IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XLVI, 2004, Numero 3, Pagina 173

 

 

LA GUERRA AL TERRORISMO
E IL FUTURO DEGLI STATI UNITI
 
 
All’indomani dell’attentato dell’11 settembre 2001 il Congresso ed il Senato degli Stati Uniti avevano conferito al Presidente Bush, con l’approvazione del Patriot Act,[1] poteri straordinari per condurre la guerra contro il terrorismo. A tre anni dalla sua introduzione, il Patriot Act si è dimostrato inadeguato sia per allontanare definitivamente il pericolo di nuovi attentati terroristici rivolti contro l’America, sia per ristabilire all’interno della società americana un clima di fiducia nelle istituzioni e nella possibilità di vincere la guerra contro il terrorismo. Le continue notizie negative provenienti dall’Iraq, la limitazione di alcune libertà individuali e le violazioni della privacy dei cittadini americani da parte di organi federali in nome della sicurezza nazionale hanno alimentato i dubbi sull’opportunità e sull’efficacia dei provvedimenti adottati.[2] La sospensione poi del privilegio dell’habeas corpus[3] nei confronti di centinaia di prigionieri catturati nel corso della guerra e detenuti per anni senza processo nelle carceri americane e nelle basi militari, ha suscitato un tale sdegno presso l’opinione pubblica americana, da indurre la Corte Suprema a criticare l’operato del governo attraverso due sentenze che hanno ordinato all’esecutivo di rispettare il privilegio dell’habeas corpus dei detenuti Yaser Esam Hamdi e Shafiq Rasul, e di notificare formalmente a tutti i detenuti in questione l’accusa di essere degli enemy combatants.[4] L’Amministrazione Bush ha risposto alle sentenze estradando senza processo Hamdi e Rasul, e attivando, secondo le indicazioni della Corte Suprema, delle speciali commissioni militari per chiarire la posizione degli altri prigionieri ancora in carcere. Prendendo spunto da queste sentenze, si sono sviluppate altre azioni legali e proteste in diversi Stati membri della federazione.[5] Ma la situazione d’emergenza, come continuano a ripetere il Presidente Bush e i responsabili della sua Amministrazione, non è finita e quindi, proprio in virtù delle norme costituzionali americane, continua a pendere sulle libertà fondamentali dei cittadini statunitensi il pericolo di una loro sospensione.[6] L’incertezza della situazione emerge anche dalle sentenze dei giudici della Corte Suprema nei casi Hamdi e Rasul, delle quali si vuole in questa nota proporre una lettura che consideri tre aspetti: a) quello storico, per mettere in evidenza che queste sentenze, come del resto tutte quelle che le hanno precedute, non possono prescindere dal momento storico in cui sono state formulate; b) quello tecnico-pratico, per sottolineare la volontà dei giudici di giudicare sulla sostanza e non semplicemente sulla forma delle fattispecie che sono state loro presentate; c) quello politico, per inquadrare queste sentenze nell’ambito degli equilibri di potere che si vanno formando in seno al sistema di governo federale americano.
 
A) In diverse occasioni le sentenze della Corte Suprema hanno contraddistinto e segnato momenti cruciali e di svolta per gli Stati Uniti, a volte anticipando, altre volte indirizzando o semplicemente registrando, i cambiamenti in atto nella società americana. La regolazione dei rapporti tra il potere federale e il potere degli Stati membri, i tentativi di limitare la crescita dei poteri federali in campo economico e commerciale prima e nel campo della gestione della politica estera poi, l’estensione dei diritti civili a tutti i cittadini indipendentemente dalla loro razza e origine, sono alcuni esempi dei temi di cui si è occupata la Corte Suprema dalla fondazione degli Stati Uniti sino ad oggi. Su ognuno di questi temi le sue sentenze hanno avuto il valore di giudizi definitivi e di veri e propri ordini (It is so ordered è non a caso la formula conclusiva in calce alle sue sentenze), ai quali sia i semplici cittadini che le istituzioni hanno dovuto attenersi e fare riferimento. Proprio per il fatto che la voce della Corte Suprema è tuttora ascoltata e rispettata, vale la pena di prendere in considerazione i suoi giudizi in merito alla guerra al terrorismo e ai poteri sostanziali del Presidente degli USA, due temi di grande attualità non solo negli Stati Uniti, ma anche nel resto del mondo. In particolare ci riferiamo ai giudizi espressi dalla Corte nell’esaminare due ricorsi, di cui si è fatto cenno sopra, presentati tra gli altri dai prigionieri Hamdi e Rasul contro il governo degli Stati Uniti per la violazione del loro diritto costituzionale all’habeas corpus. Nell’esame di questi casi la Corte ha riflettuto sulla natura stessa dell’emergenza della guerra contro il terrorismo e sulla sovranità esercitata dagli USA al di fuori dei suoi confini. Ad aumentare il significato ed il valore delle sentenze, che hanno dato ragione ai querelanti contro il governo, ma con i limiti che vedremo, vi è la consapevolezza, testimoniata dai giudici in alcuni passaggi delle sentenze, del ruolo di potenza mondiale che ricopre l’America. Un momento storico ben descritto, e citato, dal passo del Federalist in cui Hamilton metteva in guardia dai pericoli che corre uno Stato quando è sottoposto alle pressioni esterne. «Il desiderio di sentirsi salvi dai pericoli esterni», scriveva Hamilton, «rappresenta la più potente guida per le linee direttive della politica nazionale. Perfino un ardente amore per la libertà dovrebbe, dopo qualche tempo, cedere di fronte ai suoi imperativi. La distruzione violenta di vite e di beni che è insita nella guerra, il perpetuo stato di allarme e di tensione che è determinato da un pericolo incombente, farà sì che perfino le nazioni cui sta più a cuore la libertà ricorreranno, per raggiungere sicurezza e distensione, ad istituti che potrebbero compromettere i loro diritti civili e politici. A lungo andare, pur di ottenere una certa sicurezza, esse diverranno propense a correre il rischio di divenire meno libere».[7] I giudici della Corte hanno tenuto ben presente, nei loro giudizi, che questo è il bivio di fronte al quale si trovano oggi gli USA.
 
B) Vediamo però più in dettaglio che cosa hanno detto in concreto i giudici della Corte e quali sono state le conseguenze immediate dei loro giudizi.
Il caso Hamdi contro il Segretario alla Difesa degli Stati Uniti.[8] Il cittadino saudita-americano Yaser Esam Hamdi era stato fatto prigioniero in Afghanistan dall’esercito americano nel 2001. Classificato come enemy combatant e condotto prima nella base di Guantanamo e poi — una volta accertata la sua doppia cittadinanza — trasferito in un carcere negli USA, Hamdi è rimasto detenuto nella situazione di incommunicado, cioè senza la possibilità di comunicare con chicchessia e senza processo, fino al giorno della sua espulsione in Arabia Saudita nell’ottobre 2004 a seguito della sentenza della Corte. Questa sentenza ha stabilito che l’esecutivo non può, invocando una situazione d’emergenza di durata indefinita, impedire ad alcun individuo, e a maggior ragione ad un cittadino americano, di reclamare la propria innocenza di fronte ad una Corte degli Stati Uniti. Ai difensori del Pentagono che avevano obiettato che la guerra al terrorismo, «per la sua natura non-convenzionale, …non può terminare con un formale accordo di fine delle ostilità», la Corte ha seccamente risposto che «poteri straordinari in stato di necessità devono essere almeno esercitati in un tempo limitato di effettivo stato di emergenza». Se, ha obiettato la Corte, «il governo dovesse ritenere di non poter concludere questa guerra per le prossime due generazioni, e se dovesse ritenere che durante tutto questo tempo Hamdi potesse, qualora rilasciato, tornare a combattere contro gli Stati Uniti, allora si dovrebbe concludere che la detenzione [senza processo] di Hamdi potrebbe durare per il resto della sua vita». Perciò la Corte ha negato all’Amministrazione il potere di sospendere il diritto dell’habeas corpus e ha stabilito che Hamdi «senza dubbio ha il diritto di difendersi nei procedimenti a suo carico».
La Corte non si è però limitata a negare all’Amministrazione il potere di sospendere il privilegio dell’habeas corpus nei confronti di cittadini americani detenuti sul suolo statunitense: glielo ha negato anche nei confronti di cittadini non americani tenuti prigionieri da forze militari USA all’estero. E’ questo il senso della seconda importante sentenza esaminata di seguito.
Il caso Rasul contro il Presidente degli Stati Uniti.[9] Nel giudicare il caso del cittadino britannico Shafiq Rasul, anch’egli classificato enemy combatant, detenuto come incommunicado a Guantanamo, la Corte ha dovuto innanzitutto stabilire come va intesa e in che misura si esercita la giurisdizione degli USA al di fuori dei confini nazionali: solo laddove si estende il dominio dello Stato, ha ribadito la Corte, si esercita il potere giudiziario di quello Stato. A questo proposito la Corte è ricorsa ad un’analisi dello status internazionale della base americana di Guantanamo, dove sono tuttora reclusi centinaia di prigionieri della guerra contro il terrorismo, una base, secondo il governo USA, formalmente sotto sovranità cubana e quindi al di fuori della giurisdizione dei tribunali federali USA.[10] Il precedente storico a cui ha fatto significativamente riferimento la Corte per formulare la sentenza è stato il periodo coloniale britannico e la tutela del privilegio dell’habeas corpus nei confronti di prigionieri detenuti al di fuori del Regno Unito, in quanto alla Corte interessava indagare non la nozione formale di sovranità territoriale, ma quella sostanziale. «Il problema che abbiamo di fronte», si legge nella motivazione della sentenza della Corte, «è se la garanzia dell’habeas conferisce o meno un diritto di controllo giudiziario sulla legalità dell’operato dell’esecutivo nel momento in cui questo implica la detenzione di stranieri in un territorio sul quale gli Stati Uniti esercitano una giurisdizione piena ed esclusiva, ma non ‘la piena sovranità’».[11] Proprio sulla base dell’analisi del tipo di potere esercitato dalla corona britannica nei territori d’oltremare allora sotto il suo controllo, la Corte ha concluso che la sovranità degli USA è da considerarsi estesa anche alla base di Guantanamo. Nelle colonie e nei protettorati britannici, osserva la Corte, «non c’era alcun dubbio sull’esercizio del potere giudiziario nel garantire il diritto dell’habeas corpus in tutti i territori ‘soggetti alla Corona’». Analogamente, «le Corti federali [degli Stati Uniti] hanno giurisdizione per determinare la legalità o meno della detenzione [a Guantanamo] per ordine dell’esecutivo, potenzialmente a tempo indefinito, di individui che si proclamano innocenti». Nel caso in questione la Corte ha quindi l’autorità che le deriva dalla Costituzione di «annullare il precedente giudizio espresso dalla Corte d’Appello, e di chiedere alla competente Corte distrettuale di esaminare le richieste dei querelanti in questione». L’effetto pratico di questa sentenza è stata l’estradizione di Rasul in Gran Bretagna.
 
C) Quanto potranno pesare questi giudizi sull’evoluzione dei rapporti di potere in seno agli USA e sull’esercizio dei poteri presidenziali in politica estera? Per rispondere a questa domanda occorre rivolgere lo sguardo al passato, ricordando una emblematica sentenza della Corte Suprema di oltre un secolo fa. Anche quella sentenza prendeva spunto da un caso di rivendicazione del privilegio dell’habeas corpus. In quegli anni, anche a seguito del vuoto di potere creato dalla debolezza di alcune ex-potenze coloniali europee (in primo luogo la Spagna), gli Stati Uniti avevano incominciato ad allargare il loro raggio di influenza nell’Atlantico (occupazione di Cuba) e nel Pacifico (occupazione delle Filippine) ed il ruolo del Presidente degli Stati Uniti si avviava a subire profonde trasformazioni. La stewardship theory sul ruolo del Presidente incarnò queste trasformazioni richiamandosi esplicitamente a quella sentenza della Corte Suprema del 1890, il caso Neagle,[12] con la quale i giudici avevano stabilito che i poteri dell’esecutivo dovevano ormai essere considerati inclusivi del compito di «far rispettare i diritti, i doveri e gli obblighi derivanti dalla Costituzione, dai rapporti internazionali e di garantire la tutela dell’esercizio del governo prevista dalla Costituzione stessa». E’ solo il caso di osservare, per avere la misura dell’importanza che questi temi rivestivano nella società americana dell’epoca che, ancora pochi anni prima del caso Neagle, il giovane giurista e futuro Presidente degli Stati Uniti, Woodrow Wilson, aveva proposto di istituire un governo parlamentare più vicino al modello inglese, abbandonando la forma di governo presidenziale — inefficace e non più all’altezza dei tempi, secondo Wilson.[13] Successivamente, nel corso della prima guerra mondiale, proprio il Presidente Wilson prese delle decisioni per quanto riguardava il controllo dell’economia e delle libertà degli americani, in particolare con la creazione della Commissione sull’industria di guerra presieduta da Baruch, che nessun suo predecessore aveva mai preso.
Il fatto è che ogniqualvolta gli Stati Uniti si sono trovati in situazioni di guerra o solo di minaccia di guerra (a partire dalla quasi guerra contro la Francia rivoluzionaria pochi anni dopo la ratifica della Costituzione, per arrivare agli anni della guerra fredda con l’URSS), sono state approvate leggi e misure che hanno fortemente limitato le libertà ed i diritti individuali: gli Alien and Sedition Acts voluti da Washington ed Hamilton nel 1798, scarsamente utilizzati e subito abrogati nel 1800 sotto la presidenza Jefferson, sono i lontani predecessori dei provvedimenti introdotti in occasioni successive.[14]
Quanto più gli USA si sono inseriti negli equilibri mondiali, tanto più essi non hanno potuto sottrarsi alle ferree leggi che regolano i rapporti fra Stati: la ragion di Stato e il primato della politica estera su quella interna.[15] Anche il Patriot Act ed il potere esercitato dal Presidente Bush si inquadrano in questa logica. Ma essi non sono una semplice riedizione, con modalità e su scala diverse, di analoghi provvedimenti e politiche del passato. Sono infatti le stesse sentenze della Corte Suprema a chiarire che la guerra al terrorismo è solo in apparenza una guerra. In effetti essa è un’emergenza senza luogo e senza tempo che può preludere a guerre combattute in modo convenzionale, o prepararle[16] e che, proprio per questo, tende ad accrescere indefinitamente i rischi di abuso di potere da parte dell’esecutivo.
Il fatto che per il momento il governo americano abbia obbedito al dettato delle sentenze non significa che il futuro del federalismo e della democrazia siano al riparo da ogni pericolo negli USA. Occorre infatti capire fino a che punto l’azione della Corte sarà sufficiente, da sola: 1) per garantire durevolmente la salvaguardia dei diritti civili in una situazione che resta comunque di emergenza per la sicurezza nazionale e 2) per contenere un’ulteriore espansione dell’influenza dei poteri presidenziali nel sistema federale.
Per quanto riguarda il primo punto, le argomentazioni delle sentenze Hamdi e Rasul da parte dei giudici testimoniano la loro preoccupazione di preservare, accanto al diritto dei cittadini imprigionati di appellarsi alla giustizia per proclamare la propria innocenza, il potere d’azione del Presidente in caso di guerra.[17] Nel caso Hamdi, per esempio, il giudice Sandra O’Connor si è così espressa: «[Hamdi] ha indiscutibilmente il diritto alla difesa in relazione a qualsiasi ulteriore procedimento nei suoi confronti», e a lui come agli altri prigionieri, prima dell’avvio di una procedura giudiziaria, deve essere notificato da un neutral decision-maker se e perché il governo lo consideri un enemy combatant. Ma questi neutral decision-makers altro non sarebbero, secondo lo stesso giudice O’Connor, se non delle commissioni militari «opportunamente autorizzate e costituite» e non dei normali tribunali civili o militari. E’ evidente che in questo modo si inverte l’onere della prova, mettendo in una situazione di inferiorità gli imputati.[18] Infatti, nel caso in cui il governo decidesse — come in effetti ha deciso per i prigionieri della guerra in Afghanistan — di non rivelare, per motivi di sicurezza, i particolari e le circostanze in cui gli enemy combatant sono stati catturati, spetterebbe a questi ultimi l’onere di dimostrare di non aver niente a che fare con il terrorismo producendo delle adeguate testimonianze a proprio favore (ma con quali reali possibilità se nel frattempo sono stati trasferiti a migliaia di chilometri di distanza dal luogo dove sono accaduti i fatti?) e non al governo di provare la loro effettiva colpevolezza. Una procedura, questa, discutibile sulla base del sesto emendamento della Costituzione americana, laddove si specifica che ogni accusato deve avere il diritto «di essere messo a confronto con i testimoni a lui contrari e di far comparire i testimoni a suo favore». E’ dunque vero che il governo ha dovuto obbedire alla Corte estradando i prigionieri che erano parte in causa, ma viene riconosciuto il suo potere discrezionale nella cattura dei prigionieri nei vari teatri in cui vengono condotte operazioni militari e nella loro classificazione come enemy combatant.[19] Questo atteggiamento della Corte porta direttamente ad alcune considerazioni sul secondo aspetto del problema, quello della natura che sta assumendo il potere esecutivo americano.
Se è vero, come sembrano confermare i fatti, che l’involuzione del sistema federale americano nel corso dell’ultimo secolo è avvenuta a seguito del crescente coinvolgimento degli USA nella politica internazionale, si può senz’altro escludere che l’azione della Corte possa avere, da sola, un effetto taumaturgico sull’effettivo riequilibrio dei poteri in seno agli USA. Dalla fine della seconda guerra mondiale gli Stati Uniti sono passati da una quarantennale guerra fredda — in alcuni casi anche guerreggiata (in Corea e Vietnam) — con l’URSS, alla prima guerra nel Golfo alla vigilia del crollo dell’URSS e agli interventi nell’ex-Jugoslavia e in Somalia dopo il 1991, per giungere poi alla guerra in Afghanistan, alla seconda guerra nel Golfo e alla guerra in Iraq. Non c’è dunque da meravigliarsi che un simile stato di emergenza quasi permanente abbia avuto dei riflessi sulle istituzioni americane. In particolare esso ha avuto come conseguenza un sensibile aumento del potere del Presidente degli Stati Uniti a discapito di quelli del Congresso e della stessa Corte Suprema.[20] Uno squilibrio che Arthur Schlesinger non ha esitato a definire di tipo imperiale.[21] Purtroppo la formula di Schlesinger, utile per mettere in luce la deriva in atto nel sistema di potere americano, alimenta delle illusioni quando suggerisce la possibilità di invertire a breve questa tendenza attraverso la sola forza di autocorrezione insita nel sistema americano di fronte agli errori: secondo Schlesinger questa autocorrezione potrebbe trarre spunto proprio dal riconoscimento della sconfitta americana in Iraq. Questo modo di pensare tende però a sopravvalutare l’importanza delle dinamiche interne rispetto alla logica, messa in evidenza da Hamilton, dei rapporti internazionali. A questo proposito basta ricordare la differenza tra il ruolo che hanno avuto i Presidenti americani prima e dopo la seconda guerra mondiale. Come ammette apertamente Schlesinger, i Presidenti Washington, Lincoln, Wilson e Roosevelt, per citare alcune tra le figure più rilevanti della storia americana, hanno spesso usurpato il potere nel gestire la politica estera, forzando certe decisioni del Congresso, pilotando l’opinione pubblica attraverso l’uso di informazioni accessibili solo a loro, limitando alcune libertà ecc. Ma questi Presidenti hanno sempre dovuto restituire il potere usurpato in stato di emergenza al legittimo titolare, al popolo americano. Essi hanno cioè agito nel rispetto della dottrina rooseveltiana secondo cui «una volta vinta la guerra, i poteri del Presidente devono tornare automaticamente al popolo, cioè a chi essi in ultima istanza appartengono». Orbene, dalla fine della seconda guerra mondiale questo circolo virtuoso si è interrotto e il potere non è mai più tornato interamente al popolo, in quanto, come spiega sempre Schlesinger, «l’affermazione di poteri impliciti… crea dei precedenti per il futuro».[22] In questo senso la seconda guerra mondiale ha rappresentato uno spartiacque per le capacità e possibilità del sistema federale americano di controllare e limitare i poteri presidenziali: sono stati gli inherent powers accettati e condivisi dalla maggioranza del popolo americano, e legittimati dalle sue istituzioni per far fronte ad un’emergenza diventata norma, ad aver trasformato i Presidenti in Imperial Presidents. A questo punto l’azione di controllo della Corte sulla legalità dell’azione dell’esecutivo resta quanto mai necessaria ed importante, non fosse che per incoraggiare e coltivare la sopravvivenza, almeno in una parte della società americana, di quelle energie morali che si rifiutano di accettare la continua erosione dei valori su cui si fonda lo Stato federale e lo Stato di diritto in Nord America. Ma essa non può essere sufficiente a smantellare la logica imperiale che si è impossessata del sistema americano.
Se questa logica è soprattutto il riflesso del grado di squilibrio di potere esistente nel mondo, e non tanto dello sconsiderato esercizio del potere di questo o quel Presidente americano, bisognerebbe prendere atto, come europei, della grave responsabilità che hanno i nostri paesi per aver contribuito a gettare il mondo nel caos con due guerre mondiali, e per non essere capaci di contribuire ad instaurare un ordine multipolare più equilibrato e sicuro. Solo in un simile contesto anche gli Stati Uniti, finalmente più sicuri e meno coinvolti sul piano internazionale, potrebbero risanare le loro istituzioni. E’ scandaloso che, a partire dai paesi che hanno dato vita al processo di integrazione europea, stenti ad emergere una simile consapevolezza e a manifestarsi un conseguente atto di volontà per creare un polo europeo.[23]
 
Franco Spoltore


[1] Patriot è l’acronimo di Provide Appropriate Tools Required to Intercept and Obstruct Terrorism. Il Patriot Act è stato approvato dal Congresso e dal Senato all’indomani dell’attentato dell’11 settembre 2001.
[2] A titolo d’esempio si può citare l’azione condotta dalla American Civil Liberties Union contro il potere al di fuori di ogni controllo esercitato dall’FBI per raccogliere informazioni su privati cittadini anche sfruttando la consultazione, per esempio, degli archivi degli utenti Internet di Amazon e eBay. In effetti il Patriot Act non fa che estendere dei poteri di indagine dell’FBI che, almeno dalla metà degli anni Ottanta, sono stati riconosciuti all’ente federale per perseguire sospetti terroristi e spie. Nel 1993 il Congresso aveva ulteriormente ampliato questi poteri, consentendo all’FBI di acquisire in via segreta informazioni anche di individui solo sospettati di essere entrati in contatto con spie e terroristi.
[3] Il privilegio dell’habeas corpus, ossia il diritto di ogni individuo a non essere ingiustamente imprigionato, trae origine dalla rivoluzione inglese del XVII secolo, allorché venne messo in discussione il potere di sospendere le leggi, o l’esecuzione delle leggi, per autorità regia, o dei suoi emissari, senza il consenso del Parlamento. Questo privilegio, introdotto dal Parlamento inglese con l’Habeas Corpus Act e sancito con il Bill of Rights, venne successivamente introdotto nella Costituzione degli Stati Uniti attraverso il quarto ed il sesto emendamento.
[4] La classificazione da parte del governo americano dei prigionieri della guerra contro il terrorismo come enemy combatants è stato un escamotage del governo americano per sottrarre per anni alle Corti il potere di effettuare davvero i processi nei confronti delle centinaia di prigionieri detenuti a Guantanamo. Dopo la sentenza della Corte Suprema, come informa l’articolo «After Terror, a Secret Rewriting of Military Law», nel New York Times del 24 ottobre 2004, il Pentagono ha cercato semplicemente di disfarsi della maggior parte di queste persone e, per un numero più ristretto, di avviare lunghe pratiche di formalizzazione dei capi di imputazione.
[5] Quattro Stati e oltre trecento fra città e contee hanno finora approvato risoluzioni e presentato petizioni contro il Patriot Act. Recentemente la Corte d’Appello dell’undicesimo distretto ha dichiarato illegittime le misure di controllo nei confronti dei partecipanti a manifestazioni di protesta contro il governo. «Non possiamo semplicemente sospendere o limitare le libertà civili finché la guerra contro il terrorismo non sarà finita, perché è improbabile che una simile guerra possa mai considerarsi conclusa», ha scritto nella sentenza il Giudice Gerald Tjoflat, precisando che «l’11 settembre 2001 è stato un giorno tremendamente tragico e non può diventare anche il giorno in cui la libertà è stata bandita da questo paese». Si veda in proposito l’articolo «Screening of Protesters Unconstitutional, Court Rules», in The Washington Post, 17 ottobre 2004.
[6] Proprio perché ben consapevoli dei rischi e delle tensioni cui va incontro uno Stato che cade preda di pericoli interni e di minacce esterne, i padri fondatori, anche sulla base delle esperienze ancora vicine della guerra d’Indipendenza e delle ribellioni che erano scoppiate in vari Stati, avevano specificato nella Costituzione che «il privilegio dell’habeas corpus non sarà sospeso se non quando, in caso di ribellione o di invasione, lo esiga la sicurezza pubblica» (Art. 1, Sez. 9).
[7] A. Hamilton, J. Madison, J. Jay, Il Federalista, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 178. Citato nei pareri della sentenza Hamdi et Al. V. Rumsfeld, Secretary of Defense.
[8] Si legga in proposito la sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti, Hamdi et Al. V. Rumsfeld, Secretary of Defense, 28 giugno 2004. Un’altra sentenza, quella riguardante il caso Padilla, si è occupata della detenzione di un cittadino americano convertito all’Islam. Ma a questo proposito la Corte ha ritenuto di non potersi pronunciare sul privilegio dell’habeas corpus in quanto ha ritenuto che Padilla avesse rivolto l’istanza contro il soggetto sbagliato. Anche se questa sentenza ha sollevato diverse critiche fra coloro i quali ritengono che la Corte Suprema abbia, con la sua decisione, riconosciuto troppo margine discrezionale al governo nel trasferire i prigionieri di guerra nei distretti giudiziari considerati più favorevoli ad accogliere il punto di vista governativo, essa non viene in questa nota presa in considerazione, in quanto non aggiunge particolari chiarimenti rispetto ai temi trattati. Per ulteriori approfondimenti si rimanda alla sentenza della Corte Suprema, Rumsfeld Secretary of State v. Padilla, 28 giugno 2004.
[9] Si legga in proposito la sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti, Rasul et Al. V. Bush, President of the United States, 28 giugno 2004. Vale la pena citare l’opinione dissenziente minoritaria, ma sottoscritta dal Presidente della Corte Suprema, oltre che dai giudici Scalia e Thomas, che pone il problema, non trascurabile, di considerare i riflessi di questa sentenza su tutti i casi che potrebbero essere sottoposti alla Corte da tutte le parti del mondo in cui sono presenti o operano soldati americani. Estendendo il privilegio dell’habeas corpus a tutti gli individui, la Corte verrebbe infatti ad operare come surrogato di una Corte internazionale sotto sovranità americana: «Oggi la Corte ha stabilito che il privilegio dell’habeas si estende a tutti gli stranieri detenuti dall’esercito americano nel mondo, al di fuori dei confini degli Stati Uniti e della sua sovranità e giurisdizione territoriale dei suoi tribunali. Questo non solo costituisce una novità, ma contraddice una precedente sentenza di oltre mezzo secolo fa, sulla quale indubbiamente si era basata finora l’azione militare del nostro paese, Johnson v. Eisentrager, (1950)… Questo atto costituisce un irresponsabile stravolgimento della legge in un campo di estrema importanza per l’operatività delle nostre forze militari. Preferirei che fosse il Congresso a stabilire un simile cambiamento dell’interpretazione della garanzia dell’habeas e per questo dissento dalla sentenza della Corte».
[10] Nel caso Ex parte Quirin (1942), e In re Yamashita (1946), la Corte Suprema riconobbe il potere delle Corti federali di rivedere l’applicazione del diritto dell’habeas corpus nei confronti di nemici, anche stranieri, detenuti negli USA o in possedimenti insulari. Ma nel caso della detenzione di prigionieri di guerra tedeschi — Eisentrager (1950) —, la Corte aveva stabilito che «gli stranieri detenuti al di fuori del territorio su cui si esercita la sovranità degli Stati Uniti, non possono reclamare il diritto all’habeas corpus». Ed è su questa sentenza che l’esecutivo aveva basato la difesa del proprio operato nei confronti di prigionieri di guerra americani detenuti all’estero.
[11] La Corte Suprema cita il giudizio espresso da Lord Mansfield addirittura nel 1759. In altre sentenze la Corte aveva sottolineato come la validità del privilegio dell’habeas corpus si basasse «non su nozioni formali di sovranità, ma piuttosto sulla questione pratica dell’esatta estensione e natura della giurisdizione o dominio esercitato nei fatti dalla Corona», Ex parte Mwenya, (1960).
[12] Dal nome del funzionario federale trattenuto dallo Stato della California in violazione dell’habeas corpus. Si veda in proposito, di Fareed Zakaria, From Wealth to Power. The Unusual Origins of America’s World Role, Princeton, Princeton University Press, 1998, p. 137.
[13] «Il Congresso sta velocemente diventando l’organo di governo dello Stato, e tuttavia il solo potere che detiene pienamente resta quello legislativo», Woodrow Wilson, Congressional Government (1885).
[14] Sul fatto che le Corti, in situazioni di emergenza, sono propense ad accettare il punto di vista del governo, si veda l’opinione espressa appena un anno prima dell’attentato alle Torri Gemelle dal Presidente della Corte Suprema William H. Rehnquist. In guerra «la legge è muta» aveva osservato Rehnquist, osservando che «è troppo facile scivolare da un caso di effettiva necessità militare… ad uno in cui la minaccia non è critica e in cui il potere rischia di essere esercitato in modo dubbio e fallace», e che pertanto fosse «desiderabile e auspicabile che venisse prestata una maggiore attenzione da parte delle Corti… nel valutare le richieste dell’esecutivo di limitare le libertà civili in nome di un presunto stato di necessità». Il Presidente della Corte Suprema William H. Rehnquist, Remarks at the 100th Anniversary Celebration of the Norfolk and Portsmouth Bar Association, 3 maggio 2000 (trascrizione disponibile presso www.supremecourtus .gov/publicinfo/speeches/sp_0503-00.html).
[15] Sulla degenerazione del potere nello Stato per effetto dell’influenza degli equilibri internazionali, si rimanda a Gerhard Ritter, Il volto demoniaco del potere, Bologna, Il Mulino, 1971.
[16] «Il modello della guerra non è completamente appropriato… Si entra in guerra in una certa data, come l’8 dicembre 1941, e se ne esce a partire da un’altra data, come il 14 agosto 1945. Combattiamo guerre convenzionali contro Stati che hanno confini, e che hanno rappresentanti con i quali possiamo negoziare tregue e rese, non contro organizzazioni dalla struttura indefinita, senza eserciti riconoscibili. Possiamo conquistare Kabul e Baghdad, ma non esiste alcun luogo chiamato Terrore in cui vivono i terroristi» (Ronald Dworkin, «Terror and the Attack on Civil Liberties», in The New York Review of Books, 6 novembre 2003). E’ del resto ormai impossibile per l’America, come per qualunque altro Stato, chiudersi in uno splendido isolamento. Come ha osservato Michael Ignatieff, «ci sono voluti tre anni prima di avviare un primo serio e pubblico dibattito su come garantire le libertà civili in uno stato di guerra contro il terrorismo. Questo è avvenuto solo in seguito alla pubblicazione del rapporto della Commissione sui fatti dell’11 settembre e delle sentenze della Corte Suprema. Ma non abbiamo ancora cercato di rispondere alla domanda più difficile: potremmo perdere la guerra contro il terrorismo? Consideriamo le conseguenze che avrebbe un secondo attacco nel cuore degli Stati Uniti… Dopo un simile ulteriore attacco è facile immaginare che, la nostra società sarebbe attanagliata a lungo da un senso di pena, tristezza e rabbia. Ora, un attacco simile è nel regno del possibile» (New York Times Magazine del 2 maggio 2004.) A conferma delle preoccupazioni di Ignatieff, il rapporto predisposto da una commissione bipartisan, costituita da personalità politiche, accademici e da vari centri studi riuniti dal Center for Global Development, ha classificato almeno sessanta paesi nel mondo in cui la debolezza delle istituzioni statali rende possibile e probabile la nascita di altrettanti focolai di tensione e di minaccia per la sicurezza americana. Si veda in proposito On the Brink: Weak States and US National Security, Center for Global Development, maggio 2004.
[17] Si veda in proposito Ronald Dworkin, «What the Court Really Said», in The New York Review of Books, 12 agosto 2004.
[18] Ibidem.
[19] Ibidem. Se i prigionieri fatti nel corso della guerra contro il terrorismo fossero classificati come prigionieri di guerra, avrebbero un diverso trattamento giudiziario e avrebbero maggiori possibilità di ricorrere alla Corte Suprema. Nel caso del prigioniero Salim Ahmed Hamdan, che è sospettato di essere stato uno degli autisti di Osama bin Laden, la Corte del distretto di Washington ha contestato la legittimità della discrezionalità del governo nel classificare i prigionieri, ma il governo ha fatto appello contro questa sentenza e la disputa, al momento in cui questa nota viene scritta, non è ancora risolta.
[20] Sulle ambiguità dell’esercizio della legge in America nel corso della guerra contro il terrorismo si rimanda all’articolo del New York Times già citato in nota 4.
[21] Arthur M. Schlesinger, War and the American Presidency, Norton, 2004, commentato da James Chace, «Empire, Anyone?», in The New York Review of Books, 7 ottobre 2004.
[22] Ibidem.
[23] La presa di coscienza di questo stato di cose, in parte riscontrabile per esempio in alcuni commenti di osservatori cinesi, stenta a tradursi in analisi coerenti e atti concreti in Europa. Si veda in proposito l’articolo di Wang Jisi, direttore dell’Istituto di studi americani presso l’Accademia delle scienze sociali cinese, oltre che direttore dell’Istituto di studi strategici internazionali alla scuola centrale del Partito comunista cinese, «Le duel Bush-Kerry vu de Pékin», in Le Monde, 4 ottobre 2004, in cui Jisi afferma tra l’altro: «L’assenza di differenze significative nei programmi di politica estera dei democratici e dei repubblicani non lascia prevedere dei riaggiustamenti importanti nei comportamenti dell’America a livello internazionale nei prossimi anni. Quello che alcuni considerano come un orientamento inquietante e addirittura pericoloso della politica estera americana è ormai profondamente radicato negli squilibri all’interno degli stessi Stati Uniti e nel mondo (corsivo mio)». Sul continente europeo, solo in Francia si sta sviluppando un dibattito degno di questo nome su queste problematiche. Come ha notato Pierre Lellouche, deputato UMP, «molti europei non comprendono questo neonazionalismo americano semplicemente perché il nazionalismo e il desiderio di potenza sono da tempo spariti dall’Europa nel corso del lungo processo di costruzione europea. Allora preferiamo applicare altre griglie di lettura all’atteggiamento americano, e attribuirlo ad un imperialismo scatenato dal desiderio di mantenere il controllo sul petrolio, al prevalere in America di uno zelo religioso cristiano fondamentalista, o ancora all’ideologia neoconservatrice o ad una miscela di queste componenti… Se l’Europa è favorevole all’80% a Kerry, è perché essa non si rende conto che la politica estera americana resterà comunque nazionalista e non cambierà affatto — salvo forse nello stile» (Pierre Lellouche, «Une Amérique nationaliste», in Le Figaro, 9 ottobre 2004). Come gli europei potrebbero contribuire a neutralizzare il nazionalismo americano, Lellouche non lo dice. Nello schieramento socialista francese merita di essere citata, perché è rappresentativa del modo di pensare dominante, sostanzialmente rinunciatario, delle classi politiche e delle opinioni pubbliche nazionali in Europa, una risposta che Michel Rocard ha fornito ad un collegamento chat diffuso da Le Monde via Internet il 12 ottobre, in cui alla domanda «Come vedete l’Europa fra cinquant’anni?», così ha risposto: «Come lo sviluppo di ciò che è già, cioè non un’area che avrà e farà una politica estera, ma che si reggerà attraverso il diritto e che avrà saputo costruire il miglior blocco giuridico di difesa dei diritti umani esistente al mondo, e che avrà un modello d’organizzazione economica di libera impresa, di mercato e di competizione capace di chiudersi ai monopoli e di preservare importanti settori dei servizi pubblici e della protezione sociale. L’Europa sarà un modello di organizzazione sociale che il mondo intero ci invidierà e che non dovrà necessariamente essere limitato alle attuali frontiere».

 

 

 

il federalista logo trasparente

The Federalist / Le Fédéraliste / Il Federalista
Via Villa Glori, 8
I-27100 Pavia