IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XLV, 2003, Numero 3, Pagina 165

 

 

STRATEGIA COSTITUENTE E
GRADUALISMO COSTITUZIONALE
 
 
Chiunque affronti una battaglia politica per introdurre cambiamenti, difendere o affermare valori, dare risposte evolutive alle esigenze e ai bisogni che emergono nella società, non può esimersi dal riflettere profondamente sulla linea teorica, la linea politica e la strategia. Tale riflessione deve essere tanto più attenta e meditata se la battaglia politica va al di là di un quadro consolidato di potere e mira a mettere in questione una «cultura politica» che ha tradizioni secolari. E’ questo il caso dei federalisti, il cui scopo è il superamento dello Stato nazionale e l’allargamento della sfera della statualità, da una parte, e, dall’altra, l’affermazione della cultura politica dell’unità del genere umano.
Dei tre elementi della lotta politica dei federalisti la strategia è quello più concreto, e nello stesso tempo meno stabile. Essa non può essere formulata una volta per tutte, ma, nelle sue linee fondamentali, è strettamente legata all’accertamento dei dati della realtà, ossia del momento storico-politico e delle potenzialità da sfruttare per mobilitare le forze in campo. A partire da ciò, la linea strategica identifica i mezzi e il modo in cui ci si può confrontare col potere nazionale da superare per creare il nuovo potere sovranazionale.
L’esame delle due linee strategiche che sono state sul campo dalla nascita del Movimento federalista europeo permette di esemplificare e di chiarire questi concetti e può darci qualche indicazione utile per affrontare l’attuale momento del processo di unificazione europea.
 
La strategia costituente.
 
E’ stata definita strategia costituente quella che pone l’obiettivo della federazione come obiettivo diretto e immediato. La prima azione che rispecchia questa strategia è stata quella condotta dal MFE alla fine degli anni ‘40, attraverso una «Petizione per un Patto di unione federale», campagna che ha coinvolto la classe politica italiana ai massimi livelli e che si è chiusa con la firma della Petizione, al Teatro Sistina di Roma, da parte del Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi e del Ministro degli Esteri Carlo Sforza, alla presenza del Presidente della Repubblica Luigi Einaudi.
Essa è stata condotta in una situazione di disfacimento e di grave crisi di potere degli Stati nazionali, sulla cui debolezza si poteva far leva per spingerli a lasciarsi alle spalle una secolare storia di guerre e di distruzioni per unirsi in una federazione. E, oltre a ciò, gli Stati Uniti giocavano un ruolo propulsivo nella stessa direzione.
Il Patto federale non ha visto la luce, e ciò non ha fatto che accentuare i problemi della gestione del dopoguerra, il principale dei quali era quello della sovranità della Germania, e in particolare dell’esercito tedesco. Il progetto della Comunità europea di difesa (CED) fu la risposta dei governi e la battaglia per la Comunità politica europea fu la reazione dei federalisti.
La caduta della CED spinse questi ultimi a ripensare alla loro strategia e alloro ruolo. Venne meno la speranza che la pur debole linea federalista che era stata presente nelle forze politiche nazionali avrebbe avuto esiti positivi e che bastasse fiancheggiare l’opera dei governi, incoraggiandone le iniziative affinché, di fronte alla situazione eccezionale del dopoguerra, approdassero al Patto federale.
Con la ratifica dell’UEO e il ritorno della Germania alla sovranità era ormai chiaro che la ricostruzione dell’Europa stava procedendo in termini nazionali e sulla base del mantenimento della sovranità assoluta degli Stati: i federalisti si assunsero il compito di creare le condizioni per forzare i governi nazionali a rinunciare alla sovranità attraverso la rivendicazione popolare di una Assemblea costituente, la cui convocazione avrebbe potuto avvenire solo con la creazione di una forza politica sovranazionale che lo volesse fermamente e fosse abbastanza forte per imporla ai governi nazionali. Questa forza politica sarebbe stato il Congresso del popolo europeo (CPE), attraverso il quale far crescere la volontà popolare europea fino a raggiungere la vittoria, strappando agli Stati la concessione della Costituente.
«Non si tratta di un programma massimalistico », scriveva Albertini in un articolo sul significato del Congresso di Parigi dell’Unione europea dei federalisti del gennaio 1955, che lanciò l’idea del CPE.[1] «Si tratta di portare la battaglia su un terreno dove si possa vincere. Lo stesso Schuman, che fece al Congresso un coraggioso discorso d’apertura, disse che la azione europea non dovrà basarsi sui parlamenti nazionali, ma sui due termini opinione pubblica-governi. Nei parlamenti nazionali si cristallizzano le situazioni nazionali. Nei governi anche più. Ma è da essi che l’opinione pubblica deve ottenere il primo passo, perché essi hanno il potere dell’iniziativa».
E’ sulla base di queste considerazioni che i federalisti hanno apprestato gli strumenti del confronto coi poteri nazionali attraverso l’elaborazione (da parte di una Commissione ad hoc eletta dal CPE a Torino nel dicembre 1958) di un progetto di Trattato (il Patto federale) per la creazione degli Stati Uniti d’Europa e per la convocazione di una Costituente europea, e attraverso una Campagna per l’approvazione del Trattato. «Il voto del CPE — si legge in uno degli articoli a firma Publius scritti nel ‘58 per Popolo europeo per illustrare il significato e i fini della campagna[2] — non crea un potere parlamentare, ma vale piuttosto come una protesta, una rivendicazione del diritto elettorale europeo… Il significato politico generale di questo piano di lavoro a lunga scadenza è in sostanza il seguente: tendere verso l’egemonia dell’europeismo diffuso. Oggi l’europeismo è politicamente una forza zero… Ma con le elezioni primarie si può rovesciare questa situazione… Come oggi chi ha reazioni liberali, socialiste, sindacali e via dicendo le riferisce immediatamente al tal partito o sindacato, così domani chi avrà reazioni europee le riferirà al CPE e non più agli ‘europeisti’ dei partiti nazionali. Quando ciò sarà fatto, l’europeismo sarà una forza politica. Si tratterà allora di usare bene questa forza, e di impiegarla decisamente quando giungeranno situazioni di crisi di potere. In queste situazioni le scelte diventano forti, le masse si destano dal loro torpore abituale ed acquistano il potere di scegliere. Allora il CPE potrà dare la battaglia decisiva».
Non bisogna dunque confondere la strategia costituente con quello che viene spesso definito «metodo costituente», ossia l’assegnazione di un presunto ruolo autonomo ad assemblee di rappresentanti del popolo europeo che sarebbero in grado, se lo vogliono, di prendersi il potere e di fare l’Europa attraverso l’elaborazione di una costituzione. Una tale ipotesi è un errore strategico, oltre che teorico, perché a) non tiene conto del fatto che la rinuncia al potere può essere fatta solo da chi ne è il detentore, b) il ruolo del popolo europeo, quando è in formazione, si manifesta nel forzare i governi a decidere la creazione della Federazione, c) la sovranità del popolo europeo può manifestarsi nella misura in cui esso diventa tale, in concomitanza con la formazione della nuova comunità politica di cui esso diventa parte fondante, d) scrivere una costituzione non significa fare uno Stato (come dimostrano i progetti elaborati dal Parlamento europeo in passato e dalla Convenzione europea convocata dal Vertice di Laeken), e, anche nel caso in cui essa prevedesse istituzioni federali, vale l’enunciazione del punto a).
Il percorso intrapreso dai federalisti con il CPE, di opposizione al sistema degli Stati nazionali, si confermò corretto anche negli anni successivi. Quando i governi si avviarono sulla via della semplice integrazione economica con la creazione del Mercato comune, la strategia non poté che basarsi sulla denuncia dell’imperante illusione funzionalista indicando l’alternativa radicale della federazione.
L’atteggiamento dei federalisti nei confronti delle Comunità europee fu dunque di forte contestazione, contrapposta all’emergente speranza in una spontanea evoluzione in senso federale di quelle che furono da essi definite «pseudocomunità». «Evoluzione, scriveva Albertini,[3] significa passaggio (graduale) da uno status X ad uno status Y. Orbene, non si può parlare direttamente di passaggio (graduale) del potere di tali pseudocomunità da uno status nazionale (confederale) ad uno status europeo (federale) per il semplice fatto che tali pseudocomunità non hanno potere, e quindi non possono passare dall’averne uno all’averne un altro; e non se ne può parlare nemmeno indirettamente perché esse sono subordinate al potere e non lo subordinano, quindi non possono farlo procedere da uno status nazionale ad uno status europeo. In qualunque modo mutino, le pseudocomunità restano sempre nel campo nazionale. Rispetto a quello europeo esse sono, per così dire, asintotiche: si può pensare che lo avvicinino sempre, non si può pensare che possano raggiungerlo…
Chi voglia raggiungere la federazione non potrà essere, pertanto, favorevole alle pseudocomunità. Dovrà essere, allora, indifferente o ostile? Il mio parere è che debba essere ostile. Mi limiterò ad illustrare un punto: per unire l’Europa ci vuole un trasferimento di sovranità dagli Stati alla federazione, il che si può ottenere soltanto se un numero sufficiente di individui, schierati in campo europeo, si indirizzano contro i poteri nazionali per distruggerli (in buona parte) mentre fondano, in tale campo europeo, un potere politico (costituente). Si tratta di una lotta rivoluzionaria molto difficile… che richiede una forza di ragione non comune. In ogni modo questa lotta non è nemmeno concepibile se si pensano le pseudocomunità come qualche cosa di intermedio, che sta evolvendo dal nazionale all’europeo. Nessuno infatti sceglie un mezzo costoso, difficile ed incerto se pensa che ce ne sia uno a buon mercato, facile e certo. Per questa ragione chi vuole unire l’Europa deve mostrare che le pseudo comunità non sono un mezzo adatto per fare l’Europa, cioè combatterle».
Tale diagnosi politico-strategica poneva i federalisti di fronte ad una difficile scelta, una scelta controcorrente, fino al rischio dell’isolamento. Essi dovettero affrontare un vero e proprio dilemma: da una parte c’era la necessità di portare a consapevolezza e di organizzare l’europeismo diffuso, cioè il sentimento pro-europeo dei cittadini, e, dall’altra, quella di denunciare la politica europeista dei governi, che di fatto procrastinava il raggiungimento dell’obiettivo federale, ma entro il cui alveo veniva incanalato quell’europeismo diffuso su cui si doveva far leva. «…I federalisti, scriveva Albertini, devono fare i conti più con l’europeismo (sostegno delle Comunità) che con il nazionalismo (attaccamento alla sovranità nazionale)… Per concentrare un numero sufficiente di individui sul fronte decisivo i federalisti devono infatti superare l’ostacolo dell’europeismo, che tende ad indirizzare gli stessi individui sul binario morto delle pseudocomunità; e non quello del nazionalismo, che non ha influenza sugli individui in questione. A prima vista pare che ciò significhi che i federalisti dovrebbero combattere coloro che vogliono l’Europa, sia pure tiepidamente, e lasciar stare coloro che l’osteggiano… Il fatto è che gli europeisti non vogliono l’Europa ma il mantenimento degli Stati; ed il fatto è che le pseudocomunità sono… l’espressione di una politica nazionale, quella appunto degli europeisti. Questa politica europeistica è a) più efficace di quella nazionalistica per difendere gli Stati, che si mantengono meglio con la collaborazione che con l’isolamento, b) compatibile con un grado di nazionalismo soddisfacente per il personale politico normale, che, data la forza reale degli Stati, deve accontentarsi di poco. In sostanza anche l’europeismo è un nazionalismo… è il volto più pericoloso delle nazioni».
Tale rigorosa scelta di campo non è stata senza conseguenze per il MFE. Essa ha prodotto lacerazioni e divisioni, ma è stata anche la scelta che ha permesso al Movimento di uscire dalla grave crisi che seguì la caduta della CED senza scivolare nella trappola funzionalista. Attraverso il CPE e la campagna successiva, il Censimento volontario del popolo federale europeo, si forgiarono le nuove forze militanti di un Movimento autonomo, in grado di stare sul campo fino ai nostri giorni.
Naturalmente l’identificazione dell’avversario strategico (l’europeismo) non metteva in alcun modo in ombra il nemico politico dei federalisti, lo Stato nazionale, l’opposizione al quale è stata definita «opposizione di comunità», una formula che mette in evidenza sia il rifiuto di considerare le comunità politiche nazionali come organiche e permanenti, che la lotta politica per sostituire ad esse una nuova comunità politica, un nuovo Stato, la Federazione europea.
Vedremo più oltre come molte delle problematiche di questa fase strategica sono di grande attualità nella fase attuale, che, dopo un lungo percorso di quasi 40 anni basato su una logica strategica diversa, il gradualismo costituzionale, pone i federalisti di fronte alla necessità di una nuova svolta.
 
Il gradualismo costituzionale.
 
La logica stringente su cui si basa la strategia costituente, cioè la considerazione che il potere non si può trasferire per gradi dalle nazioni all’Europa, è valida in sé e per sé, ed è quindi valida sempre, fa parte degli aspetti strutturali su cui si deve fondare l’analisi dei processi di unificazione democratica di Stati. Ma calata nel discorso strategico, essa deve tener conto delle situazioni concrete che ne condizionano non tanto la validità quanto le modalità di applicazione. Così, nelle situazioni concrete che sono state prima esaminate, l’applicazione di questa logica stringente non è stata soggetta a mediazioni: c’erano le condizioni per condurre una battaglia tesa a spingere direttamente gli Stati a fare il salto federale.
Questo salto non c’è stato: gli Stati nazionali hanno continuato sulla via della semplice collaborazione, spinti dal continuo aumento dell’interdipendenza, e hanno sviluppato una politica europea di integrazione economica che ha loro permesso di rafforzarsi e di ottenere dei successi presentati dai governi e percepiti sempre più dai cittadini come un percorso di avvicinamento all’unità dell’Europa.
Per i federalisti si trattava di cercare una nuova via a partire dalla nuova situazione, ossia dal punto a cui era arrivato il processo di integrazione economica europea. Ciò che era in vista, e poteva essere sfruttato strategicamente, era la ormai prossima fine del periodo transitorio del Mercato comune (dopo la creazione dell’unione doganale e dell’unione agricola). Giunti a questo punto gli Stati si sarebbero trovati di fronte a un crocevia: a) per continuare a sfruttare i vantaggi dell’integrazione economica dovevano porsi il problema dell’unione economico-monetaria, b) per superare la contraddizione, che i governi per primi quotidianamente sperimentavano, fra dimensione dei problemi da affrontare e dimensione dei centri di decisione, dovevano affrontare il problema delle istituzioni e del loro controllo democratico. Questi due fronti, insieme, sarebbero diventati per i federalisti la piattaforma del rilancio europeo sulla base di una nuova linea strategica: il gradualismo costituzionale.
E’ evidente che lo Stato europeo rimaneva l’obiettivo dei federalisti, ma l’unica via strategica praticabile, in una situazione di relativo rafforzamento degli Stati, era lo sfruttamento della politica europea dei governi, perseguendo obiettivi strategici graduali — che non implicavano un trasferimento immediato della sovranità — come espediente per spingere la classe politica su un «piano inclinato»[4] dalle nazioni all’Europa. E ciò era possibile se si identificava un «punto scivoloso», cioè un problema (e l’obiettivo strategico) che potesse condurre alla decisione relativa al trasferimento del potere. Bisognava cioè trovare una contraddizione cogente nei fatti dell’integrazione, potenzialmente riconoscibile o riconosciuta come tale anche dai governi e dalle classi politiche, per creare la contraddizione fra la risposta parziale (l’obiettivo strategico graduale di carattere costituzionale) e la necessità dell’unione federale.
Come aveva teorizzato Jean Monnet nel suo Memorandum del 1950, si trattava di avviare una «azione concreta e risoluta su un punto limitato ma decisivo, che provochi un cambiamento fondamentale su questo punto e modifichi progressivamente i termini stessi dell’insieme dei problemi».[5]
A partire dalla seconda metà degli anni ‘60 i federalisti hanno dunque identificato due «punti scivolosi» nell’esigenza di democratizzare le istituzioni della Comunità dando vita a un primo centro di azione politica europea (obiettivo strategico: elezione diretta del Parlamento europeo) e in quella di un avanzamento dell’integrazione economico-monetaria (obiettivo strategico: moneta unica).
E’ su questi due fronti che si sono battuti per creare le contraddizioni che avrebbero dovuto spingere i governi verso la decisione di creare la Federazione, consapevoli che ciò era una scommessa, non una certezza, che non si sarebbe messo in movimento un meccanismo di causa-effetto, ma che si sarebbe aperta una possibilità.
La via imboccata era decisamente nuova rispetto a quella della precedente fase strategica: la creazione immediata dello Stato federale europeo diventava costruzione di esso attraverso un processo. Le tappe di questo processo furono indicate come elementi costitutivi di uno Stato in costruzione, come obiettivi strategici graduali la cui realizzazione apriva la possibilità della rottura col vecchio ordine e della creazione del nuovo, un vero Stato federale. Si trattava, come lo ha definito Albertini,[6] del paradosso di «fare uno Stato per fare lo Stato», cioè di pensare al gradualismo costituzionale (costruzione graduale dello Stato) in termini di gradualismo politico-istituzionale (creazione di istituzioni imperfette sul cui carattere contraddittorio fare leva per creare lo Stato).
La consapevolezza del fatto che tale costruzione graduale era un espediente, una specie di trappola per portare gli Stati verso il salto federale, andava di pari passo con la coscienza che la possibilità di tale salto trovava, e trova tuttora, il suo limite nel fatto che i governi tendono a gestire l’esistente e a sfruttare tutte le opportunità della collaborazione al fine del mantenimento del loro potere, e che solo in presenza di una situazione di fatto dirompente (una grave crisi endogena o esogena), è possibile che emerga una leadership europea di carattere occasionale che giunga a manifestare la volontà di trasferire la sovranità e trascini con sé anche gli altri.
Una volta imboccata questa via, i federalisti hanno dovuto calibrare il loro atteggiamento nei confronti dei poteri nazionali. Se nella fase della strategia costituente che seguì la caduta della CED era posto un forte accento sull’opposizione di comunità e l’europeismo dei governi e della classe politica era considerato un ostacolo, nella nuova fase strategica, per sfruttare la politica europea dei governi, la tattica doveva prevedere tre momenti: 1) dopo aver individuato l’obiettivo strategico si doveva intraprendere un percorso di «accompagnamento» della classe politica nazionale ed europea verso l’obiettivo stesso, in cui non mancava la fermezza nell’indicare le implicazioni di tipo costituzionale nel perseguire l’obiettivo graduale (il diritto di voto a livello europeo e la moneta implicano un governo perché non ha significato un parlamento eletto democraticamente ma privo di poteri e senza la possibilità di controllare un esecutivo, così come è necessario un potere statuale per governare la moneta); tuttavia, si trattava non tanto di denunciare quanto di collaborare con coloro i quali, non ancora disposti a cedere la sovranità, erano però disposti a fare un passo che li avrebbe portati su un crinale dal quale sarebbe stato più facile spingerli verso il salto federale; 2) una volta raggiunto l’obiettivo strategico graduale, si trattava di sfruttare il successo ottenuto attraverso la rivendicazione costituente; 3) se l’entrata in campo si fosse risolta con il mantenimento della semplice collaborazione si doveva uscire dal campo per denunciare il compromesso e prepararsi ad una nuova battaglia.
Se correttamente intesa, la strategia del gradualismo costituzionale non può essere confusa con la politica dei piccoli passi, ossia quegli aggiustamenti nelle istituzioni e nelle politiche comunitarie che, in definitiva, non fanno che rendere più agevole la cooperazione intergovernativa laddove ciò è richiesto dall’aumento dell’interdipendenza. Il gradualismo costituzionale implica l’identificazione e il perseguimento di quegli obiettivi che possono innescare un processo costituente, quegli obiettivi la cui realizzazione, come già detto, rende manifesta la contraddizione fra la necessità del potere europeo e la sua mancanza, e mette in gioco la sovranità.
Né questa strategia può essere confusa col funzionalismo, che vede nei progressivi fatti dell’integrazione un percorso che porterà alla federazione in modo quasi spontaneo e non prende in considerazione né gli aspetti di potere né il ruolo della volontà, cioè i due elementi indispensabili per comprendere come un processo di integrazione possa avere come sbocco l’unificazione.
 
Ritorno alla strategia costituente.
 
Il raggiungimento dei due obiettivi che sono stati perseguiti dai federalisti nel corso dei trent’anni di strategia gradualistica non ha avuto come seguito la creazione della Federazione europea. Di fronte a questo processo incompiuto bisogna chiedersi (come ci si è chiesti in passato ad ogni tornante strategico) innanzitutto due cose: 1) qual è l’attuale quadro di potere mondiale; 2) qual è il punto a cui è arrivato il processo di unificazione europea. E’ la risposta a queste due domande che può darci qualche indicazione circa il tipo di strategia da adottare oggi e circa i suoi contenuti concreti.
Ciò che brevemente si può dire del quadro mondiale è che la situazione internazionale è estremamente squilibrata, che questo squilibrio genera disordine e anarchia incontrollabili, che per rendere più equilibrato il «governo del mondo» è necessario che nuovi soggetti politici siano posti sulla bilancia del potere, che l’unico soggetto politico su cui si potrebbe contare oggi (in futuro altri soggetti che sono in via di consolidamento si potranno affermare) sarebbe l’Europa, se fosse uno Stato, che la politica americana nei confronti dell’Europa è decisamente meno favorevole, rispetto al passato, alla nascita di un polo di potere europeo (politica USA del divide et impera nei confronti degli Stati europei). Il quadro mondiale mostra dunque un urgente bisogno di Europa, e indica nella politica americana uno degli ostacoli alla sua unificazione.
Ma i maggiori ostacoli all’unità sono in realtà dentro l’Europa stessa, che ha proceduto all’allargamento senza dotarsi di salde istituzioni politiche democratiche e che vede risorgere il nazionalismo come conseguenza inevitabile della mancanza di una comunità politica statuale in grado di gestire gli interessi comuni.
Il nuovo quadro europeo ci indica che il lento e graduale processo di avvicinamento all’obiettivo federale, considerato dai federalisti come unica via percorribile in una certa fase, non è più praticabile, poiché non sono più pensabili tappe strategiche intermedie di tipo costituzionale da perseguire. La politica estera e la difesa non possono essere considerate tali per il fatto che una vera difesa europea, «unica» e non «comune», implica la cessione immediata della sovranità, e dunque è la premessa (dal punto di vista dell’intenzione) e la conseguenza (dal punto di vista della decisione) della creazione dello Stato federale europeo, cioè il punto di arrivo e non una tappa.[7]
Ma ciò che soprattutto condiziona la possibilità di perseguire l’obiettivo federale, e che di conseguenza condiziona le scelte strategiche, è il fatto che tutto ciò che è stato costruito in un certo quadro, a partire dai Sei fino ai Dodici dell’Unione monetaria, rischia di essere congelato allo stadio confederale, o addirittura distrutto, dall’allargamento dell’Unione a Stati non solo poco interessati, ma spesso del tutto contrari all’unificazione europea. Paradossalmente la salvezza dell’Unione coincide con la sua divisione, ossia con la creazione di un nucleo federale statuale al suo interno come garanzia di coesione contro i pericoli di disgregazione e come motore del suo progressivo ampliamento fino ad abbracciare l’Europa intera.
La creazione di un nucleo federale per superare le resistenze degli Stati decisamente antieuropei, come l’Inghilterra, o le incertezze degli Stati meno responsabili, è una indicazione costante dei federalisti, fin dalle prime battaglie costituenti. Ciò che caratterizza questa indicazione oggi è il fatto che, a differenza che nel passato, i fattori della divisione interni ed esterni all’Europa sono più forti e complessi e che il tempo che viene dato agli europei per evitare il disastro è breve.
Se dunque la via del gradualismo non è più percorribile, e se la diagnosi sui pericoli di disgregazione e sull’urgenza dell’unione è esatta, compito dei federalisti è ritornare ad indicare la scelta radicale, sottraendosi alla tentazione di cercare possibilità evolutive in una situazione non influenzabile. Ciò non è solo la logica conclusione di una analisi politica corretta, ma è anche l’unica via per salvare l’autonomia del MFE, ossia la sua capacità di dissociarsi al momento opportuno da false soluzioni e di indicare l’unica via d’uscita nei momenti di impasse.
Bisogna dunque ritornare alla strategia costituente, ossia alla rivendicazione diretta dello Stato federale, non lasciandosi condizionare dalle sirene dell’europeismo che, prigioniere del processo al cui avanzamento hanno contribuito, ne continuano a vedere il futuro in termini di progressivo avvicinamento all’obiettivo, e non si rendono conto che in realtà questo obiettivo rischia di allontanarsi, fino a scomparire dall’orizzonte.
E bisogna indicare a chi ha potenzialmente la maggiore responsabilità (i governi dei paesi fondatori) ciò che deve essere fatto (un Patto di unione federale irrevocabile e la sanzione democratica attraverso una costituzione elaborata da una Assemblea costituente). E attorno a questi obiettivi bisogna mobilitare i cittadini.
 
Nicoletta Mosconi


[1] Mario Albertini, «Significato del V Congresso internazionale dell’Unione europea dei federalisti», in La Provincia pavese (16 marzo 1955).
[2] Questi scritti del 1957 sono confluiti in «Esame tecnico della lotta per l’Europa» (1959), in Mario Albertini, Una rivoluzione pacifica. Dalle nazioni all’Europa, Bologna, Il Mulino, 1999.
[3] Si tratta della risposta a una lettera di Gianni Merlini pubblicata nella rubrica «Discussioni» de Il Federalista, III (1961), pp. 188 e segg.
[4] Mario Albertini, «Il problema monetario e il problema politico europeo» (1973), in Una rivoluzione pacifica, cit., p. 184.
[5] Cfr. «Il Memorandum Monnet del 3 maggio 1950», in Mario Albertini, Il federalismo, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 273.
[6] Mario Albertini, «Elezione europea, governo europeo e Stato europeo» (1976), in Una rivoluzione pacifica, cit., p. 225.
[7] La strategia del gradualismo serve per «tenere l’unità europea sul campo, ma non per portarla a compimento. In effetti essa è nulla (come si dovette constatare quando si cercò di costruire l’esercito europeo per evitare la rinascita di quello tedesco) quando gli obiettivi europei sono tali da richiedere un trasferimento di poteri sovrani all’Europa». Cfr. Mario Albertini, «Tesi del XIV Congresso nazionale MFE» (1989), in Una rivoluzione pacifica, cit., p. 303.

 

 

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