IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LIV, 2012, Numero 1-2, Pagina 45

 

 

Quale futuro per l’eurozona
e l’Unione europea?*
 
UGO DRAETTA
 
 
L’oggetto di questa mia lezione è il futuro dell’eurozona e dell’Unione europea. È un tema in cui le considerazioni giuridiche sono indissolubilmente connesse a quelle di carattere politico ed economico. È, quindi, un approccio interdisciplinare quello che adotterò, secondo l’impostazione che il prof. Quadrio Curzio ha da sempre voluto dare alla nostra facoltà e che, appunto, la caratterizza.
Forse avrei dovuto essere più umile nel formulare un tale titolo per la mia lezione. Non possiedo né sfere di cristallo né ricette miracolose. A mio credito posso solo ricordare di avere dedicato la maggior parte della mia attività scientifica e didattica all’integrazione europea, a cominciare dalla mia tesi di laurea sugli aspetti sovranazionali dell’allora neonata Comunità economica europea, che discussi nel 1960 sotto la guida di un maestro del calibro di Rolando Quadri.
A questo interesse scientifico ho sempre affiancato una grande passione politica per i temi del federalismo europeo, ispirata e alimentata dagli scritti e dalle opere di personaggi quali Einaudi, Spinelli e tanti altri. Questa passione mi ha spinto a considerare sempre la federazione (non la confederazione, che è cosa assai diversa se si vogliono utilizzare le categorie classiche del diritto internazionale) come meta ultima del processo di integrazione europea e di guardare con realismo e con un certo disincanto a quelle che mi apparivano come soluzioni più che altro di facciata, che ci allontanavano piuttosto che avvicinarci a tale meta. Questo mio atteggiamento a volte critico è stato scambiato da alcuni come euro-scetticismo. È un’accusa che credo di non aver meritato.
Quando ho cominciato ad occuparmi dell’Europa, la scena politica era occupata da statisti del calibro di Adenauer, De Gasperi, Spaak, Schumann, i cosiddetti padri fondatori. Sembrava a noi giovani a quei tempi che ogni traguardo fosse raggiungibile e che gli Stati Uniti d’Europa fossero a portata di mano. Ma, dopo il fallimento della Comunità europea di difesa e della Comunità politica europea, in quegli anni fu compiuto un errore i cui effetti si trascinano sino ai giorni nostri. L’errore fu quello di adottare la tecnica del funzionalismo economico, pensando che il procedere a piccoli passi sulla via dell’integrazione economica portasse ad un certo punto automaticamente all’integrazione politica. È chiaro, a distanza di più di cinquanta anni, che quello fu un errore. L’integrazione politica non fa parte di un processo di integrazione economica e non ne è la logica conclusione. È, invece, un evento rivoluzionario, non evolutivo. È un salto di qualità, un quantum leap. Il giorno prima di questo evento esistono Stati sovrani, il giorno successivo tali Stati non esistono più.
Lo diceva chiaramente, tra gli altri, in tempi non sospetti, Arangio Ruiz, sottolineando che il processo di integrazione economica tra Stati, quando rimane a carattere intergovernativo, non può spingersi oltre un certo punto, dopo il quale o regredisce verso forme di aree di libero scambio eventualmente rafforzate o si interrompe per dar vita ad una federazione politica legittimata democraticamente, con i popoli, non i governi, che ne determinano le sorti. Noi, dall’interno, anche sulla base di un’insistente retorica comunitaria che ci ha a volte offuscato le menti, non lo abbiamo sempre visto con chiarezza. Dal di fuori, la percezione è stata più lucida: gli americani hanno definito l’Unione europea, ancora recentemente, nient’altro che una glorified free trade area, con eccesso di sottovalutazione, certo, ma cogliendo l’essenza del trend attuale.
Dopo l’allargamento dell’Unione europea da quindici a ventisette Stati, che ha seguito di poco l’introduzione dell’euro, noi siamo a volte rimasti abbagliati dalla mera dimensione quantitativa raggiunta dal mercato unico europeo.
Abbiamo spesso comparato tale mercato con il mercato di Stati come gli Stati Uniti e la Cina, compiacendoci di far parte di un mercato di circa 500 milioni di individui, il cui prodotto interno lordo è perfino superiore a quello di Stati Uniti e Cina. Abbiamo, però, a volte, tralasciato di dare peso adeguato ad elementi qualitativi, non quantitativi, i quali fanno sì che i dati sulla popolazione e sul PIL relativi all’Unione europea non sono effettivamente comparabili con quelli di Stati unitari.
Un mercato è tanto più forte e ha tanto più peso nell’economia mondiale quanto più efficaci ed oculate sono le scelte di politica economica e monetaria che lo indirizzano. Stati Uniti e Cina hanno un governo e una banca centrale che determinano in materia articolata le rispettive politiche economiche e monetarie e che possono prendere in tempo reale tutte le misure che le contingenze economiche, di volta in volta favorevoli o sfavorevoli, richiedono. Nell’Unione europea, invece, le scelte di politica economica sono compiute individualmente e separatamente da ventisette Stati membri, ognuno per suo conto. Le sole di tali scelte che gli Stati membri sono riusciti a concordare a livello dell’Unione europea, senza incidere sulle loro prerogative sovrane, sono sommarie e assai poco articolate. Esse non riguardano i livelli delle entrate fiscali e della spesa pubblica, ma soltanto il risultato che è a valle di tali scelte (rapporto del deficit e del debito pubblico con il PIL). Sono scelte, inoltre, “congelate”, in quanto affidate una volta per tutte, attraverso il Patto di stabilità, ad un trattato internazionale, per giunta concluso in tempi di favorevole congiuntura economica. Per cambiare tali regole, quando è necessario cambiarle, occorre un nuovo trattato internazionale che deve essere ratificato da ventisette Stati, mentre i governi degli Stati unitari possono cambiare le regole in questione dall’oggi al domani ed articolarle adeguatamente. Inoltre, i trattati internazionali si possono violare più facilmente delle decisioni governative. La sanzione comunitaria per tali violazioni non è un deterrente efficace per gli Stati membri, come la storia recente ci insegna e come è logico che sia in una comunità di Stati sovrani.
Quanto all’euro, la sua forza rispetto alle altre monete, segnatamente il dollaro americano, ci ha indotto spesso ad un facile ottimismo e autocompiacimento. In effetti, tale forza non è il risultato di determinate scelte di politica economica, particolarmente felici, da parte di un governo centrale. Se tale governo centrale esistesse, probabilmente prenderebbe misure per controllare i livelli di cambio dell’euro, come fanno Cina e Stati Uniti. La verità è che tale forza si regge essenzialmente sui dati economici di un solo Stato, la Germania, il cui livello di esportazioni è l’unico, tra quelli dei paesi dell’eurozona, ad avere una qualche rilevanza mondiale.
Chiedo scusa, a questo punto, se non resisto, come forse dovrei, alla tentazione di un riferimento che potrà apparire autoreferenziale. Nell’edizione del mio manuale sull’Unione europea che fece immediatamente seguito al Trattato di Maastricht del 1993, espressi l’opinione che, senza una politica economica decisa a livello comune per tutti gli Stati dell’eurozona, l’euro non fosse una conquista irreversibile e che potesse solo reggersi in periodi di occasionale convergenza delle economie degli Stati che lo avevano adottato. Sarebbe stato, invece, a rischio in caso di deterioramento delle economie di uno o più Stati dell’eurozona, in quanto, in assenza di possibilità di svalutazione, il mantenimento del cambio dell’euro verso le altre monete avrebbe comportato dei sacrifici anche per gli Stati più virtuosi, sacrifici che avrebbero potuto alla lunga divenire inaccettabili. Questa opinione rafforzò la mia reputazione di euro-scettico e venne ritenuta un’eresia rispetto alla retorica comunitaria allora dominante. Eppure Jacques Delors, il padre dell’euro, lo aveva detto chiaramente e lucidamente: l’euro la moneta unica non è che un ponte gettato verso la federazione europea in attesa che qualcuno vi ponga sotto i pilastri. I pilastri sono la politica economica decisa a livello comune per tutti gli Stati dell’eurozona, senza la quale il ponte è a rischio di crollo.
Le vicende di questi ultimi tempi, purtroppo, mi hanno dato ragione e non me ne rallegro affatto. Non è più un’eresia dire che l’euro è a rischio, anzi ormai è un dato di fatto acquisito, tanto che molti ritengono indispensabili, per eliminare tale rischio, misure sommariamente definite di natura “politica”, con riferimento, forse, ad una qualche forma di restrizione della libertà degli Stati quanto alle loro scelte di politica economica ed una qualche forma di centralizzazione delle stesse. Le ricette, però, sono assai confuse, e tralasciano spesso la considerazione che una politica economica unica per tutti gli Stati dell’eurozona implica ben più che una modifica degli attuali trattati, bensì, occorre dirlo con chiarezza, il loro superamento attraverso soluzioni di tipo federale, che porrebbero seriamente in causa il nodo della sovranità degli Stati dell’eurozona.
Né gli Stati dell’eurozona, né tantomeno dell’Unione europea, d’altra parte, mostrano alcuna intenzione di volersi dare una politica economica unica, ben consci dei rischi che ne deriverebbero per le loro prerogative sovrane, cui non intendono in alcun modo rinunciare. Essi dimenticano che tutti gli Stati appartenenti all’eurozona hanno tratto forti vantaggi dall’appartenenza alla stessa, finora illudendosi che non ci fosse un prezzo da pagare. I paesi cosiddetti “periferici”, Italia compresa, hanno beneficiato di un immediato e duraturo (fino a tempi molto recenti) calo dei tassi di interessi e quindi del costo del debito pubblico, e di una maggiore stabilità finanziaria e valutaria, senza credere di dover in cambio mettere in atto politiche di spesa pubblica più prudenti e riforme strutturali atte ad aumentare produttività e competitività. I paesi più forti, come la Germania, hanno beneficiato di un mercato “captive” di altri paesi europei rispetto ai quali potevano più facilmente guadagnare competitività a beneficio dei propri esportatori, senza credere di dover poi intervenire a sostegno dei paesi che stavano accumulando debiti crescenti proprio a causa della loro minore competitività. Oggi entrambi questi due gruppi di paesi si trovano a far fronte a costi che d’improvviso appaiono molto concreti e ingenti.
Assistiamo, quindi, al fenomeno per cui, di fronte a crisi economiche di determinati paesi dell’eurozona e alla conseguente necessità di offrire un sostegno a tali Stati se si vuole evitarne l’uscita dall’area dell’euro, gli Stati economicamente più forti, sui quali maggiormente graverebbe l’onere di tale sostegno, preferiscono cercare soluzioni caso per caso, nell’ambito di direttòri ristretti a due o tre di loro. In tali direttòri vengono faticosamente raggiunti — quando vengono raggiunti — accordi relativi alle misure di politica economica cui si chiede agli Stati dell’eurozona con le economie più a rischio di conformarsi, pena il mancato sostegno agli stessi, con conseguente rischio di una loro uscita dall’euro o, pena l’esercizio del diritto di veto nel Consiglio direttivo della BCE, quando quest’ultima è chiamata a svolgere tali azioni di sostegno.
Tutto questo, si badi, avviene anche al di fuori degli specifici trattati. Ad esempio, l’EFSF (il cosiddetto Fondo di stabilità) è una società di diritto privato lussemburghese i cui azionisti sono gli Stati dell’eurozona. Com’è noto, l’incremento delle garanzie da parte di tali Stati è stato assoggettato a passaggi parlamentari interni, il più pubblicizzato dei quali è stato quello tedesco del 29 settembre 2011 (in Italia aveva avuto luogo il 15 settembre 2011).
Molti ravvisano in tali azioni da parte di direttòri di Stati l’esautoramento dei poteri delle istituzioni dell’Unione europea — la Commissione in particolare — e se ne dolgono. Questa conclusione è errata, in quanto le istituzioni dell’Unione europea non possono essere esautorate rispetto a poteri che non hanno in base ai trattati istitutivi. Piuttosto, va rilevato che tali azioni da parte degli Stati più forti non sono che manifestazioni del più generale fenomeno del recupero da parte di tutti gli Stati membri del momento intergovernativo dell’integrazione europea, rispetto a quello comunitario, recupero chiaramente iniziato con il processo che ha portato al Trattato di Lisbona dopo il fallimento del cosiddetto Trattato costituzionale e con il Trattato di Lisbona stesso. Almeno, azioni del genere hanno il merito di fare chiarezza su chi sono i veri protagonisti dell’integrazione europea in questa fase storica: gli Stati membri più forti economicamente e, quindi, più importanti. Si conferma, quindi, all’interno della più ristretta comunità di Stati costituita dall’Unione europea, quella che da sempre è la norma nel diritto internazionale generale: gli Stati più importanti sono determinanti per stabilire le regole di diritto nella comunità internazionale.
Il fatto che, in una situazione quale quella accennata, alcuni Stati membri si riuniscano in forme di direttòrio e concordino regole di politica economica da imporre di fatto agli Stati più deboli, pena il rifiuto del sostegno economico necessario per la permanenza di questi ultimi nell’eurozona, presenta perfino aspetti positivi. Esso elimina, d’un colpo solo, alcune illusioni nelle quali alcuni si erano cullati, in particolare che il metodo comunitario potesse portarci alla politica economica unica per tutta l’eurozona e che l’euro fosse una conquista irreversibile. Il re (l’attuale Unione europea e l’eurozona) ci appare nudo e Stati che hanno difeso ad oltranza le loro prerogative sovrane ostacolando in ogni modo progressi comunitari che parevano attentare a tale sovranità, si rendono improvvisamente conto che hanno di fatto comunque perso questo bene della sovranità così ottusamente difeso, almeno con riguardo alla politica economica, dato che le loro politiche di bilancio sono ormai eterodirette. Alcuni di tali Stati potranno persino sentirsene sollevati, in quanto sgravati da un compito (quello di formulare e attuare al proprio interno politiche economiche improntate a rigore, crescita ed equità) cui evidentemente, considerati i risultati, non hanno saputo far fronte adeguatamente. Resta, però, il fatto che tali scelte di politica economica di fatto imposte dall’esterno, nonostante incidano profondamente sui cittadini degli Stati che le subiscono, sono formulate, a prescindere dalla loro validità, ad un livello sottratto ad ogni controllo democratico da parte dei cittadini stessi. È una constatazione che non può non angosciare chi si ostina a credere nella validità del sistema democratico. Per di più, è lecito pensare che le scelte suddette corrispondano essenzialmente agli interessi nazionali degli Stati economicamente forti che le compiono e le impongono, non all’interesse generale dell’Unione europea o dell’eurozona.
Cadute, quindi, le illusioni sopra menzionate, occorre che gli attori del processo di integrazione europea (governi, popoli, società civile) si interroghino seriamente e urgentemente su quali azioni intraprendere nell’interesse generale dei popoli europei, cioè di tutti noi.
Al riguardo, appare chiaro che quello che, dieci anni fa, gli estensori della Dichiarazione di Laeken del 15 dicembre 2001 avevano individuato come il “bivio” (crossroad) è lo stesso di fronte al quale si trova, ora come allora, l’Unione europea. In questi ultimi dieci anni gli Stati membri non hanno effettuato una scelta chiarificatrice in proposito e questa mancanza di scelta ha avuto le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti.
Con tale Dichiarazione, e con riferimento al “bivio” di cui sopra, il Consiglio europeo di Laeken aveva definito il mandato della Convenzione incaricata di stendere il progetto di Costituzione europea, additandole, sotto forma di domande, le principali linee per un progetto di revisione dei trattati. Nelle poche ma dense pagine di tale mandato (parti I e II della Dichiarazione di Laeken) si fa riferimento ben dodici volte alla necessità di “legittimità democratica”, “controllo democratico”, “valori democratici” e simili, a testimonianza del fatto che questo è il nodo cruciale irrisolto della costruzione europea. In effetti, il problema della mancanza di un’effettiva legittimazione democratica del processo di integrazione europea appariva tollerabile solo fintanto che l’azione comunitaria restava prevalentemente concentrata sulla instaurazione del mercato unico. È divenuto intollerabile con l’allargamento di tale azione ad altri campi, già con l’Atto unico europeo del 1987, ma soprattutto con il Trattato di Maastricht del 1993 che ha introdotto l’euro.
Il “bivio” in questione è tra due possibili strade che l’integrazione europea può percorrere. La prima consiste nel mantenimento dello status quo, cioè della politica dei “piccoli passi” finora perseguita a livello comunitario e intergovernativo, facendo bene attenzione a che nessuno di tali passi implichi sostanziali rinunce di sovranità da parte degli Stati membri. Questa strada non può, ovviamente, portare alla risoluzione dei problemi del deficit democratico e della inefficienza dei meccanismi decisionali comunitari, ancorati alla regola dell’unanimità per tutte le decisioni più importanti. Il processo di integrazione europea, se procederà, lo farà con fatica e continuerà a non conquistare i cuori e le menti dei cittadini europei. Esso tenderà, anzi, a riassestarsi su basi più marcatamente economiche, secondo le preferenze mai celate di una certa parte degli Stati membri, prima fra tutti (ma non soltanto) la Gran Bretagna. In più, come gli eventi recenti confermano, gli Stati membri si riapproprieranno di alcune delle competenze già cedute all’Unione europea, attraverso il rafforzamento del metodo intergovernativo rispetto a quello comunitario, in sintonia con la riaffermazione degli interessi nazionali. Sarà inevitabile che, in tale contesto, i governi, non più guidati dai lungimiranti padri fondatori dell’Europa, guardino più alle esigenze di allargare il loro rispettivo consenso popolare in vista delle elezioni interne di volta in volta in scadenza, che all’interesse comune dei popoli europei, rincorrendo gli aspetti più nazionalistici delle rispettive opinioni pubbliche, invece che esercitare una funzione di leadership di tali opinioni che le porti a tenere conto di interessi di più ampio respiro, i quali poi corrisponderebbero ai loro stessi veri interessi.
Purché si abbia compiutamente coscienza di ciò, ci si potrebbe persino accontentare di questa soluzione, dati gli indubbi benefici che sono derivati per gli Stati membri dall’integrazione economica comunitaria negli ultimi cinquanta anni, anche senza l’euro. Certamente, però, se questa è la strada che gli Stati membri sceglieranno (anche se solo per inerzia), l'Unione europea dovrà abbandonare ogni progetto di una politica economica unica, che sola renderebbe l’euro irreversibile, con la conseguenza che i problemi della tenuta dell’euro si ripresenteranno puntualmente ad ogni crisi economica di uno Stato dell’eurozona, con conseguenze imprevedibili per tale tenuta. Per inciso, l’Unione europea dovrà anche abbandonare ogni progetto (anche se, francamente, non appaiono esservene in vista) di una politica estera e di difesa unica, entrambe auspicate da tutti coloro che ritengono che l’Unione europea dovrebbe “parlare con una sola voce” in queste aree, senza tuttavia rendersi conto delle implicazioni di una tale svolta, che sarebbe chiaramente in senso federale.
Se, invece, gli Stati membri vorranno imboccare una strada diversa e dotarsi di una politica economica unitaria (nonché, eventualmente, di politiche estera e di difesa unitarie) non è attraverso il metodo intergovernativo che potrebbero raggiungere questo obiettivo, vuoi per le evidenti difficoltà di raggiungere un consenso, nell’attuale situazione storico-politica, su decisioni condivise dagli Stati membri, che per il deficit democratico che minerebbe alla base l’eventuale adozione delle decisioni stesse senza adeguati passaggi parlamentari.
Neppure il metodo comunitario potrebbe prestarsi a tale scopo. Non sarebbe, infatti, possibile che una qualche forma di politica economica unitaria, anche se indispensabile per la tenuta dell’euro, possa essere individuata e gestita a livello delle attuali istituzioni dell’Unione europea, nonostante ciò sia stato auspicato da alcuni. La politica economica o di bilancio implica scelte relative ai livelli di tassazione e di spesa pubblica e trasferimenti di risorse al livello di tale spesa pubblica, come avviene all’interno di uno Stato unitario. Ma tali scelte, negli Stati di diritto, quali si vantano di essere gli Stati membri, competono al potere legislativo (no taxation without representation), o ad un potere esecutivo fornito di un’effettiva legittimazione democratica. Non potrebbero, quindi, essere affidate alla Commissione o al Consiglio dell’Unione europea, senza rinunciare ad uno dei capisaldi della democrazia, di cui, in Europa, ci vantiamo di essere la culla. Già l’azione della BCE, azione che tende ad ampliarsi in una situazione di stallo decisionale a livello degli Stati membri e della Commissione, dovrebbe indurre a qualche preoccupazione, essendo la BCE sottratta a qualsiasi controllo democratico. Non parliamo, poi, della politica estera e di difesa, che implica scelte su temi come la pace o la guerra, rispetto ai quali i cittadini non possono non essere coinvolti a pieno titolo nelle scelte relative.
Appare chiaro, quindi, che la soluzione di tutti questi problemi non può passare attraverso l'attuale esperienza dell’integrazione europea che ci ha portato all’Unione europea. Occorrono soluzioni istituzionali che eliminino il deficit democratico, le quali comportano necessariamente che il processo legislativo venga sottratto almeno in parte ai governi degli Stati membri ed attribuito ad organi democraticamente eletti cui dovrebbe essere anche affidato il controllo dell'esecutivo. I processi decisionali non sarebbero, quindi, più basati sulla regola dell’unanimità, ciò che porterebbe naturalmente, come avviene all’interno di ogni Stato unitario, al sacrificio degli interessi particolari a favore del perseguimento dell’interesse generale.
L'unico metodo che può consentire di affrontare con successo le sfide menzionate è il metodo federale, come comunemente inteso, cioè come trasferimento ad un ente centrale di alcune competenze, più o meno numerose, da parte di Stati prima sovrani, i quali, a seguito di tale processo, rimarrebbero Stati federati privi di soggettività internazionale, soggettività che competerebbe, invece, allo Stato federale. È vero che appare, a volte, addirittura politically incorrect ricorrere, parlando dell’Unione europea, al termine “federale”, termine sistematicamente espunto da qualsiasi revisione dei trattati nonostante i reiterati tentativi di inserimento. Ma ciò è dovuto alle ovvie resistenze da parte degli Stati membri, dotati, come gli individui, di un accentuato istinto di conservazione. Ed è anche vero che una parte della dottrina si applica grandemente a spiegare che l'esperienza dell'Unione europea ha superato la dicotomia Stato nazionale-Stato federale, realizzando una formula di “governance multilivello” del tutto nuova ed originale. I contorni di tale nuova formula appaiono, però, fumosi e questi sforzi non contribuiscono a fare chiarezza sui nodi cruciali dell'integrazione europea (anzi ne ritardano la soluzione), nodi i quali restano, di revisione in revisione dei trattati, irrisolti.
Se il metodo federale è l'unico che possa portare a traguardi più ambiziosi, il cui raggiungimento tutti sembrano formalmente auspicare, sorvolando, però, sulla perdita di sovranità per gli Stati che ne conseguirebbe, è anche chiaro che tale federazione europea sarebbe una federazione “leggera”, i cui compiti dovrebbero limitarsi a quelli necessari a far fronte alle sfide suddette: politica economica, estera, di difesa. Le altre competenze rimarrebbero agli Stati federati, evitandosi, così, anche gli eccessi regolamentari che caratterizzano presentemente alcuni atti dell’Unione europea, allontanandola sempre più dai cittadini. Non si tratterebbe di un “Superstato”, formula che evoca uno Stato autoritario e cui i fautori dello Stato nazionale a volte fanno ricorso per scongiurare svolte in senso federale, ma sarebbe, invece, lo Stato nel quale i cittadini europei verrebbero democraticamente rappresentati e si riconoscerebbero. Né sono conciliabili con tale Stato federale formule ambigue e contraddittorie, quali la “Federazione degli Stati nazionali” o la “Federazione degli Stati sovrani”, dietro cui si sono trincerati a volte i fautori di cui sopra.
Una soluzione chiaramente federale eviterebbe, poi, quelle forme di “federalismo strisciante” pur in corso di sperimentazione attraverso strumenti quali il mandato d’arresto europeo, ove le soluzioni adottate, in assenza di un vero ed effettivo contesto costituzionale federale, con relative tutele in tale contesto dei diritti fondamentali degli individui, finiscono con il presentare preoccupanti profili antilibertari.
Occorre, però, subito dire con realismo che una prospettiva federale non sarebbe stata ipotizzabile nemmeno prima del recente allargamento dell’Unione europea da quindici a ventisette Stati, date le grandi divergenze tra i suoi membri, e il discorso non potrebbe neppure porsi ora dopo tale allargamento. Infatti, i nuovi Stati più recentemente entrati nell'Unione europea stanno assaporando una libertà ed un'indipendenza di cui per troppo tempo non hanno goduto. Non sarebbero certo disposti a rimettere in gioco tali beni in nome di una federazione europea ed, anzi, forti spinte nazionalistiche caratterizzano alcuni di tali nuovi Stati. Sotto questo profilo (e, si badi, solo sotto questo profilo), è chiaro che procedere all’allargamento dell’Unione europea, prima di risolvere i problemi suddetti, è stato un errore che ormai molti riconoscono.
Quindi, una federazione europea può solo avere qualche speranza di realizzazione in un ambito ristretto di Stati, un “nocciolo duro” che, in definitiva, si restringe ai Sei che hanno iniziato il processo di integrazione europea o, al massimo, a tutti o parte di quelli che hanno introdotto al loro interno la moneta unica. Una tale federazione europea, che costituirebbe un nuovo Stato, membro a pieno titolo dell'Unione europea che rimarrebbe in vigore tra i restanti Stati membri, finirebbe con il fungere da polo di attrazione per quelli tra tali restanti Stati che ne condividano gli ideali, come è avvenuto per la CEE a sei membri che ha attratto via via un gran numero di altri Stati in un primo tempo riluttanti o dichiaratamente ostili. L’Unione europea, con questo forte nucleo federale al proprio interno, si potrebbe poi allargare senza timori ancora a nuovi Stati terzi (nell’area dei Balcani, senza parlare della stessa Turchia) ed in ciò consisterebbe quella Europa a due velocità di cui da tempo parlano coloro ai quali stanno maggiormente a cuore le sorti dell’Europa.
Dato, però, che una tale soluzione sarebbe destinata ad incidere su un nodo cruciale, la sovranità degli Stati membri, non è possibile chiedere che siano questi ultimi a proporre soluzioni del genere, le quali necessiterebbero comunque di adeguati passaggi parlamentari. Questo è particolarmente vero in questo momento storico, in cui i governanti europei non appaiono particolarmente illuminati come lo erano i padri fondatori. La sentenza della Corte costituzionale tedesca del 30 giugno 2009, relativa all’immissione del Trattato di Lisbona nell’ordinamento tedesco, pone impietosamente l’accento su questo punto del necessario passaggio parlamentare, con invidiabile lucidità scevra da retorica.
Un tale processo costituente non può che partire, quindi, dagli stessi cittadini europei e dalla società civile. Molti ritengono che i cittadini europei mostrino ostilità rispetto all’Europa e non accetterebbero mai soluzioni federali. La mia opinione personale è che, anche se questo fosse vero, deriverebbe dal fatto che essi sono male informati dai rispettivi governi e dagli organi preposti all’informazione. Inoltre questa pretesa ostilità è un riflesso a volte degli opachi meccanismi decisionali dell’Unione europea e dei suoi deludenti risultati. I cittadini europei di singoli Stati sono stati finora invitati con referendum a pronunciarsi solo su testi articolati, spesso poco comprensibili, di interi trattati, sui quali dovevano rispondere con un “si” o con un “no”. Un compito impossibile. Hanno finito con l’esprimere un giudizio, spesso negativo, sui loro rispettivi governanti.
I cittadini europei dovrebbero essere, invece, chiamati a rispondere, con un referendum da tenersi in tutta l’Unione europea, cosa che non si è mai fatta, su un semplice quesito: accetterebbero la perdita di sovranità dei loro Stati di appartenenza per consentire, in un contesto democratico, una politica economica, estera e di difesa europea, o preferiscono che tali Stati restino parti di un’Unione europea così com’è ora? Crediamo che sia intellettualmente onesto per i governanti degli Stati membri, a questo punto del processo di integrazione europea e alla luce dell’attuale momento di crisi, confrontare i loro cittadini con questa scelta di fondo, invece che perseguire tenacemente il mantenimento della propria sovranità a tutti i costi, rischiando l’irrilevanza, o peggio, in questi tempi di globalizzazione.
Il Sommo Pontefice, parlando al Parlamento tedesco il 22 settembre 2011, ha individuato l’intima identità dell’Europa nell’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma: l’incontro, cioè, tra la fede in Dio di Israele, la ragione filosofica dei Greci e il pensiero giuridico di Roma. Ebbene, questa nostra Europa merita, per il suo futuro, qualcosa di più delle attuali istituzioni comunitarie.


*Si tratta della lectio magistralis tenuta all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano il 21 ottobre 2011.

 

 

 

 

il federalista logo trasparente

The Federalist / Le Fédéraliste / Il Federalista
Via Villa Glori, 8
I-27100 Pavia