IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LXIV, 2022, Numero 2-3, Pagina 152

 

 

L’AGGRESSIONE ALL’UCRAINA E
LE PROSPETTIVE DEL FEDERALISMO NEL MONDO

 

 

Il cambiamento dello scenario politico internazionale. 

La guerra della Russia contro l’Ucraina ha cambiato profondamente lo scenario politico internazionale. Il sistema politico internazionale è di nuovo diviso come all’epoca della guerra fredda. È tornata la politica di potenza il cui risvolto più preoccupante è il rischio di un’escalation che potrebbe portare all’impiego di armi nucleari, come hanno ripetutamente minacciato i dirigenti del governo russo. A ciò si è aggiunta una crisi economica globale caratterizzata dall’inflazione, dalla minaccia di recessione e dall’approfondimento delle disuguaglianze sociali.

Le prime vittime di questo deterioramento del clima politico internazionale sono i trattati sulla non proliferazione nucleare: l’abrogazione del trattato sul programma nucleare iraniano e del Trattato INF sugli euromissili, cui va aggiunto il fatto che nel 2017 e nel 2022 non è stato possibile pervenire a un accordo su una dichiarazione comune a conclusione delle ultime due conferenze di revisione del trattato di non proliferazione nucleare.

Putin ha distrutto i pilastri sui quali si reggevano le relazioni della Russia con il mondo civile e le regole che governavano la convivenza pacifica tra i protagonisti della politica internazionale. Nel discorso con il quale ha aperto l’Assemblea generale delle Nazioni Unite lo scorso 20 settembre, il Segretario generale António Guterres ha affermato che “Il mondo è in pericolo e paralizzato (…). La comunità internazionale non è pronta o disponibile a fare fronte alle grandi drammatiche sfide del nostro tempo”. E ha concluso con queste parole: “Nessuna cooperazione. Nessun dialogo. Nessuna soluzione ai problemi collettivi”.[1] Questa è la cupa valutazione dei mali presenti e futuri di un mondo vicino a un punto irreversibile di non ritorno e ha concluso che è giunto il momento di fare rivivere i valori fondamentali sui quali si fondano le Nazioni Unite. L’invasione dell’Ucraina è l’esempio più recente del disordine che imperversa nel mondo.

La Russia ha violato le regole dell’ordine mondiale stipulate nel 1945 e nel 1991, ma il piano di Putin diretto a piegare la resistenza dell’Ucraina in una settimana e di sostituire Zelensky con un governo fantoccio è fallito. Ora le truppe russe sono arretrate sulla riva sinistra del fiume Dnepr. La lezione che se ne può trarre è che la Russia, un petro-Stato affetto da una grave arretratezza economica, non sembra in grado di vincere la guerra. L’aggressione dell’Ucraina ha avuto l’effetto di rafforzare la coesione dello schieramento internazionale che sostiene Kiev, come mostra la richiesta dell’Ucraina di candidarsi a fare parte dell’UE e la richiesta di Svezia e Finlandia di aderire alla NATO, e per di più di irritare gli alleati cinese e indiano, che hanno condannato la minaccia nucleare da parte della Russia. In breve, la Russia si è progressivamente isolata dalla comunità internazionale, ma continua a essere pericolosa, perché può infliggere quel colpo di coda che resta a chi è relegato in un angolo e non ha altre vie di uscita.
  

La dipendenza dell’Europa dal gas russo.

Tuttavia la guerra non si può concludere con un vincitore e un vinto. Lo status di grande potenza nucleare della Russia rende la sconfitta, nel senso tradizionale del termine, impossibile. Sarà necessario trovare una soluzione di compromesso. Questo è il significato del monito di Macron secondo cui la Russia non deve essere umiliata. Il primo passo da compiere per riprendere il cammino verso la costruzione della pace mondiale è il cessate il fuoco con effetto immediato, tenendo conto del fatto che la fornitura di armi all’Ucraina e le sanzioni economiche nei confronti della Russia sono state finora insufficienti a fermare la guerra.

L’embargo totale da parte dell’Europa sulle importazioni di gas e petrolio dalla Russia, in linea con la posizione adottata dagli Stati Uniti e con la proposta dal Parlamento europeo, se adottato appena cominciò l’invasione dell’Ucraina, avrebbe privato la Russia delle risorse necessarie a finanziare la guerra. L’UE ha sprecato questa opportunità unica. Ora l’iniziativa è tornata nelle mani della Russia e dobbiamo aspettarci che i rubinetti del gas vengano chiusi. I negoziati potranno cominciare solo quando l’equilibrio delle forze in campo avrà persuaso entrambi i contendenti che nessuno dei due può vincere.

La dipendenza dell’Europa dalla Russia per quanto riguarda l’approvvigionamento di gas si è rivelato un colossale errore strategico che ha legato le mani alla maggior parte dei paesi europei, in primo luogo la Germania e l’Italia. L’ipotesi secondo cui la Russia, a causa della sua arretratezza economica e del fatto che la sua principale ricchezza — i combustibili fossili — sia destinata a esaurirsi a favore di fonti energetiche rinnovabili, fosse costretta a cercare qualche forma di collaborazione con l’UE, e più in generale con l’Occidente sulla scia della Ostpolitik promossa da Willy Brandt, si è rivelata del tutto infondata. La decisione di costruire il gasdotto North Stream è stata presa un anno dopo l’annessione della Crimea da parte della Russia, quando era diventato evidente il disegno espansionistico di Putin. Finché non è cominciata la guerra, la Germania ha continuato a credere nella prospettiva della distensione e del dialogo con Mosca. Ora con l’inverno alle porte, l’UE deve correre ai ripari accelerando la marcia verso l’indipendenza energetica, vale a dire sostituendo il più possibile i combustibili fossili con risorse energetiche rinnovabili, ricorrendo allo stoccaggio di gas per fare fronte alla riduzione, e forse all’interruzione, dell’esportazione del gas dalla Russia e diversificando l’importazione di gas accrescendo le importazioni da altri fornitori, quali Norvegia, Egitto, Israele, Azerbaijan e Algeria. Poiché la dipendenza dai combustibili fossili a livello mondiale nel 2021 ammontava all’82%, e negli ultimi cinque anni è scesa di tre punti percentuali,[2] è un’illusione puntare a una rapida decarbonizzazione del sistema produttivo. Il processo è destinato a durare ancora diversi anni.
  

La guerra in Ucraina impedisce di progredire sulla via del federalismo mondiale.

Occorre considerare che la guerra non è semplicemente un conflitto della Russia contro l’Ucraina. È una guerra della Russia contro l’UE e ciò che quest’ultima rappresenta per il mondo, vale a dire:

—  un modello di democrazia internazionale che estende il suo raggio di azione al di là dei confini nazionali senza ricorrere alle armi e mostra la propria capacità di unire i popoli europei sotto la bandiera di grandi valori universali: la libertà, la democrazia, i diritti umani e lo Stato sociale;

—  una organizzazione internazionale basata sui principi dello Stato di diritto e sulla difesa dei diritti umani in alternativa ai rapporti di forza tra Stati sovrani;

— un attore globale capace di fare evolvere il sistema politico internazionale in senso multipolare, che sostituisca lo scontro violento tra forze ostili attraverso la cooperazione internazionale e il multilateralismo.

Finché dura la guerra non ci sarà nessuna possibilità di riprendere il dialogo tra le grandi potenze e di progredire sulla via dell’estensione del multilateralismo e del federalismo nel mondo. La guerra ha ribaltato l’ordine delle priorità dell’agenda politica mondiale. I bilanci militari sottraggono una grande quantità di risorse finanziarie che potrebbero essere destinate agli investimenti necessari a promuovere la transizione verso un modello di sviluppo sostenibile, finanziando la transizione dai combustibili fossili alle energie rinnovabili, il welfare state, il modello sociale europeo, la trasformazione digitale, la riduzione degli armamenti e così via. Per questa ragione, la priorità assoluta della strategia federalista deve essere il cessate il fuoco al fine di avviare negoziati che permettano di far tacere le armi. Soffermarsi in questo momento a discutere su aspetti specifici del piano per costruire un nuovo ordine di pace è come mettere il carro davanti ai buoi.

Dobbiamo essere consapevoli che, nelle attuali circostanze, le condizioni favorevoli al ritorno del multilateralismo e all’estensione del federalismo si manifestano solo nelle grandi regioni del mondo, le quali hanno sviluppato al loro interno un grado di coesione più forte di quello realizzato dalla globalizzazione sul piano mondiale. L’Unione europea occupa una posizione di punta. Proprio l’invasione dell’Ucraina ha sollecitato la richiesta da parte di quest’ultima di aderire all’UE e quindi la ripresa del processo di allargamento dell’Unione. Nello stesso tempo si impone anche la creazione di un’Unione dell’energia, che rappresenterebbe il più grande trasferimento di sovranità dopo l’Unione monetaria e consentirebbe di negoziare con la Russia il prezzo del gas da posizioni di forza. È infine da ricordare che la transizione energetica è il progetto che consente di combattere la minaccia mortale cui l’umanità deve fare fronte: il cambiamento climatico.

Ugualmente nell’Unione africana e in America latina esistono le condizioni per progredire verso forme più strette di unione economica e monetaria. Da un lato, nel 2019 è stata creata una Zona di libero scambio continentale africana, d’altro lato, nel 2007 il Mercosur e la Comunità andina hanno dato vita all’Unione delle nazioni sud americane (UNASUR). Per svilupparsi, i due processi di integrazione necessitano di un sostegno esterno che potrebbe venire dall’UE, che è la più grande unione economica e monetaria del mondo.
  

Le organizzazioni regionali come pilastri della riforma dell’ONU.

Lo statuto delle Nazioni Unite (artt. 52-54) riconosce chiaramente il ruolo delle organizzazioni internazionali per il mantenimento della pace e della sicurezza. Esse rappresentano una delle novità più significative delle relazioni internazionali del XX e del XXI secolo. È difficile immaginare che la costruzione della pace mondiale possa essere il risultato di negoziati tra circa 200 Stati membri. Infatti il costante aumento del numero degli Stati membri dell’ONU (oggi è quasi quadruplicato rispetto al 1945) mostra un’allarmante tendenza verso la frammentazione e l’anarchia. La grande disparità nelle dimensioni e nel potere degli Stati membri rappresenta il più serio difetto della struttura dell’ONU.

Le organizzazioni regionali rappresentano un livello di governo intermedio tra gli Stati nazionali e le Nazioni Unite. È da notare che ci sono grandi differenze nella dimensione dei processi di integrazione regionale. Lo slancio idealistico verso la grande dimensione — come il progetto bolivariano di una federazione dei popoli latino americani o il panafricanismo e il panarabismo — coesiste con processi di integrazione sub-regionali, che sono in armonia con la dimensione dell’interdipendenza economica e sociale.

La realizzazione della pace a livello regionale è una condizione per promuovere la pace a livello mondiale. Il livello regionale di governo costituisce un indispensabile strumento per rendere il funzionamento delle Nazioni Unite più efficiente, più giusto e più democratico. I raggruppamenti regionali di Stati rappresentano un’alternativa all’attuale struttura delle Nazioni Unite, basata su gerarchie di potere che riflettono differenze tra Stati di diverse dimensioni (da città-Stato come San Marino a Stati di dimensioni subcontinenti come l’India) e la frammentazione delle Nazioni Unite in un ingestibile numero di Stati. In altre parole, la riduzione del numero degli attori del sistema internazionale degli Stati rende più facili i negoziati e la cooperazione internazionale.

Occorre segnalare che le Nazioni Unite adottano una nozione di regione basata sulla divisione del mondo in continenti, ma con una rilevante eccezione: la distinzione tra Europa occidentale e orientale, un’eredità della guerra fredda che sopravvive nel XXI secolo. Per organizzare la distribuzione dei seggi in seno alle Nazioni Unite, gli Stati membri sono divisi in cinque gruppi: Asia, Africa, America latina e Caraibi, Europa occidentale ed Europa orientale. Il gruppo asiatico include anche la maggior parte delle isole del Pacifico. Il gruppo dell’Europa occidentale include anche il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda e gli Stati Uniti. Questi ultimi non fanno parte di nessun gruppo, partecipano alle riunioni del gruppo dell’Europa occidentale in qualità di osservatori. Il gruppo dell’Europa orientale include la Russia, uno Stato allo stesso tempo europeo e asiatico.

Bisogna tuttavia tenere conto della differenza tra regioni e continenti. Per esempio, il continente asiatico include sei regioni: quattro organizzazioni regionali (la Comunità degli Stati indipendenti, che include anche la parte europea della Russia, la Lega araba (che include anche il Nord Africa), il SAARC (South Asian Association for Regional Cooperation) e l’ASEAN (Association of Southeast Asian Nations) e due regioni: la Cina e l’Asia orientale (che include il Giappone e le due Coree).

Le organizzazioni regionali, nella misura in cui riuniscono gruppi di Stati, devono essere intese come blocchi costitutivi della comunità mondiale, un livello intermedio tra gli Stati nazionali e le istituzioni globali. Esse non sostituiscono gli Stati, né eliminano la loro autonomia. Costituiscono il quadro nel quale organismi legislativi, esecutivi e giudiziari possono prendere forma per consentire a queste istituzioni di affrontare questioni di dimensione regionale. Il principio di sussidiarietà consiglia che le nazioni siano rappresentate a livello regionale e che le grandi regioni del mondo siano rappresentate a livello mondiale.

L’UE è la prima organizzazione internazionale alla quale è stato riconosciuto nel 2011 lo status di osservatore nell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, che consente di prendere la parola, fare circolare documenti, presentare proposte ed emendamenti. Il riconoscimento di questo status all’UE rappresenta una tappa che permetterà di aprire la strada a una più forte coesione di altri raggruppamenti regionali di Stati in seno all’Assemblea generale, in modo che possano esprimersi nel Consiglio di sicurezza e trasformare quest’ultimo nel Consiglio delle grandi regioni del mondo.

Si può immaginare che questo cambiamento nella struttura del Consiglio di sicurezza possa promuovere una evoluzione dell’ordine mondiale in senso più democratico, più giusto, più equilibrato e più pacifico. Di conseguenza, tutti gli Stati — e non solo i più forti, come avviene ora — potranno essere rappresentati in seno al Consiglio di sicurezza attraverso le rispettive organizzazioni regionali. In secondo luogo, l’egemonia delle grandi potenze e la disuguaglianza tra gli Stati potrebbero essere progressivamente superate attraverso la riorganizzazione delle Nazioni Unite in raggruppamenti di Stati di dimensione e potere equivalenti. In terzo luogo, l’ingiusta discriminazione tra membri permanenti e membri non permanenti del Consiglio di sicurezza potrebbe essere superata sostituendo il diritto di veto e il voto all’unanimità con il voto a maggioranza in conformità con i principi democratici.
  

Verso la trasformazione del Consiglio di Sicurezza nel Consiglio delle grandi regioni del mondo.

Una delle conseguenze più rilevanti della fine dell’ordine mondiale bipolare è il fatto che l'attuale composizione del Consiglio di Sicurezza è diventata anacronistica. Di qui l’esigenza di allargare e di trasformare quest’ultimo da direttorio delle cinque grandi potenze in un organo più rappresentativo. Questo problema può essere affrontato in due modi.

Quello tradizionale consiste nell’aprire le porte del Consiglio di Sicurezza agli Stati più forti, che sono saliti ai primi posti nella gerarchia del potere mondiale, attribuendo un seggio permanente alla Germania, al Giappone, al Brasile, all’India e a uno o due grandi paesi africani da identificare. Allargando il Consiglio di Sicurezza agli Stati più forti, il proposito è quello di creare dei gendarmi regionali e affidare loro la rappresentanza degli interessi degli Stati più piccoli appartenenti alla stessa regione. Così la Germania rappresenterebbe i paesi del Benelux, quelli scandinavi e quelli dell'Europa centro-orientale, il Giappone i paesi dell’estremo oriente, del Sud-Est asiatico e del Pacifico.

Il progetto relativo all'attribuzione di un seggio permanente a Germania e Giappone, che corrispondeva all’obiettivo di giungere a una rapida soluzione del problema della riforma del Consiglio di Sicurezza, appoggiato dagli Stati Uniti, si è rivelato poco realistico, ed è stato abbandonato. Esso avrebbe rafforzato l’egemonia del Nord nei confronti del Sud del mondo e inoltre avrebbe assegnato all’Europa occidentale tre seggi e quindi un peso assolutamente sproporzionato. Analoghe difficoltà incontra la proposta relativa all’allargamento a grandi Stati dell’America latina, dell’Asia e dell’Africa, perché i paesi esclusi non sono disponibili a farsi rappresentare dagli Stati più potenti dei rispettivi continenti.  È una proposta che riflette i principi di dominazione e di disuguaglianza che hanno modellato l’attuale struttura del Consiglio di Sicurezza, ma che è ormai inadeguata rispetto agli attuali bisogni del mondo e incompatibile con gli obiettivi di uguaglianza e di giustizia che l’UE vuole affermare nelle relazioni internazionali.

La via maestra per giungere a una riforma del Consiglio di Sicurezza equa e più conforme all’evoluzione dei rapporti di potere nel mondo è quella indicata dalla formazione di raggruppamenti regionali di Stati. La riorganizzazione dell’ordine mondiale su questa base non rappresenta solo un’alternativa alla frammentazione del mondo in un pulviscolo di piccoli e piccolissimi Stati, cui si contrappongono Stati di grandi dimensioni, ma anche alle gerarchie, che inevitabilmente si formano a causa del divario di potere tra gli Stati.

La crescente coesione dell’UE e la prospettiva che essa possa svolgere il ruolo di attore internazionale in seno all’ONU sono strettamente legate al grado di sviluppo del processo di unificazione. È da ricordare che, nonostante le divisioni che sussistono in seno all’UE sui grandi temi della politica internazionale, le posizioni degli Stati membri mostrano nel complesso un elevato grado di convergenza. Questo avviene specialmente nei campi della politica commerciale, economica e monetaria, dove l’Europa può parlare con una sola voce. Nella WTO e nella FAO la Commissione europea rappresenta tutti gli Stati membri. Ma, all’interno dell’ONU, l’UE già si muove come un unico attore nella maggior parte dei casi. Il punto debole dell’Europa sta nel fatto che le decisioni nella politica estera e di sicurezza sono prese all’unanimità. Questo è il vuoto che deve essere colmato per consentire all’UE di entrare nel Consiglio di Sicurezza.

L’ammissione dell’UE nel Consiglio potrebbe rappresentare un’alternativa all’egemonia dei due Stati più potenti (Francia e Germania) nei confronti dell’UE e alla richiesta di un seggio permanente da parte della Germania. Si deve considerare che l’ammissione della Germania nel Consiglio di Sicurezza potrebbe incoraggiare, in quel paese, lo sviluppo di una politica estera indipendente rispetto all’UE e così fornire uno stimolo per il risveglio del nazionalismo tedesco. Se le ragioni della Germania fossero riconosciute, come ignorare quelle dell’Italia, della Spagna, della Polonia e così via? Se gli Europei decidessero di tornare a dare la precedenza agli interessi nazionali, tutto il disegno di un’Europa unita verrebbe irreparabilmente danneggiato. Paradossalmente questo accade nel momento in cui sono all’ordine del giorno progressi istituzionali che potranno rafforzare la capacità dell’UE di parlare con una sola voce.

Il Trattato di Lisbona, riconoscendo la personalità giuridica dell’UE, creando un quasi-ministro degli esteri (l’Alto Rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza) e promuovendo la formazione di un unico sistema di sicurezza tramite la “cooperazione strutturata permanente”, consente di rafforzare il ruolo internazionale dell’UE. Per facilitare il perseguimento di questo obiettivo, la cooperazione strutturata, a differenza di quella rafforzata, non fissa un numero minimo di Stati per poterla avviare. Come la Germania ha rinunciato al marco per realizzare l’euro, così la Francia oggi deve mettere a disposizione della Germania e degli altri partner nella cooperazione strutturata il suo seggio al Consiglio di Sicurezza, aprendo così la via alla formazione di un seggio europeo. È da segnalare che il governo tedesco ha più volte cambiato la sua posizione, ma ha spesso dichiarato di essere disponibile a rinunciare alla pretesa di un seggio nel Consiglio di Sicurezza, se si concretizzasse la prospettiva di creare un seggio europeo.

L’Unione europea, precisamente perché rappresenta la punta più avanzata nei processi di unificazione regionale in corso nel mondo, può assumere l’iniziativa di una riforma in senso regionale del Consiglio di Sicurezza. Con il suo ingresso nel Consiglio di Sicurezza, essa diventerà per il resto del mondo il modello della pacificazione tra Stati nazionali e il veicolo per trasmettere alle altre regioni, che sono ancora divise in Stati sovrani, l’impulso all’unificazione federale.

In definitiva questa soluzione presenta tre vantaggi: in primo luogo, tutti gli Stati (e non solo i più forti, come avviene ora) potranno essere rappresentati nel Consiglio di Sicurezza attraverso la rispettiva organizzazione regionale; in secondo luogo, l’egemonia delle superpotenze e l’ineguaglianza tra gli Stati potranno essere progressivamente superate attraverso la riorganizzazione dell’ONU sulla base di raggruppamenti di Stati di dimensioni e poteri equivalenti e in particolare i paesi in via di sviluppo dell’Africa, del Mondo arabo, dell’America latina, dell’Asia meridionale e del Sud-Est asiatico potranno trovare nell’unificazione politica ed economica la via maestra per sollevarsi dalla loro condizione di dipendenza; in terzo luogo, l’ingiusta discriminazione tra i membri permanenti e non permanenti potrà essere definitivamente superata attraverso la sostituzione del diritto di veto e il voto all’unanimità col sistema di voto a maggioranza in conformità con i principi democratici.
  

Verso un governo multilivello del mondo.

Il progetto di riforma delle Nazioni Unite sopra delineato suggerisce di ripensare e di riorganizzare lo Stato non di abolirlo. Hobbes nel Leviathan ha definito lo Stato “Un Dio mortale” (“cui dobbiamo la nostra pace e la nostra difesa”[3]). Ma non è morto nemmeno di fronte alla sfida della globalizzazione. La riorganizzazione del potere statale a differenti livelli territoriali è stata chiamata nella letteratura contemporanea di scienza politica “governance multilivello”.[4] Questa formula evoca la visione federalista delle istituzioni politiche, che permette di ripensare e di superare il modello dello Stato unitario. Il governo federale ha ricevuto la sua classica definizione dalla penna di Kenneth C. Wheare con queste parole: “Quel sistema di divisione del potere che permette al governo centrale e ai governi regionali di essere, ciascuno nella propria sfera, coordinati e indipendenti”.[5]

È una pura illusione pensare che la distruzione dello Stato nazionale possa di per sé essere il veicolo verso forme più forti di solidarietà. È vero che lo Stato nazionale è stato l’espressione della più forte concentrazione di potere e della più profonda divisione politica che il mondo abbia conosciuto. Tuttavia gli esempi tra i tanti di Stati falliti, come la Somalia, la Yugoslavia, la Libia, il Congo, il Sudan, l’Afghanistan, mostrano che la disgregazione dello Stato segna una regressione alla barbarie primitiva, a feroci odii tribali e ad arcaiche forme di solidarietà basate su vincoli etnici o religiosi.

Di fronte a questi fenomeni non si può fare a meno di apprezzare gli aspetti positivi della solidarietà nazionale nel superare gli egoismi locali, regionali e di classe e l’insostituibile ruolo che hanno svolto nella storia. La Francia, la Spagna, l’Italia, la Germania hanno unificato popolazioni diverse per caratteri etnici, linguistici e religiosi. Naturalmente questa unità è stata acquisita tramite l’accentramento, vale a dire sacrificando il pluralismo.

In realtà, lo spazio post-nazionale è una regione sconosciuta e un territorio ignoto. Il contributo del federalismo alla comprensione e all’identificazione dei limiti dell’esperienza nazionale consiste nella denuncia del carattere esclusivo assunto dai vincoli della solidarietà nazionale. Questi ultimi non tollerano nessuna forma di lealismo verso comunità più piccole o più grandi della nazione. Ciononostante, sarebbe un errore sopprimere la solidarietà nazionale nell’era della globalizzazione. Deve piuttosto essere considerata come un gradino lungo la scala che porta a forme più ampie di solidarietà tra nazioni in seno a federazioni grandi come intere regioni del mondo e tra federazioni macro-regionali in seno alla Federazione mondiale. Nello stesso tempo, la solidarietà nazionale non esclude altre forme di solidarietà in seno alle comunità locali e regionali, ma possono coesistere con queste ultime. Il modello federale è una formula istituzionale che permette la coesistenza di diverse forme di solidarietà verso comunità territoriali di differenti dimensioni che possono estendersi dalle piccole comunità locali al mondo intero.

Lucio Levi


[1] United Nations, A. Guterres, Secretary-General’s Address to the General Assembly, September 2022, pp. 5-6, https://www.un.org/sg/en/content/sg/speeches/2022-09-20/secretary-generals-address-the-general-assembly.

[2] bp Statistical Review of World Energy, 2022, 71st edition, https://www.bp.com › global › pdfs › statistical-review.

[3] T. Hobbes, Leviathan, Cambridge, Cambridge University Press, 1904, p. 119.

[4] I. Pernice, Multilevel Constitutionalism and the Treaty of Amsterdam: European Constitution-Making Revisited?, Common Market Law Review, 36 n. 4 (1999), pp. 703-750; L. Hooghe and G. Marks, Multi-Level Governance and European Integration, Lanham, Rowman & Littlefield, 2001.

[5] K. C. Wheare, The Federal Government, Oxford, Oxford University Press, 1964, p. 11.

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