IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LXIV, 2022, Numero 2-3, Pagina 140

 

 

IL FEDERALISMO MONDIALE
DI FRONTE ALLE SUE ANTINOMIE

 

 

Il dibattito sul federalismo mondiale ha caratterizzato la vita e la vitalità culturale del Movimento federalista europeo in occasione del Congresso di Vicenza e del successivo Ufficio del Dibattito a Genova: ne è importante testimonianza la raccolta di Atti curata da Nicola Vallinoto[1] che conferma la ricchezza del patrimonio culturale interno al Movimento e l’ampia spontanea disponibilità di impegno personale di molti militanti federalisti nella elaborazione di visioni più evolute della cultura federalista. Esso è stato animato da interventi e contributi tutt’altro che monolitici ma suggeritori di antinomie ricorrenti ed importanti per l’elaborazione della cultura federalista.

Anzitutto è proprio la questione metodologica delle antinomie che ha caratterizzato e caratterizza questo dibattito non solo in Italia ma anche in Europa e nel mondo federalista. Il metodo è centrale nella cultura federalista che, attraverso le antinomie, rifiuta e supera i monismi ideologici propri delle culture politiche tradizionali. I termini antinomici infatti non si conciliano più di quanto non facciano i poli opposti di una batteria: i due poli di essa non solo sono individualmente indistruttibili ma sono insieme la causa generatrice della tensione e dell’energia; il problema consiste quindi non nella loro fusione, che sarebbe letale, ma nel loro equilibrio incessantemente variabile. È lo stesso metodo che, passando dall’elaborazione teorica alla prassi politica, consente al federalismo di proporsi come regolatore dei conflitti: un’ampia letteratura filosofica, giuridica e politica mi dispensa dall’approfondire questo fondamentale impianto metodologico.

La prima di queste antinomie ricorrente nel nostro dibattito è stata quella fra “processo” e “progetto”: entrambi tesi a perseguire la pace nel mondo secondo l’ispirazione kantiana. Il processo attraverso il federalismo europeo e mondiale verso il progetto di federazione europea e mondiale. Processo e progetto si fondono asintoticamente, come le celebrate convergenti rette parallele, nella comunità di destino senza confini cioè nell’umanità; che, nel caso della federazione europea, esprime il potere di garanzia della pace.

Le visioni del processo e del progetto si sono sovente intersecate sia per l’incompiutezza della elaborazione teorica sia per l’incrociarsi degli eventi storici che, soprattutto nell’esperienza europea del secondo dopoguerra, hanno reso meno utopico il perseguimento del progetto di federazione nell’ambito del processo federalista: progetto della Federazione europea già in nuce con la creazione della CECA cui oggi si torna a fare riferimento per le necessarie revisioni istituzionali dell’apparato comunitario.

Come ha ben scritto Francesco Rossolillo[2] e come tutti ripetiamo nei nostri dibattiti, la dimensione mondiale del federalismo è la condizione stessa della sua piena realizzazione, sia sotto l’aspetto dei valori che sotto quello istituzionale. Quindi tutti i federalisti, europei e non, sono mondialisti nella prospettiva dell’unificazione federale del genere umano come comunità di destino. Ma l’antinomia del processo e del progetto torna viva e vivace quando il disegno si trasforma in strategia: non si possono avere due obiettivi strategici, ammonisce Rossolillo, e l’obiettivo della Federazione europea resta primario e vincolante per i federalisti europei. Per usare le sue parole, saranno “le repubbliche federali continentali” a favorire e rendere possibile il federalismo mondiale la cui era, nella storia mondiale, può essere iniziata con ciò che chiamiamo globalizzazione. Nella storia che conosciamo e che stiamo vivendo, solo gli Stati Uniti d’America, l’Australia ed in embrione l’Unione europea esplicitano il progetto nel processo in corso.

Ma un nuovo ordine internazionale, cioè un ordine fra le nazioni, non è l’ordine di una comunità mondiale.[3] Bisogna accettare, diceva ancora Peccei negli anni Settanta, lo Stato nazionale sovrano come quel mattone vecchio, scarsamente utilizzabile per edifici moderni, che però è oggi quello che abbiamo. Di questa unità funzionale — lo Stato nazionale — su cui si basa la struttura politica del mondo, non possiamo fare a meno, anche se è un concetto, o un mattone, che viene da tempi totalmente diversi: è coevo della diligenza, delle dinastie assolute, viene niente meno che dalla pace di Westfalia quando è finita la guerra dei 30 anni, ed è una cosa che veramente non onora l’umanità di oggi.

Sul processo incide un’altra antinomia: da una parte le seduzioni istituzionali dell’evoluzione onusiana verso una soluzione federalista in cui il federalismo mondiale, inclusivo della necessaria sussidiarietà, emerga come risultato del processo di governo della globalizzazione: dei pallidi cenni già indicano questo cammino, come per esempio un vaccino (o un sistema vaccinale) sostanzialmente globale contro una pandemia autonomamente globale. Dall’altra lo sviluppo delle integrazioni regionali nel mondo attivate da elementi “federatori” specifici per le diverse aree di integrazione. Su questa seconda visione il dibattito si è arricchito delle testimonianze sperimentali non solo europee, ma anche latino-americane ed africane; senza contare esperienze di altre regioni del mondo.

Si aggiunga la constatazione che la natura, oggi con il riscaldamento globale; la scienza e la tecnologia, oggi con il digitale, sono i nuovi attori politici del mondo antropogenico che ancora non dispone di istituzioni multipolari adeguate a questa evoluzione. Di qui la constatazione di una permanente fase di transizione in tutte le manifestazioni evolutive: geologica, antropologica, ambientale, demografica, economica, politica.

Anche sui progetti di federazione, l’esperienza storica ha mostrato e mostra realizzazioni federali consolidate in molti importanti paesi del mondo; ed anche federazioni realizzate e poi sciolte come quelle legate all’esperienza sovietica ed a quella jugoslava, purtroppo di storica attualità.

Trasversale a questo dibattito è stato l’argomento temporale, anch’esso antinomico, tra i processi in serie e quelli in parallelo, tanto per restare nelle allegorie elettromagnetiche. Si è pensato di poter rivedere un messaggio ormai consolidato del federalismo europeo quale è quello di “unire l’Europa per unire il mondo” per sovrapporre temporalmente i due processi attraverso la “e” di unire il mondo. Anche in questo caso gli argomenti per i due monismi si elidono a fronte dell’esperienza storica ed anche militante dell’esperienza federalista europea e mondialista le cui strategie mirano e debbono mirare a due progetti federali ugualmente importanti ma certamente diversi. Anche sul piano dell’azione politica si conferma questa antinomia: l’azione dei federalisti mondiali essendo di carattere funzionalista caratterizzata da un importante impegno di lobbying per il conseguimento di traguardi istituzionali intergovernativi (la Corte penale internazionale, quella latino-americana contro la corruzione e la criminalità, la riforma dell’ONU ed in particolare del suo Consiglio di Sicurezza), mentre quella dei federalisti europei è direttamente proiettata sulla costruzione della Federazione europea.

All’aspetto temporale si è aggiunto nel dibattito il frequente richiamo istituzionale alla questione dei confini ed alla loro abolizione. Anche qui non mancano i riferimenti letterari che vanno dalla “Folie des frontières” degli anni trenta al contemporaneo “Éloge des frontières” di Régis Debray. Il dibattito si apre subito alla questione della cittadinanza ai vari livelli geopolitici introducendo in tutta la sua profondità e portata la questione della sussidiarietà. È sempre più riconosciuto, anche se spesso bistrattato, il principio ed anche la prassi della cittadinanza multilevel. Ciò che invece manca nel sistema istituzionale globale è proprio la cittadinanza mondiale, che, in quanto tale, non avrebbe bisogno di definizioni essendo insita nell’esistenza stessa degli esseri umani in qualunque tempo ed in qualunque spazio. Quella cittadinanza cioè che già Dante Alighieri collocava nella sua cosmogonia celeste “in questo miro ed angelico templo che solo amore e luce ha per confini”: oltre i quali confini si ha quindi odio e sopraffazione da una parte, e dall’altra buio, paura ed ignoranza. Nel dibattito fra progetti di integrazione regionale e problemi di riconoscimento di cittadinanza (questioni di migrazioni e di rifugiati incluse) si apre la questione della cittadinanza europea: faticosamente raggiunta nell’attuale Unione europea; fortemente in discussione, per diverse ragioni, tra i popoli fuori dell’Unione e per quelli che da fuori ad essa accedono. La questione si è posta subito dopo la seconda guerra mondiale, con i primi tentativi istituzionali di integrazione. Ed il primo di questi tentativi fu quello che portò, nel 1949, alla nascita del Consiglio d’Europa. Il suo disegno fondativo, su ispirazione di Sir Winston Churchill, avrebbe dovuto portare subito agli Stati Uniti d’Europa. Così non fu, ad opera degli stessi britannici che, con Mac Millan e Lord Attlee, deviarono quel percorso sul piano intergovernativo; ovviamente con la complicità degli altri dodici fondatori (da cui le dodici stelle della bandiera europea) fra i quali, conviene ricordarlo, figurava quella Turchia cui più tardi non si vollero riconoscere i requisiti per entrare nell’Unione: sempre per ragioni antinomiche, questa volta religiose, gravide di conseguenze e di spinte neonazionaliste. Il Consiglio d’Europa, con la sua Assemblea parlamentare di secondo grado, con il suo Consiglio dei Ministri intergovernativo, con il suo Consiglio dei Poteri locali e regionali e con la sua Corte europea dei Diritti dell’Uomo ha avuto il merito di fungere da anticamera per il più importante successivo processo comunitario; merito che ha tuttora. Nel corso del tempo il Consiglio si è esteso a tutti i popoli considerati europei, da nord a sud, da est a ovest, con una definizione geopolitica dell’Europa che travalica i governi di volta in volta in carica. I popoli d’Europa sono quindi 48 ed includono tutti i paesi scandinavi e quelli dell’Europa occidentale, centrale ed insulare; quelli della riva nord del Mediterraneo, tutti quelli balcanici, caucasici ed euroasiatici: armeni, georgiani, turcomanni, azeri, kirghisi, cosacchi, tagiki, uzbeki e parte importante dei curdi. Ai bielorussi non è stato ancora riconosciuto l’accesso al Consiglio per il mancato adeguamento da parte delle istituzioni di quel paese ai principi dello Stato di diritto e delle libertà fondamentali; mentre la Russia, così come in passato anche la Grecia dei colonnelli, è stata temporaneamente sospesa per il mancato rispetto di questi stessi principi. Tutti questi popoli sono quindi europei: il che lascia un’ombra sinistra di guerra civile sull’odierna aggressione russa al popolo ucraino. A quest’ultimo aspetto dell’attualità europea va riservata molta attenzione nel dibattito contemporaneo in considerazione delle profonde implicazioni geopolitiche che sta producendo con onde armoniche che si propagano ai campi dell’energia, degli equilibri alimentari e climatici e di quelli della sicurezza e delle relazioni internazionali: tutte dimensioni propedeutiche al federalismo mondiale.

Sarà bene ricordare, da ultimo, anche la presenza visibile e crescente di antinomie economiche, non solo portatrici di conflitti ma suscettibili di soluzioni prospettiche solo su scala planetaria. Per esprimerci sinteticamente, l’economia del bisogno e l’economia dello sviluppo vanno divaricando i loro percorsi con dimensioni e traiettorie di straordinaria drammaticità (dai trasporti del grano alle favelas suburbane): tanto a livello delle singole nazioni quanto a livello planetario. L’economia del bisogno e della sopravvivenza, dopo un periodo di apparente attenuazione, sta esprimendo nel mondo livelli assoluti di miseria e livelli relativi di disuguaglianze forse mai visti sul pianeta; d’altra parte l’economia dello sviluppo presenta modelli pubblici (campionati del mondo in Qatar) e privati (dimensione astronomica di alcune fortune personali) che pongono alcune direttrici moderne dello sviluppo (comunicazioni, tecnologie) al di fuori delle potenzialità economiche ed istituzionali di molti popoli e molti governi. I profetici ammonimenti di Ernesto Rossi per “abolire la miseria” (magari per legge!) o dei federalisti globali per il minimo vitale garantito suona oggi come violento richiamo anche per il federalismo mondiale ancora impermeabile ai richiami (come quelli a suo tempo di Antonio Papisca) che auspicavano queste garanzie di sopravvivenza non solo per i singoli individui ma anche per gli Stati più poveri. Analogamente il progetto di servizio civile universale (spesso invocato dai federalisti europei), lungi dall’apparire come misura concreta di cittadinanza europea e mondiale, non compare nelle agende politiche ed istituzionali neanche dove l’attualità economico-sociale lo renderebbe strumento di straordinaria utilità.

Le tracce occasionali di federalismo europeo ed ancor più labili di federalismo mondiale indicano che il percorso da seguire è complesso da seguire ma ancor più da iniziare con determinazione e certamente l’opera di sensibilizzazione e di approfondimento culturale è di palese urgenza per le nostre società civili.

Raimondo Cagiano de Azevedo


[1] Federalismo Mondiale, Ufficio del Dibattito del MFE, Genova 2-3 Aprile 2022, e-book con licenza Creative Commons, https://www.mfe.it/port/documenti/doc-mfe/uffici/220402_eBook.pdf.

[2] F. Rossolillo, Federazione europea e Federazione mondiale, Il Federalista, 41 n. 2 (1999), https://www.thefederalist.eu/site/index.php/it/saggi/285-federazione-europea-e-federazione-mondiale, ripubblicato in F. Rossollillo, Senso della Storia e Azione Politica, Bologna, Il Mulino, 2009, vol, I, p. 773.

[3] L’Europa e il dialogo Nord-Sud, Quaderni Federalisti del CIFE n. 14, Roma 1976, p. 43.

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