Carta, cui prima accennavo. Non vi è stata, infatti, finora alcuna revisione della Carta e l’unico emendamento ha portato il numero dei membri del Consiglio di Sicurezza da 11 a 15. Eppure, a parte la composizione del Consiglio di Sicurezza, ci sarebbe urgente bisogno di revisioni della Carta, come unanimemente riconosciuto dagli studiosi. Si pensi che la Carta contiene norme del tutto obsolete in materia di decolonizzazione e che le esigenze, pur generalmente affermatesi nella prassi, di erosione del «dominio riservato» degli Stati membri in presenza di gross violations dei diritti umani, potrebbero essere utilmente riflesse nell’art. 2, par. 7, della Carta che tutela, appunto, tale dominio riservato.
Le varie proposte di modifica della composizione del Consiglio di Sicurezza attualmente in esame non riguardano, come già detto, il diritto di veto, né nel senso di toglierlo agli Stati che attualmente ne godono, né nel senso di attribuirlo eventualmente a nuovi Stati. E’ fin troppo facile pensare che tali modifiche incontrerebbero l’opposizione degli Stati che del diritto di veto beneficiano e, quindi, non avrebbero alcuna chance di essere approvate. Pertanto tutte le proposte attualmente all’esame, relative alla composizione del Consiglio di Sicurezza, sono irrilevanti ai fini del discorso fin qui fatto e possono essere ignorate. Mi limito, tuttavia e solo per inciso, a osservare che l’attribuzione di un seggio permanente ad un altro Stato europeo seppellirebbe definitivamente le aspirazioni dell’Unione europea a darsi una sua politica estera, mentre l’eventuale attribuzione di un seggio permanente all’Unione europea (come il Parlamento europeo ha richiesto ufficialmente il 29 gennaio 2004) si scontrerebbe con la mancanza di una politica estera a livello dell’Unione europea, di cui quest’ultima potrebbe farsi interprete attraverso il suo seggio. Un circolo vizioso, quindi.
E’ la natura rigida della Carta delle Nazioni Unite e la sua incapacità di adeguarsi al mutato assetto della comunità internazionale da cinquanta anni a questa parte che determina la crisi delle Nazioni Unite. E’, quindi, come dicevo, una crisi di natura strutturale, che non dipende dai successi o insuccessi della sua attività. Gli uni e gli altri sono solo il risultato del raggiungimento o meno dell’accordo tra i cinque Stati di cui sopra sull’azione da intraprendere in casi specifici. Le Nazioni Unite sono come quelle cattedrali di cui resta in piedi sola la facciata: dietro di essa ci sono, in sostanza, cinque Stati, cui la comunità internazionale dovrebbe affidare i propri destini. Siccome tale situazione è inaccettabile, assistiamo alla perdita di credibilità e legittimità delle Nazioni Unite, il cui declino potrebbe ripercorrere le stesse tappe dell’organizzazione che le Nazioni Unite stesse avevano sostituito, la Società delle Nazioni.
Anche alcuni Stati hanno costituzioni rigide, difficilmente modificabili per adattarsi alla mutata realtà sociale sottostante. Ma negli Stati dietro ogni costituzione «scritta» c’è sempre una costituzione «vivente» che rappresenta l’assetto di fatto dei rapporti tra i membri della specifica comunità che la costituzione intende regolare. Tale costituzione vivente entra in gioco quando la costituzione scritta è incapace di adeguarsi opportunamente e la comunità sottostante riprende direttamente in mano il momento costitutivo. Anche per le Nazioni Unite vale lo stesso discorso. Dietro e prima della Carta dell’ONU c’è la volontà della comunità internazionale degli Stati che si esprime attraverso la formazione di regole essenzialmente consuetudinarie, regole che riflettono la volontà delle forze preminenti nella comunità internazionale stessa — con il concorso di tutte le altre — secondo il procedimento di formazione classico del diritto internazionale generale. Tale procedimento rifiuta di farsi ingabbiare e congelare da un trattato internazionale, pur importante quale la Carta delle Nazioni Unite. Alla progressiva irrilevanza cui sembrano inesorabilmente avviate le Nazioni Unite per le ragioni appena indicate, non subentrerà, quindi, un vuoto di regole, ma nuove regole si formeranno spontaneamente attraverso l’attività della comunità internazionale e i rapporti tra i suoi membri, come è sempre avvenuto fin dagli albori del diritto internazionale. Tali regole, quanto al loro contenuto sostanziale, potranno, ad esempio, includere o meno la legittimità su larga scala della legittima difesa preventiva, ovvero potranno allargare la nozione di aggressione per comprendervi atti di terrorismo, oppure potranno legittimare l’intervento umanitario (si ricordi che per il Kosovo, l’opposizione della Russia impedì il raggiungimento del consenso tra i cinque, ma l’intervento ebbe ugualmente luogo). Quello che è certo è che, sul piano del processo di formazione delle regole stesse, non saranno i cinque Stati attualmente detentori del diritto di veto a determinarle (anche se probabilmente a tali cinque Stati non dispiacerebbe la perpetuazione dello status quo), proprio perché essi non rappresentano più le forze dominanti nella comunità internazionale.
Mentre sono certo di quest’ultima conclusione, nessuno può dire in quale direzione la comunità internazionale si evolverà a seguito della incapacità delle Nazioni Unite a gestire i problemi relativi al mantenimento della pace. Sarà l’atteggiamento degli Stati che in tale comunità hanno un ruolo dominante, nella considerazione — mai storicamente venuta meno — delle opinioni anche degli Stati meno importanti, che determinerà tale evoluzione. Fermo restando che, probabilmente, le Nazioni Unite continueranno ad occuparsi di tutte le questioni di natura più propriamente tecnica di cui attualmente si occupano, è possibile che la comunità internazionale gestisca di volta in volta e in presa diretta le varie crisi che si manifesteranno in futuro e che potranno mettere a rischio la pace, attraverso quelle che sono state chiamate cohalitions of the willings, che si potrebbero formare caso per caso. Oppure la comunità internazionale potrebbe essere tentata di dar vita ad una nuova organizzazione internazionale, di cui solo gli Stati con un regime democratico potrebbero essere chiamati a far parte. Sono tutte proposte attualmente sul tappeto, nel quadro dell’inarrestabile processo di evoluzione del diritto internazionale.
 
Ugo Draetta

 

 

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