IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LIX, 2017, Numero 1, Pagina 10

 

 

Il Movimento federalista europeo
e i Trattati di Roma

 

SERGIO PISTONE

 

 

Nel momento in cui si celebra il sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma il processo di integrazione europea si trova in una fase estremamente critica, caratterizzata da diffusi e concreti timori (o auspici) di una disgregazione dell’Unione europea. Come contributo alla discussione ritengo che sia utile ricordare il giudizio critico espresso dal Movimento federalista europeo (MFE) al momento della genesi dei Trattati di Roma e confrontarlo con gli sviluppi successivi dell’integrazione fino alla sua attuale fase di crisi esistenziale.
 

Il Congresso del popolo europeo.

Questa critica, oltre che in documenti teorici molto analitici, in articoli e in risoluzioni, si espresse anche in manifestazioni politiche di dura denuncia della inadeguatezza delle iniziative europeistiche governative e nell’organizzazione di una campagna popolare, il Congresso del popolo europeo, imperniata sulla contestazione della stessa legittimità degli Stati nazionali e, quindi, della pretesa di costruire l’unità europea attraverso trattative diplomatiche fra i governi. Per ricostruire in modo adeguato la critica del MFE ai Trattati di Roma, occorre perciò illustrare anzitutto i tratti fondamentali della linea politica generale in cui questa critica si collocava.

Il fallimento del progetto della Comunità europea di difesa (CED) in seguito al voto negativo da parte del Parlamento francese il 30 agosto 1954 produsse una marcata revisione della linea del MFE rispetto alla politica europeistica governativa. Fin dall’avvio della politica di unificazione europea dopo il lancio del Piano Marshall, il MFE, sotto la guida di Spinelli, espresse un orientamento nettamente critico nei confronti dell’approccio confederalistico (la creazione di istituzioni europee fondate sul metodo della cooperazione intergovernativa, cioè sul mantenimento della sovranità nazionale assoluta) e funzionalistico (l’integrazione graduale e per settori) al problema dell’unificazione europea. E contrappose a tale impostazione la rivendicazione di una costituzione federale europea, intesa come base istituzionale insostituibile per realizzare effettivamente l’unificazione europea, e di una assemblea costituente europea in quanto organo a cui attribuire l’elaborazione di una simile costituzione onde superare le resistenze nazionalistiche inevitabilmente emergenti nelle conferenze diplomatiche. Questa critica si tradusse in una azione politica fondata sulla mobilitazione dell’opinione pubblica a favore delle rivendicazioni federaliste, ma nello stesso tempo, fino alla caduta della CED, su un’opera di consulenza nei confronti dei governi nazionali diretta a convincerli della necessità di affidare la creazione delle istituzioni europee a un organo democratico-parlamentare.

La prima importante concretizzazione di questa linea politica fu la campagna per il Patto federale europeo nel 1949-50, diretta ad ottenere la trasformazione dell’assemblea consultiva del Consiglio d’Europa in una assemblea costituente.[1] Fallito questo tentativo, la seconda assai più incisiva concretizzazione fu l’azione diretta a collegare la progettata istituzione della CED alla creazione simultanea di una Comunità politica europea di carattere federale. In questo caso l’azione dei federalisti italiani costituì un fattore rilevante della politica di unificazione europea poiché essi riuscirono ad esercitare un’influenza decisiva su De Gasperi. In effetti l’azione di quest’ultimo che portò all’art. 38 della CED e, quindi, all’Assemblea ad hoc fu ispirata da Spinelli, il cui rapporto con De Gasperi è paragonabile a quello fra Monnet e Schuman, salvo ovviamente il fatto che Spinelli aveva come obiettivo il superamento immediato del funzionalismo in direzione del federalismo.[2]

La caduta della CED e i successivi accordi di Londra e di Parigi che portarono all’istituzione dell’Unione europea occidentale spinsero il MFE a rivedere nettamente la linea politica fino ad allora seguita. Questi fatti, nell’analisi che ne fecero allora i federalisti italiani,[3] segnavano una svolta profonda nella politica di unificazione europea, vale a dire la fine dell’“epoca dei governi europeisti”.[4] Il fatto che i governi di sei paesi, benché destinati come tutti i governi nazionali alla tutela della sovranità dei rispettivi Stati, avessero avviato nei primi anni Cinquanta una politica di unificazione europea così avanzata da portarli ad accettare i suggerimenti dei federalisti appariva legato a una situazione storica particolarmente favorevole, della quale venivano sottolineati quattro fattori fondamentali.

In primo luogo i sei Stati della cosiddetta “piccola Europa” si trovavano in una condizione di prostrazione e di debolezza talmente acute da costringere sulla difensiva le forze interessate alla conservazione della sovranità nazionale assoluta e aventi le loro basi nella diplomazia, nelle alte burocrazie civili e militari, nei settori economici pubblici e privati avvantaggiati dal nazionalismo economico. In secondo luogo la Russia di Stalin incuteva paura a tutti i paesi occidentali con la manifestazione di una volontà espansionistica e spingeva le classi dirigenti democratiche, soprattutto dei paesi in cui i partiti comunisti erano più forti, al superamento degli egoismi nazionali. In terzo luogo gli USA, che con i loro aiuti prima economici e poi militari esercitavano una grande influenza sull’Europa democratica, erano convinti che fosse loro dovere non solo proteggere militarmente l’Europa occidentale, ma anche assisterla affinché si unisse. Vi era infine il problema cruciale della ricostruzione economica e militare della Germania occidentale che, in un periodo in cui il ricordo dell’espansionismo tedesco era ancora molto vivo, spingeva soprattutto il governo francese a una impostazione soprannazionale percepita ampiamente come l’unica in grado di risolvere alla radice la questione tedesca.

Proprio l’attenuarsi dei tre primi fattori favorevoli ad una politica europeistica avanzata da parte dei governi era stata la ragione fondamentale, secondo l’analisi federalista, della caduta della CED. Con il relativo riassestarsi delle economie nazionali, grazie agli aiuti americani che erano stati dati per favorire l’unificazione europea, ma che avevano ottenuto scarsissimi risultati in tale direzione, le forze della conservazione nazionale avevano ripreso il sopravvento ed erano diventate sempre più intolleranti di fronte alla prospettiva di cedere poteri sostanziali ad organi sopranazionali. Era inoltre cambiata la situazione internazionale. In seguito alla morte di Stalin si era creata una nuova situazione di potere nella leadership sovietica che, facendo emergere delle prospettive di attenuazione della guerra fredda e di distensione, aveva indebolito la disponibilità a soluzioni sopranazionali da parte di quanti si erano convertiti all’europeismo più per un riflesso di paura che per una chiara comprensione della necessità storica di superare gli Stati nazionali sovrani. Inoltre l’appoggio americano all’unificazione europea era diventato più blando e comunque era diminuita la capacità di influenza americana sugli Stati europei, per cui le diplomazie nazionali erano diventate più capaci di imbrigliare le iniziative dei ministri europeisti. Dopo la caduta della CED e la conseguente decisione di accettare il riarmo nazionale della Germania occidentale nel quadro della NATO e di una organizzazione priva di poteri reali quale l’UEO, si era infine data una soluzione nazionale invece che europea al problema che più di tutti aveva spinto i governi europeisti a impegnarsi seriamente nel tentativo di passare dal funzionalismo al federalismo. Nella nuova situazione che si era in tal modo venuta a creare non era dunque più realistico aspettarsi dai governi nazionali una politica europeistica che andasse al di là della semplice cooperazione fra Stati sovrani e della creazione di istituzioni pseudo sopranazionali.

Sulla base di questa analisi il MFE decise di adottare una nuova linea politica la quale può essere sinteticamente definita come il tentativo di tradurre pienamente in pratica la tesi di fondo che era stata alla base della nascita del Movimento stesso durante la seconda guerra mondiale. Il nucleo politico centrale del Manifesto di Ventotene e degli altri scritti elaborati da Spinelli al confino era la convinzione che i governi e i partiti nazionali non potessero giungere spontaneamente alla realizzazione di una vera unificazione europea implicante il trasferimento di poteri sostanziali da essi controllati ad organi sopranazionali.[5] Per costringerli ad andare al di là di una politica di cooperazione internazionale inadeguata e precaria era pertanto indispensabile la creazione di una forza politica federalista autonoma dai governi e dai partiti nazionali, organizzata su base sopranazionale, capace di mobilitare su larga scala l’opinione pubblica e in grado di sfruttare a proprio vantaggio le situazioni di crisi acuta in cui gli Stati nazionali erano destinati a incappare data la loro inadeguatezza organica di fronte ai problemi del mondo moderno. Questa convinzione, che nella fase di avvio dell’unificazione europea era stata messa in ombra dall’assunzione, legata a una situazione storica contingente, di un ruolo di ispiratori e consiglieri dei governi, divenne dopo la grande sconfitta del 1954 il criterio di orientamento basilare della linea politica del MFE. Tre erano gli aspetti più qualificanti di questo nuovo orientamento.

Anzitutto si decise di assumere un atteggiamento di opposizione senza compromessi nei confronti dei governi e di denuncia intransigente di tutte le loro iniziative europeistiche che non prevedessero la creazione di istituzioni di carattere federale e la partecipazione dei cittadini alla loro definizione. Si sostenne pertanto che l’unico organo legittimato a elaborare la costituzione europea non poteva essere costituito né da diplomatici né da delegazioni di parlamenti nazionali, ma doveva essere eletto direttamente dai popoli europei e che la costituzione da esso votata avrebbe dovuto essere ratificata non dai parlamenti nazionali, bensì tramite referendum popolari.[6]

Per costruire una forza politica in grado di costringere, allorché la situazione diventasse matura, i governi a convocare la costituente europea, si decise quindi di organizzare una campagna capillare e di lungo periodo di mobilitazione dell’opinione pubblica al di fuori dei quadri politici nazionali. Secondo il MFE la grande maggioranza dei cittadini europei, e in particolare di quelli della piccola Europa, era favorevole all’unità europea poiché percepiva l’impotenza degli Stati nazionali. In questo senso esisteva un popolo europeo, che non doveva essere inteso come una comunità etnica, poiché esso era composto da differenti nazioni, ma come una comunità di cittadini che erano gravemente danneggiati nei loro interessi materiali e nelle loro esigenze ideali dall’incapacità degli Stati nazionali sovrani di perseguire efficacemente i compiti — benessere economico, sicurezza, libertà — in funzione dei quali essi erano stati costruiti (e appunto per questa incapacità essi dovevano essere considerati illegittimi); e che aspiravano, sia pure confusamente, al superamento di questa situazione attraverso l’unità europea. Questa diffusa aspirazione non poteva però esprimersi in modo politicamente efficace attraverso le strutture e le procedure politiche nazionali — partiti, elezioni, formazione dei governi nazionali — le quali permettevano di mobilitare solo i cittadini di ogni singolo paese e per obiettivi di politica nazionale. Compito dei federalisti era pertanto quello di creare degli strumenti di azione politica sopranazionale in grado di permettere al popolo europeo di prendere coscienza della necessità di costruire la federazione europea attraverso il metodo costituente e di fare valere questa volontà al di fuori dei condizionamenti prodotti dalle istituzioni politiche nazionali. Lo strumento fondamentale proposto dal MFE per realizzare questo obiettivo era il Congresso del popolo europeo,[7] cioè l’organizzazione di elezioni primarie in varie città d’Europa per dare vita a un congresso di rappresentanti del popolo europeo il quale attraverso il coinvolgimento graduale e progressivo di milioni di persone giungesse ad ottenere la legittimità democratica e il peso politico necessari per poter forzare i governi alla convocazione della costituente europea.

La proposta della campagna per il Congresso del popolo europeo era accompagnata dalla convinzione — e questo è il terzo aspetto rilevante del nuovo corso del MFE — che si trattava di iniziare una battaglia politica a lungo termine. Nel breve periodo non si vedeva cioè alcuna possibilità di spingere i governi a concessioni significative nei confronti delle rivendicazioni federaliste poiché gli Stati nazionali, per quanto storicamente condannati a una inesorabile decadenza, non si trovavano in una fase di crisi acuta. Ma l’impossibilità di risolvere i problemi fondamentali nel quadro della cooperazione fra Stati sovrani e l’inadeguatezza di una politica europeistica incapace di andare al di là di questo quadro avrebbero prima o poi prodotto situazioni di crisi acuta in cui l’alternativa di unirsi o perire (frase pronunciata dal Ministro degli esteri francese Aristide Briand in occasione della sua proposta di unificazione europea del 1929), avrebbe indebolito in modo decisivo le resistenze nazionalistiche. Si trattava di trovarsi pronti per questo appuntamento con una forza politica federalista organizzata sul piano sopranazionale, dotata di un ampio consenso popolare, e in grado perciò di forzare e non solo pregare i governi nazionali.
 

La critica istituzionale della CEE.

Nel quadro di questa linea politica generale il MFE espresse nei confronti dei Trattati di Roma un giudizio radicalmente critico i cui argomenti fondamentali furono sviluppati fin dall’emergere delle prime proposte che portarono alla conferenza di Messina.[8] Questi argomenti vennero poi articolati in modo progressivamente più ampio e approfondito, in relazione allo sviluppo delle trattative e al precisarsi delle forme e del contenuto del rilancio europeo deciso a Messina, fino a che la firma dei testi dei Trattati rese possibile una loro analisi critica dettagliata che portò a una piena conferma del giudizio negativo formulato fin dall’inizio dell’impresa.[9] Data la compattezza logica di questo discorso è opportuno ricostruirlo secondo un criterio essenzialmente tematico piuttosto che cronologico.

Intanto occorre precisare che la critica del MFE ai Trattati di Roma fu in realtà soprattutto una critica alla Comunità economica europea (CEE). All’Euratom fu in effetti dedicata un’attenzione piuttosto limitata perché il MFE si convinse fin dall’avvio della discussione su questa Comunità che, data l’estrema ristrettezza delle sue competenze (che alla fine risultarono ulteriormente ristrette rispetto al progetto iniziale di Monnet), non avrebbe fatto fare passi avanti realmente importanti all’unificazione europea neppure se si fossero potuti realizzare i suoi obiettivi, così come non avevano fatto progredire l’integrazione i vagoni Europ, l’unione postale, quella telegrafica e in generale le agenzie internazionali con ristretti compiti settoriali. Se gli Stati restavano sovrani e le economie nazionali, il fatto di poter disporre di energia atomica a buon mercato sarebbe semplicemente servito ad alimentare ancora le vecchie economie nazionali, senza risolvere nessuno dei problemi di fondo da cui erano angustiate, e cioè i loro parassitismi, i loro squilibri, i loro sprechi, dipendenti dalla loro divisione. Si sarebbe cioè di nuovo verificato quanto era avvenuto con gli aiuti del Piano Marshall i quali, essendo stati gestiti da organi di collaborazione internazionale, invece che da un potere sopranazionale, avevano solo tamponato le falle più vistose delle strutture economiche dei paesi europei ed erano andati quindi sprecati ai fini dell’unità europea. L’Euratom avrebbe inoltre potuto essere utilizzata per realizzare l’armamento atomico nazionale.[10]

Pertanto non si dedicò molto tempo alla critica di questa Comunità e l’attenzione fu concentrata essenzialmente sulla CEE la quale aveva l’obiettivo ben più ambizioso di realizzare l’unificazione del mercato europeo nel suo complesso come base per poi progredire verso l’unificazione politica. Nei confronti di questo progetto venne sviluppata anzitutto una critica di principio. Il MFE riteneva, sulla base degli insegnamenti fondamentali contenuti nel Federalist[11] e ripresi da grandi economisti moderni come Robbins ed Einaudi,[12] che l’effettiva unificazione economica di più entità statali sovrane fosse impossibile senza una preliminare unificazione politica che limitasse la sovranità e instaurasse un potere federale soprastatale. Due erano gli argomenti fondamentali in cui veniva articolato questo assioma, che fin dall’inizio della politica di unificazione europea aveva guidato la critica federalista all’approccio gradualistico-settoriale.

In primo luogo l’unificazione economica degli Stati europei disposti a marciare seriamente in questa direzione aveva il suo presupposto nell’unificazione delle loro politiche estere e delle loro difese perché nessuno Stato sarebbe stato disposto a rinunciare, come era implicito nel concetto di unificazione dei mercati, alla propria autosufficienza economica — condizione della sua indipendenza politica e della sua sicurezza militare — senza serie garanzie che potevano fondarsi solo sull’esistenza di istituzioni federali incaricate appunto di assicurare in modo unitario l’indipendenza e la difesa del territorio di tutti gli Stati aderenti. Inoltre, poiché le relazioni con gli Stati terzi non potevano non influenzare lo sviluppo economico degli Stati coinvolti nell’unificazione, era indispensabile una comune politica estera, possibile solo sulla base dell’unificazione politico-militare, per poter realizzare una economia effettivamente unitaria.

In secondo luogo solo l’esistenza fin dall’inizio del processo di unificazione economica di una autorità sopranazionale fondata sul consenso democratico diretto dei popoli dei paesi partecipanti a tale processo avrebbe reso possibile sconfiggere i potenti e radicati interessi protezionistici presenti nei diversi Stati e imporre il prevalere graduale — quindi non si negava la necessità di uno sviluppo graduale dell’unificazione economica, ma si sosteneva che esso avrebbe potuto mettersi effettivamente in moto dopo e non prima dell’unificazione politica — dell’interesse generale dei popoli europei alla creazione di un sistema economico unitario. Così come nessuno poteva pensare che si potesse instaurare e mantenere una economia unitaria nel singolo paese sottoponendola a un consiglio di governatori provinciali dotati del diritto di veto e responsabili solo di fronte ai parlamenti provinciali, allo stesso modo non aveva alcun senso ritenere che un’economia unitaria europea potesse essere instaurata e mantenuta sulla base della cooperazione di governi nazionali sovrani, strutturalmente orientati a privilegiare gli interessi nazionali particolari rispetto all’interesse comune europeo.[13]

Guidato da questo punto di vista teorico, il MFE sviluppò nei confronti del trattato istitutivo della CEE una critica la cui parte preminente riguardava ovviamente gli aspetti istituzionali. Il filo conduttore della critica istituzionale era la confutazione della dottrina secondo cui le Comunità europee, pur non avendo caratteristiche tali da poter essere assimilate a uno Stato federale, si differenziavano tuttavia nettamente dalle tradizionali organizzazioni internazionali fondate sul mantenimento della sovranità assoluta degli Stati membri, andando a costituire una categoria intermedia fra l’internazionale e il federale caratterizzata dal principio specifico della sopranazionalità, più precisamente, dalla presenza di aspetti o embrioni federali accanto agli aspetti tipici delle organizzazioni internazionali tradizionali. Secondo Nicola Catalano,[14] allora uno dei più brillanti sostenitori di questa dottrina, i fondamentali embrioni federali presenti nelle strutture istituzionali delle Comunità europee erano: la Commissione esecutiva che era nominata dai governi nazionali, ma era da parte di essi inamovibile per il periodo di nomina fissato dai Trattati, e che configurava quindi un embrione di governo europeo; il principio della efficacia immediata della normativa e delle sentenze comunitarie, che dava vita ad un ordinamento giuridico diverso sia da quello interno che da quello internazionale e si avvicinava quindi a un ordinamento giuridico di tipo federale; il principio del voto a maggioranza da parte del Consiglio dei ministri (di cui si prevedeva la graduale introduzione al posto del voto all’unanimità) che comportava una effettiva limitazione del potere sovrano dei governi nazionali; il fatto che l’assemblea parlamentare, se aveva solo un potere consultivo rispetto all’emanazione della normativa comunitaria, aveva d’altro canto un potere di controllo sull’esecutivo tramite l’istituto della censura alla Commissione e avrebbe in futuro dovuto essere eletta a suffragio universale diretto, per cui poteva legittimamente essere considerata un embrione di parlamento federale europeo.

Su ciascuno di questi punti venne formulata una confutazione molto dettagliata di cui riportiamo qui gli argomenti principali.[15]

Contro la tesi circa il ruolo quasi governativo della Commissione si sottolineava anzitutto come questa a confronto con l’Alta Autorità della CECA, fosse stata nettamente ridimensionata a vantaggio del Consiglio dei ministri che ora accumulava in sé il potere legislativo e gran parte degli stessi poteri di esecuzione. A parte ciò l’argomento decisivo riguardava la mancanza di una capacità di esecuzione propria che è la caratteristica fondamentale di un vero governo. Non avendo la CEE il monopolio della forza, che rimaneva invece nelle mani degli Stati aderenti, il suo organo esecutivo autonomo dai governi non aveva il potere di rendere esecutiva la volontà delle istituzioni comuni con strumenti autonomi da quelli dei governi nazionali sulla cui buona volontà era quindi costretto a far conto. Questa debolezza strutturale della cosiddetta autorità sopranazionale aveva il suo riscontro più clamoroso nella previsione di sanzioni alla rovescia contro gli Stati che decidessero di sottrarsi alla disciplina comune. Per questi casi, poiché non esistevano misure efficaci, che solo la capacità di esecuzione propria avrebbe reso possibili, si prevedeva come sanzione contro il trasgressore la possibilità di autorizzare gli altri Stati, per ritorsione, a trasgredire a loro volta — in sostanza si prevedeva l’autorizzazione della faida. All’incapacità di esecuzione propria si sommava la mancanza di autonomia finanziaria che costituisce l’altra caratteristica strutturale di un vero governo. Alla luce di queste considerazioni la Commissione appariva più che un embrione una caricatura di governo.

Circa il principio dell’efficacia immediata della normativa comunitaria si negava che questa fosse una novità introdotta con la creazione delle Comunità europee. Si richiamava in particolare l’esempio della Commissione europea del Danubio che emetteva, tra l’altro, regolamenti di navigazione e tariffe a proposito delle quali si poteva parlare di efficacia immediata. Quanto all’efficacia immediata delle sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee, si faceva osservare come essa si accompagnasse al principio per cui l’esecuzione di tali sentenze era affidata agli Stati (cosa inevitabile data la mancanza del monopolio della forza), il che comportava la sostanziale assimilazione di questo organo ai tradizionali tribunali internazionali.

La critica relativa al voto a maggioranza da parte del Consiglio dei ministri si fondava su di una argomentazione un po’ diversa rispetto alle precedenti. Qui non si negava che una effettiva e sistematica applicazione di questo principio avrebbe comportato la subordinazione della volontà del singolo governo a una volontà sopranazionale. Si riteneva però illusorio credere che questo principio potesse diventare realtà operante nel quadro istituzionale comunitario in vigore. Proprio in conseguenza dell’incapacità di esecuzione propria e della mancanza di autonomia finanziaria degli organi comunitari e, quindi, dell’impossibilità di impedire la secessione dello o degli Stati contrari a proseguire la partecipazione all’unificazione europea, era inevitabile che, secondo la logica delle organizzazioni internazionali fondate sul mantenimento della sovranità assoluta, si imponesse la prassi del voto all’unanimità, anche contro la lettera dei Trattati. Come stava a dimostrare l’esperienza ormai pluriennale della CECA, anche il Consiglio della CEE avrebbe finito per funzionare sulla base di compromessi fra i governi nazionali che non scontentassero nessuno e quindi sulla base del minimo comun denominatore. In questo caso si avrebbe dunque avuto una Comunità governata sulla base di principi di tipo assolutistico — la confluenza nel Consiglio dei ministri del potere legislativo e di gran parte dei poteri di esecuzione —, ma allo stesso tempo in modo del tutto inefficiente perché si sarebbe trattato di un governo con sei teste.

Infine, a proposito dell’Assemblea parlamentare, si sottolineava che essa aveva un potere di controllo, tramite la censura, nei confronti della Commissione che era una caricatura di governo, ma non nei confronti del Consiglio che era la massima autorità decisionale della Comunità. La eventuale elezione diretta dell’Assemblea era d’altra parte giudicata contraria ai più elementari principi democratici, data la mancanza di poteri di quest’organo, e quindi inutile e controproducente. Un’elezione europea diretta avrebbe avuto senso solo per dar vita a una assemblea costituente.[16]

La conclusione che si traeva da questa critica istituzionale era drastica: poiché le Comunità non costituivano una reale innovazione rispetto alle tradizionali organizzazioni internazionali, sarebbe stato più opportuno evitare di appesantirle con tutte quelle inutili bardature istituzionali e creare un meccanismo più agile e meno pretenzioso, cioè del tipo OECE; il fatto era che i governi, dopo aver seppellito il progetto di autentica unificazione costituito dalla CED e dal suo legame con la Comunità politica europea, dovevano far credere all’opinione pubblica che, ciò nonostante, la costruzione europea progrediva.
 

La critica economica della CEE.

Dalla critica istituzionale del trattato istitutivo della CEE derivava, sulla base dell’assioma relativo alla ineliminabile priorità dell’unificazione politica rispetto a quella economica, una radicale svalutazione della possibilità di compiere sostanziali passi avanti nell’unificazione economica europea sulla base delle istituzioni comunitarie, e, di conseguenza, la non necessità logica di analizzare gli obiettivi economici della CEE. Ciò nondimeno il MFE sviluppò un’ampia analisi critica anche di questo aspetto, concentrando in particolare l’attenzione sulle carenze del progetto di unificazione economica europea proprio della CEE, le quali derivavano dalla inadeguatezza delle istituzioni.

Una fondamentale carenza della CEE era considerato anzitutto il fatto che in essa mancasse qualsiasi disposizione circa la creazione di una moneta comune. Ciò derivava chiaramente dal fatto che non si era voluto creare un vero governo europeo e, di conseguenza, si era dovuto accantonare il problema dell’attribuzione alla CEE di poteri nel campo monetario che non potevano che essere gli attributi di una istituzione sovrana. D’altra parte ciò minava alla base il progetto di integrazione economica perché un mercato comune poteva funzionare solo in quanto sussistesse nell’area unificata una moneta comune, non diverse monete nazionali a cambi incerti e fluttuanti. E ciò per due ordini di ragioni: in primo luogo solo perché una moneta unica avrebbe permesso pagamenti e previsioni sicure su tutta l’area del mercato comune ed eliminato alla radice i rischi di restrizioni valutarie; in secondo luogo perché solo mediante l’istituzione di una moneta comune avrebbero potuto essere interamente superati i problemi di cambio e di equilibrio delle bilance dei pagamenti che altrimenti sarebbero rimasti insolubili e avrebbero imposto, per imprescindibili interessi nazionali, ogni sorta di restrizioni.

Questa carenza costituiva una manifestazione particolarmente vistosa di una carenza d’ordine più generale relativa alle politiche economiche. La CEE prevedeva in modo molto preciso e dettagliato l’abolizione graduale delle dogane e dei contingentamenti per i prodotti industriali (e anche del protezionismo non tariffario) e conteneva la promessa di arrivare all’organizzazione di un mercato agricolo comune nonché alla liberalizzazione dei movimenti dei lavoratori, dei capitali e dei servizi. Era invece estremamente carente in riferimento alle politiche economiche, vale a dire agli strumenti apprestati nell’ambito delle moderne economie miste per affrontare le crisi dovute all’andamento della congiuntura economica, per correggere gli squilibri territoriali, settoriali e sociali prodotti da un incontrollato gioco delle forze economiche, più in generale per orientare lo sviluppo economico verso determinate priorità scelte dalle istituzioni democratiche. In questo campo erano previsti due strumenti, il Fondo sociale e la Banca europea degli investimenti, dotati di risorse e di poteri troppo limitati per avere una seria incidenza riequilibratrice. Per il resto ci si limitava a vaghi impegni ad armonizzare le politiche economiche e sociali degli Stati membri che restavano sotto l’esclusivo controllo dei singoli governi nazionali.

Anche qui si trattava di una scelta obbligata data la natura confederale delle istituzioni comunitarie. Il trasferimento alla Comunità di compiti rilevanti nel settore delle politiche economiche sarebbe in effetti stato possibile solo a condizione di dar vita a un governo europeo di carattere federale, perché solo un governo del genere avrebbe avuto gli strumenti (la capacità di esecuzione propria, il consenso democratico, l’autonomia finanziaria) per attuare efficaci politiche economiche a livello europeo, sostitutive in alcuni casi e concorrenti in altri rispetto alle politiche economiche nazionali. D’altra parte questa scelta comprometteva in partenza le prospettive di seri progressi dell’integrazione economica.

Poiché senza una forte unitarietà delle politiche economiche degli Stati membri non si poteva instaurare e mantenere un mercato unitario (politiche economiche divergenti degli Stati membri avrebbero avuto inevitabilmente effetti restrizionistici, impedendo l’avanzamento verso l’unità del mercato o producendo la rottura dell’unità raggiunta), la realizzazione di questo programma rimaneva legata alla convergenza spontanea di politiche nazionali del tutto indipendenti. Ma questa, a sua volta, se era realizzabile in fasi di congiuntura economica generalmente positiva, era destinata a venir meno nei momenti di crisi che avrebbero prodotto inevitabilmente divergenze nelle politiche economiche nazionali con gli immancabili effetti restrizionistici. La CEE prevedeva addirittura in modo esplicito la possibilità di sottrarsi alla disciplina comune in caso di difficoltà economiche. Le clausole di salvaguardia sanzionavano appunto il principio secondo cui, in caso di crisi economiche, invece di affrontare le difficoltà con forti politiche economiche comuni, sarebbe stato lecito il ritorno al protezionismo.

La mancanza di efficaci politiche economiche a livello europeo, oltre a rendere estremamente precaria l’integrazione dei mercati, implicava altresì che anche i progressi raggiunti su questo terreno sarebbero stati inevitabilmente accompagnati da gravi distorsioni. In particolare un’ampia liberalizzazione degli scambi non accompagnata da vigorose politiche riequilibratrici su scala europea avrebbe prodotto gravi squilibri territoriali, favorendo un’ulteriore concentrazione industriale nelle aree forti d’Europa e la persistenza dell’arretratezza delle aree deboli — un problema che per l’Italia aveva carattere drammatico.[17] Inoltre la lotta contro lo strapotere dei gruppi monopolistici sarebbe diventata ancora più difficile perché, mentre la liberalizzazione degli scambi avrebbe indebolito in generale l’efficacia degli strumenti nazionali di politica economica, non si sarebbero d’altro canto potuti creare validi strumenti europei di politica economica a causa dei limiti delle istituzioni comunitarie.[18]

Questa critica economica della CEE sfociava in una conclusione estremamente drastica. Il Mercato comune, ridotto ai suoi veri termini, era l’impegno dei sei governi ad intensificare nel settore industriale il processo di liberalizzazione che nel quadro dell’OECE era arrivato a un punto morto. Questo impegno era reso possibile da una situazione di forte espansione economica che caratterizzava da alcuni anni i paesi a economia di mercato, la quale rendeva desiderabile e poco temibile alle sei industrie nazionali la liberalizzazione degli scambi e favoriva la convergenza delle politiche economiche. Finché fosse durata la congiuntura favorevole la CEE avrebbe funzionato perché i governi sarebbero stati interessati a farla funzionare, ma essa sarebbe andata in pezzi non appena, con il cambiamento della congiuntura, i governi o una parte di essi avessero ritenuto più conveniente sottrarsi agli impegni assunti. In altri termini la Comunità poteva esistere finché era superflua e sarebbe invece morta nel momento in cui la sua presenza sarebbe stata necessaria, cioè nel momento in cui il mantenimento del Mercato comune fosse diventato in contrasto con le tendenze degli Stati membri o di alcuni di essi.

La conseguenza politica che il MFE trasse da questa analisi, al momento in cui giunse all’ordine del giorno la ratifica dei Trattati di Roma, fu di non schierarsi né con coloro che erano favorevoli alla ratifica, perché ciò avrebbe significato avallare quella che nel migliore dei casi era una illusione, ma che poteva anche essere interpretata legittimamente come una truffa, né con coloro che, come i comunisti, erano contrari alla ratifica perché rifiutavano l’unificazione europea in quanto tale. Fu cioè indicata una terza alternativa: la mobilitazione del popolo europeo a favore della costituente europea e dell’unione federale europea e la denuncia della illegittimità degli Stati nazionali e della falsità delle politiche europeistiche governative.[19]
 

Valutazione della critica federalista alla luce degli sviluppi dell’integrazione europea.

Ricostruita nelle linee essenziali la posizione del MFE sui Trattati di Roma all’epoca della loro genesi, è utile soffermarsi ora su una sintetica valutazione della critica federalista alla luce degli sviluppi dell’integrazione europea. Al riguardo valgono tre considerazioni.

1. La parte debole della critica federalista è la sfiducia nella possibilità di ottenere importanti progressi nell’integrazione economica sulla base delle istituzioni comunitarie. Questa sfiducia fu contraddetta dalla realizzazione negli anni Sessanta dell’unione doganale e della politica agricola comune. Esse ebbero un’influenza determinante sulla grande crescita economica dell’Europa comunitaria che divenne allora la massima potenza commerciale e la seconda potenza industriale del mondo (colmando praticamente il divario in termini di benessere economico rispetto agli USA) e pose le basi dei successivi allargamenti della Comunità favorendo il consolidamento del sistema democratico e la sua estensione a tutta l’Europa occidentale. Negli anni Settanta ci fu, in connessione con la crisi economica mondiale, un blocco dello sviluppo dell’integrazione economica, ma esso poté essere superato attraverso un rafforzamento del sistema comunitario. Si aprì in tal modo la strada alle realizzazioni del mercato unico e dell’unione monetaria e all’estensione dell’integrazione (sia pure su base fondamentalmente intergovernativa) ai settori della politica estera, della sicurezza esterna e di quella interna. Va qui sottolineato che la ripresa dell’integrazione europea negli anni Ottanta ha fornito un contributo sostanziale alla dissoluzione del blocco sovietico derivante dal fatto che i vantaggi visibili dell’integrazione hanno fatto dell’Europa occidentale un polo di attrazione per tutti coloro che nell’Europa centro-orientale e nell’URSS hanno potuto avere informazioni non manipolate sulla reale situazione esistente al di fuori del blocco sovietico, il che ha contribuito potentemente a delegittimare la dottrina comunista circa le insuperabili contraddizioni, sul piano interno e internazionale, proprie del sistema liberal-democratico e dell’economia di mercato. Infine, nel contesto del superamento del sistema bipolare, si giunse all’allargamento del processo di unificazione praticamente a tutta l’Europa ed è giunto all’ordine del giorno il problema dello sviluppo in senso pienamente federale del sistema comunitario.

Ciò detto, occorre sottolineare che il MFE corresse piuttosto rapidamente, alla luce dell’esperienza, la sua visione troppo schematica circa la priorità dell’unificazione politica rispetto a quella economica. Fornì quindi una spiegazione molto convincente del fatto che si fossero potuti realizzare notevoli progressi nell’integrazione economica nonostante il rinvio sine die della creazione di una autorità politica europea di carattere democratico e federale. Questi progressi erano stati resi possibili, secondo questa analisi, da una situazione in cui, in mancanza di un potere politico democratico europeo, era intervenuto come fattore integrativo determinante un potere politico di fatto fondato sull’eclissi di fatto delle sovranità nazionali e sull’unità di fatto delle ragioni di Stato.[20] Con ciò si intendeva in sostanza la debolezza endemica degli Stati nazionali europei, che li costringeva a cooperare per sopravvivere (e quindi a realizzare una crescente interdipendenza fra di loro) e la forte convergenza delle loro politiche estere, difensive ed economiche assicurata dall’egemonia americana, che la caduta della CED aveva rafforzato — fattori che erano particolarmente forti per precise ragioni geostoriche nell’Europa dei Sei. E si precisava d’altra parte che questa base politica dell’integrazione economica europea era strutturalmente precaria anche perché il rafforzamento relativo degli Stati nazionali prodotto dalla stessa integrazione economica era destinato alla lunga a minare le basi della convergenza delle loro ragioni di Stato se questa non avesse trovato una stabilizzazione tramite forti istituzioni sopranazionali.[21] La considerazione relativa all’unità di fatto delle ragioni di Stato implicava anche — va sottolineato —, oltre a una visione più adeguata delle capacità di azione delle istituzioni comunitarie, la convinzione che la lotta per la federazione europea potesse essere perseguita attraverso il graduale rafforzamento del sistema comunitario.

Ciò precisato, se l’esperienza storica ha messo in luce taluni schematismi della critica federalista alla CEE, ha fornito per contro una sostanziale conferma sia della tesi relativa alle inevitabili distorsioni di un processo integrativo non inquadrato da forti politiche economiche comuni, sia della previsione di una crisi profonda dell’integrazione economica in corrispondenza con una seria inversione di congiuntura.

A proposito della prima tesi è sufficiente qui ricordare che i gravi squilibri territoriali, settoriali e sociali caratterizzanti la Comunità, diventata poi Unione europea, continuano a costituire un problema cruciale. Se si sono fatti passi avanti nel superamento di questi squilibri, attivando il comparto delle politiche comuni, ciò è stato possibile in seguito al rafforzamento in direzione federale e democratica delle istituzioni europee. D’altra parte, è evidente che non siamo ancora giunti ad un governo economico e sociale dell’Unione europea adeguato alle necessità e dovrebbe essere altrettanto evidente che, per arrivarci, occorrerà una federalizzazione e democratizzazione compiuta delle istituzioni europee.

Per quanto riguarda la seconda tesi, è un dato di fatto che dal momento in cui, all’inizio degli anni Settanta, si è chiusa la fase di espansione economica mondiale e di stabilità monetaria nel cui ambito si era svolta la fase di realizzazione dell’unione doganale e della politica agricola comune, e si è aperta una fase critica dello sviluppo economico mondiale, l’integrazione economica europea è entrata in una situazione di crisi drammatica, in cui è emersa la prospettiva concreta della dissoluzione di quanto fino ad allora realizzato. Il progresso dell’integrazione economica ha potuto rimettersi seriamente in marcia (superando quella che Jacques Delors definì l’eurosclerosi), solo quando, in connessione con l’elezione diretta del Parlamento europeo, si è avviata una fase di riforme istituzionali in direzione federale e democratica (estensione del voto a maggioranza, rafforzamento del PE e della Commissione). Occorre sottolineare che l’elezione diretta del PE — che introducendo la partecipazione popolare alla costruzione europea ha segnato l’apertura del cantiere istituzionale europeo — è avvenuta non nel contesto del successo dell’integrazione economica, come ipotizzava l’approccio funzionalistico dei padri dei Trattati di Roma, guidato dall’idea dello sviluppo sostanzialmente automatico dall’integrazione economica a quella politica; anzi, è avvenuto precisamente il contrario. La crisi acuta dell’integrazione economica ha aperto la strada alla decisione di mettere in moto un processo in direzione della federalizzazione e della democratizzazione delle Comunità.

2. Per quanto riguarda il risvolto politico della critica del MFE ai Trattati di Roma, vale a dire la scommessa sulla possibilità di costituire una forza popolare autonoma di carattere sopranazionale in grado di forzare i governi nazionali ad accettare la rivendicazione della costituente europea, il giudizio deve essere articolato.

La linea politica di opposizione frontale alla politica europeistica ufficiale e diretta a mobilitare il popolo europeo sulla base della contestazione della legittimità degli Stati nazionali non ebbe il successo sperato. L’attuazione di questa linea politica condusse alla rottura dell’unità dei federalisti sul piano europeo[22] e, sul piano italiano, all’isolamento del MFE nei confronti della classe politica[23] (che portò però ad una profonda riorganizzazione del Movimento federalista in Italia, che compensò l’indebolimento organizzativo[24] con lo sviluppo di una struttura completamente autonoma sul piano finanziario, politico ed organizzativo, capace quindi di portare avanti una battaglia di assoluta minoranza in una situazione di isolamento rispetto alla politica normale). Se quindi la campagna per il Congresso del popolo europeo e le altre campagne popolari che la seguirono nella prima metà degli anni Sessanta non ebbero a causa della debolezza organizzativa della forza federalista un’efficacia mobilitativa dell’opinione pubblica sufficiente a modificare la situazione di potere in senso favorevole alle rivendicazioni federaliste,[25] questo insuccesso non deve indurre d’altra parte a trascurare un fatto di grande importanza. Le campagne popolari svolte dal MFE fra il 1957 e il 1966 hanno avuto il grande merito di mantenere viva in una fase storica in cui i successi dell’unificazione economica tendevano a nascondere i limiti strutturali delle Comunità europee, l’alternativa democratica e federale a una costruzione europea che era debole e precaria proprio perché escludeva la partecipazione popolare. Anche se solo una piccola parte dell’opinione pubblica fu in grado di conoscere il messaggio dei federalisti, queste campagne popolari costituirono il primo esempio nella storia europea di un’azione politica di base capace di svilupparsi in modo unitario al di là delle frontiere nazionali in diversi paesi d’Europa e dimostrarono d’altro canto che, ogni qual volta si chiedeva ai cittadini di esprimersi a favore di una unità europea completa e della partecipazione popolare alla sua costruzione, la risposta era largamente positiva. L’aver in tal modo mantenuto viva la rivendicazione della costituente europea in una fase sfavorevole ha permesso al MFE di svolgere un ruolo efficace allorché la crisi dell’integrazione europea ha nuovamente portato all’ordine del giorno la possibilità di avanzare verso la Federazione europea.

Ciò è avvenuto anche perché, in particolare attraverso la teorizzazione del gradualismo costituzionale da parte di Mario Albertini, venne superata la visione eccessivamente riduttiva delle istituzioni comunitarie che negava la presenza in esse di qualsiasi embrione federale e, quindi, escludeva la possibilità di trovare in esse un qualsiasi appiglio cui agganciarsi per portare avanti con più efficacia la rivendicazione della costituente europea. In questo contesto è emerso l’impegno del MFE a favore dell’elezione diretta del PE — di cui il Congresso del popolo europeo è stato in sostanza un’anticipazione —, fondato sulla convinzione che la legittimità popolare diretta avrebbe aperto la strada alla lotta per l’assunzione di un ruolo costituente da parte dell’Assemblea di Strasburgo. E va sottolineato che l’elezione diretta europea fu ottenuta per il convergere di due fattori fondamentali: una drammatica crisi dell’integrazione europea e una grandiosa azione di mobilitazione popolare svolta dalle organizzazioni federaliste, nella quale svolse un ruolo trainante appunto il MFE.[26] L’azione per l’elezione diretta ebbe il suo seguito nel determinante appoggio delle organizzazioni federaliste, e del MFE in prima fila, all’iniziativa del PE — promossa da Spinelli, divenuto europarlamentare — a favore della riforma istituzionale della Comunità, che ha portato all’approvazione del progetto di Trattato di Unione europea il 14 febbraio 1984 a Strasburgo. Questa iniziativa ha messo in moto la fase di riforma delle istituzioni europee che è giunta fino al Trattato di Lisbona.[27]

3. La terza considerazione riguarda la fase del processo di integrazione europea successiva al Trattato di Lisbona, in cui l’UE si è venuta a trovare di fronte ad una alternativa drammatica che si è progressivamente avvicinata al punto di rottura: o federazione o disgregazione. La tesi fondamentale, che rappresenta il filo conduttore della critica del MFE ai Trattati di Roma al momento della loro genesi, è la convinzione della precarietà e reversibilità dell’integrazione europea in mancanza della realizzazione di una federazione in senso pieno. E’ chiaro che rispetto a questo obiettivo l’integrazione europea è un’opera incompiuta. Ai progressi in senso federale si accompagna la persistenza dei meccanismi confederali (in ultima analisi il fatto che gli Stati nazionali restano “i padroni dei Trattati”) che si manifesta in modo particolarmente evidente con la regola dell’unanimità in settori decisivi quali la politica estera, la sicurezza esterna e interna, la difesa, le dimensioni del bilancio comune (le risorse dell’UE, che sono essenzialmente contributi nazionali, equivalgono a meno dell’1% del PIL europeo, mentre quelle degli USA superano il 20%!), le politiche macroeconomiche, la revisione del sistema istituzionale. Il fatto che non si sia ancora raggiunto un sistema pienamente federale impedisce oggi all’UE di rispondere alle sfide esistenziali che la confrontano e che sono fondamentalmente quattro.

La prima è la sfida della solidarietà. Gli squilibri sociali (disuguaglianza e disoccupazione) e soprattutto gli squilibri territoriali (divari di sviluppo fra paesi forti e paesi deboli dell’UE) sono cresciuti a un tale grado, anche in connessione con la crisi globale di questi anni, da produrre sempre più gravi tensioni sociali e politiche e contrasti nazionalistici i quali mettono in gravissimo pericolo la sopravvivenza dell’integrazione. E’ diventato sempre più urgente il passaggio da una integrazione essenzialmente negativa (eliminazione degli ostacoli al libero movimento delle merci, delle persone, dei capitali e dei servizi) ad un’integrazione positiva, cioè a forti politiche sopranazionali capaci di governare l’economia europea sottraendola al dominio dei mercati. Il che richiede istituzioni sopranazionali fornite dalle necessarie competenze e il controllo dei cittadini europei.[28]

La seconda sfida riguarda la sicurezza. La sicurezza dell’Europa si confronta oggi con gravi minacce di natura globale derivanti dalle contraddizioni di una globalizzazione non governata (povertà e divari di sviluppo, sempre più gravi crisi economiche e finanziarie, nuove sfide poste dal terrorismo internazionale e dalle migrazioni bibliche), dal degrado ecologico, dal crescente disordine internazionale, e ciò in un contesto caratterizzato dall’irreversibile declino dell’egemonia americana e della sua funzione relativamente stabilizzatrice anche in termini di sicurezza europea. Le minacce globali, sommandosi a quelle ai confini meridionali e orientali dell’UE, rendono improcrastinabile l’esigenza di federalizzare la politica europea estera, di sicurezza e di difesa.[29]

La terza sfida è quella dell’emergenza migratoria, che sta mettendo in crisi la libera circolazione delle persone e producendo gravissime tensioni politiche e sociali. Essa richiede una efficiente politica comune, cioè federale, dell’emigrazione diretta sia all’integrazione dei migranti (che sono necessari al progresso economico e sociale europeo), sia alla stabilizzazione delle regioni (in particolare l’Africa) da cui proviene un’emigrazione eccessiva e sempre meno gestibile.[30]

A queste sfide dobbiamo aggiungere quella proveniente dalla crescente disaffezione dei cittadini europei nei confronti dell’UE, che si manifesta nella crescita dei partiti e dei movimenti populistici e nazionalistici, (che, tra l’altro, hanno contribuito in modo decisivo alla Brexit), e che deriva fondamentalmente da due fattori. Il primo è costituito dall’incapacità dell’UE — che ha le sue radici nel sistema intergovernativo paralizzato dai veti nazionali — di affrontare in modo efficace i problemi più acutamente sentiti dai cittadini europei, che si riferiscono ai differenti aspetti della sicurezza (economica, sociale, ecologica, internazionale, governo dell’emigrazione, terrorismo). Il secondo fattore consiste nella mancanza di una reale legittimazione democratica delle istituzioni europee, dato che le fondamentali decisioni non sono né efficienti né soggette ad un controllo democratico corrispondente a quello richiesto dai canoni della civiltà politica occidentale. Questi fattori rinviano all’esigenza cruciale di un vero governo europeo che sia espressione della partecipazione dei cittadini europei al processo democratico.[31]

Il processo costituente della federazione europea che l’MFE chiedeva all’epoca della genesi dei Trattati di Roma è diventato oggi una scelta urgente e vitale, in mancanza della quale prevarrà lo sviluppo catastrofico della disgregazione europea. E’ dunque all’ordine del giorno l’assemblea costituente rivendicata dal Congresso del popolo europeo ed è anche all’ordine del giorno la scelta del metodo dell’avanguardia federale. Poiché una parte degli stati membri dell’UE non mostra la minima disponibilità ai trasferimenti di sovranità che una federazione compiuta comporta, si dovrà optare per il sistema dei cerchi concentrici, cioè per una federazione all’interno dell’UE avente una struttura prevalentemente confederale.

 


[1] Cfr. S. Pistone, Il ruolo del Movimento federalista europeo negli anni 1948-50, in AA. VV., Histoire des débuts de la construction européenne, Bruxelles, Bruylant, 1986, pp. 285-308; Id. (a cura di), I movimenti per l’unità europea 1945-1954, Milano, Jaca Book, 1992.

[2] Cfr. D. Preda, Storia di una speranza. La battaglia della CED e la federazione europea, Milano, Jaca Book, 1990; Id., Sulla soglia dell’Unione. La vicenda della Comunità politica europea (1952-1954), Milano, Jaka Book, 1994; Id., Alcide De Gasperi federalista europeo, Bologna, Il Mulino, 2004.

[3] Quando parlo di linea del MFE intendo le posizioni sostenute nel periodo qui considerato (cioè fra la caduta della CED e l’entrata in vigore dei Trattati di Roma) dal segretario generale Altiero Spinelli e dai suoi seguaci, i più importanti fra i quali furono in quegli anni: Luciano Bolis, Mario Albertini, Alberto Cabella, Paolo Bogliaccino, Andrea Chiti-Batelli, Guido Comessatti, Teresa Caizzi, Mario De Milano, Giulio Guderzo, Gianni Merlini, Amedeo Mortara, Giuliano Rendi. Le posizioni del gruppo dirigente “spinelliano” del MFE nel periodo della genesi dei Trattati di Roma non furono condivise da tutto il movimento, come si vedrà più avanti, ma esse furono sempre maggioritarie per cui con esse si identificò in senso formale e sostanziale la linea politica del MFE.

[4] Cfr. A. Spinelli, Nuovo corso, Europa Federata, 7, n. 10 (1954), pp. 221-227, ripubblicato in A. Spinelli, L’Europa non cade dal cielo, Bologna, Il Mulino, 1960, che contiene i più importanti scritti di Spinelli fra il 1949 e il 1959; Id., Sviluppo del moto per l’unità europea dopo la seconda guerra mondiale, in L’integrazione europea, a cura di G. Grove Haines, Bologna, Il Mulino, 1957, ripubblicato in Id., Il progetto europeo, Bologna, Il Mulino, 1985. Si veda anche A. Chiti-Batelli, Europa 1955, edito dalla Campagna europea della gioventù, Roma, 1955. La documentazione fondamentale relativa alle posizioni del MFE nel periodo qui considerato si trova nell’organo ufficiale del movimento, Europa Federata, che uscì con cadenza quindicinale o mensile dal 1948 al 1960. La ristampa anastatica di questo periodico, curata da S. Pistone, è stata promossa dalla Consulta europea del Consiglio regionale del Piemonte a Torino presso la CELID nel 2004.

[5] Il Manifesto di Ventotene e gli altri scritti fondamentali di Spinelli del periodo bellico sono raccolti in A. Spinelli, Dagli Stati sovrani agli Stati Uniti d’Europa, Firenze, La Nuova Italia, 1950; A. Spinelli-E.Rossi, Il Manifesto di Ventotene, Milano, Mondadori, 2006, con una Presentazione di T. Padoa-Schioppa e un saggio di L. Levi; la ristampa anastatica a cura e con Introduzione di S. Pistone e con un saggio di N. Bobbio è stata promossa dalla Consulta Europea del Consiglio Regionale del Piemonte, a Torino presso la CELID, 2017.

[6] Cfr. A. Spinelli, Il modello costituzionale americano e i tentativi di unità europea, in AA.VV., La nascita degli Stati Uniti d’America, Milano, Comunità, 1957, ripubblicato in Id., Il progetto europeo, op. cit..

[7] Sul Congresso del popolo europeo, che si ispirava all’esempio del Congresso nazionale indiano organizzato da Gandhi nella lotta di indipendenza dal dominio britannico, cfr.: A. Spinelli, Manifesto dei federalisti europei, Parma, Guanda, 1957 (si veda la ristampa anastatica a cura di G. Panizzi, pubblicata dalla Federazione regionale del Lazio dell’AICCRE, Roma, 2006); Id., Una strategia per gli Stati Uniti d’Europa, a cura di S. Pistone, Bologna, Il Mulino, 1989; C. Rognoni Vercelli, Il Congresso del popolo europeo, in S. Pistone (a cura di), I movimenti per l’unità europea 1954-1969, Pavia, Università di Pavia, 1996.

[8] I documenti fondamentali di questo periodo sono: A. Spinelli, Il segreto di Giovanna d’Arco, Europa Federata, 8, n. 3 (1955); P. Bogliaccino, Il punto sul “rilancio” della politica europea, ibid., n. 8 (1955); Id., L’avvenire della CECA, ibid., n. 9 (1955); Promemoria della direzione nazionale del MFE ai sei ministri della CECA in vista della Conferenza di Messina (copia nell’Archivio MFE, depositato presso gli Archivi storici dell’Università europea di Firenze); Mozione della direzione del MFE e dei gruppi parlamentari federalisti sulla conferenza di Messina, Europa Federata, 8, n. 10 (1955). Occorre ricordare che prima della conferenza di Messina una delegazione congiunta del MFE, rappresentato da Nicolò Carandini, Ernesto Rossi e Luciano Bolis, e dei gruppi parlamentari federalisti, rappresentati da Santero, Canevari e La Malfa, fu ricevuta dal ministro degli esteri Gaetano Martino. Inoltre i sei ministri riuniti a Messina ricevettero all’inizio dei loro lavori una delegazione federalista composta dai parlamentari La Malfa e Caron e dal vice-segretario del MFE Bolis, la quale illustrò con una allocuzione di La Malfa il promemoria sopra ricordato. Cfr. Informations Fédéralistes (bollettino interno dell’UEF), n. 26 (1955).

[9] Cfr. in particolare: A. Spinelli, Monnet l’atomo e l’Europa, Europa Federata, 8, n. 19 (1955); Id., Lettera aperta a P.H. Spaak, ibid., 8, n. 21 (1955); Id., Esame critico del rapporto del Comitato intergovernativo della Conferenza di Messina, documento interno del MFE dell’8 maggio 1956 (copia nell’Archivio MFE); Id., La beffa del mercato comune, 24 settembre 1957, ristampato in L’Europa non cade dal cielo, op. cit., pp. 282-287; La falsa Europa dei governi, documento sui Trattati di Roma approvato dal comitato centrale del MFE il 7 aprile 1957 e pubblicato in Europa Federata, 10, n. 7 (1957); A. Chiti-Batelli, I Trattati del Mercato comune e dell’Euratom visti da un federalista, due fascicoli ciclostilati di complessive 277 pagine, editi dal MFE nel 1957 e 1958.

[10] Cfr. M. Albertini, Nenni e l’atomo, Europa Federata, 10, n. 1 (1957), in cui viene criticata la decisione socialista di appoggiare la politica europeistica governativa.

[11] Cfr. A. Hamilton, J. Madison, J. Jay, Il Federalista, con un saggio di L. Levi, Bologna, Il Mulino, 1997.

[12] Il primo e sistematico studio del Federalist in Italia fu compiuto da Aldo Garosci (allora uno dei dirigenti del MFE) con l’opera, Il pensiero politico degli autori del “Federalist”, Milano, Comunità, 1954. I principali scritti di Robbins e di Einaudi sulla necessità di creare un mercato unico europeo e sull’impossibilità di crearlo senza la preliminare costituzione di una federazione politica si trovano ora raccolti in L. Robbins, Il federalismo e l’ordine economico internazionale, con introduzione di G. Montani, Bologna, Il Mulino, 1985, e in L. Einaudi, La guerra e l’unità europea, con introduzione di G. Vigo, Bologna, Il Mulino, 1986. La tesi della priorità dell’unità politica rispetto a quella economica fu in quegli anni autorevolmente sostenuta anche da Ernesto Rossi nel saggio, L’unione economica europea, pubblicato in Sei lezioni federaliste, edito dal MFE, Roma, 1954, nella prefazione alla sua raccolta di scritti, Aria fritta, Bari, Laterza, 1956 e in una lettera a L’Espresso, n. 7 (1957). La sua critica ai Trattati di Roma fu peraltro accompagnata dalla convinzione che non ci fosse più alcuna possibilità di lotta per la federazione europea. Cfr. in proposito la critica di Spinelli a Rossi in Europa Federata, 9, n. 9-10 (1956).

[13] Questa argomentazione venne allora sviluppata in modo particolarmente acuto da M. Deruet, Réalités européennes, con prefazione di G. Vedel, opuscolo edito dall’UEF, Paris, 1957.

[14] Cfr. N. Catalano, La Comunità economica europea e l’Euratom, Milano, Giuffré, 1957.

[15] Il testo fondamentale al riguardo è il 2° vol. del citato, I Trattati del mercato comune e dell’Euratom visti da un federalista, di A. Chiti-Batelli, che svolge una ampia rassegna del dibattito svoltosi fino a quel momento sulla natura giuridica delle Comunità europee e si schiera con la parte della dottrina che tendeva a negare l’originalità delle Comunità rispetto alle tradizionali organizzazioni internazionali.

[16] Questa fu la tesi sostenuta dai rappresentanti del MFE e dell’UEF che parteciparono al convegno di oltre mille parlamentari europei, convocato a Roma dal Movimento europeo dal 10 al 12 giugno 1957, e che approvò le proposte del parlamentare belga Dehousse sull’elezione diretta dell’assemblea parlamentare delle Comunità europee. Cfr. in proposito: A. Spinelli, Parlamentari europeisti a congresso, Europa Federata, 10, n. 11 (1957); A. Chiti-Batelli, Il Congresso d’Europa, ibid., n. 12 (1957); G. Usellini, Le Congrès de l’Europe et la participation de l’UEF, Bulletin européen d’informations, edito dall’UEF, n. 51 (1957). Le risoluzioni approvate dal congresso di Roma sono riprodotte nel n. 61 di Informations Européennes, bollettino del Comité d’action del Movimento europeo.

[17] Su questo punto cfr. in particolare G. Rendi, Cronache dell’europeismo, Europa Federata, 10, n. 3 (1957).

[18] In proposito si vedano soprattutto: M. Albertini, La CECA i cartelli e l’Europa, Europa Federata, 10, n. 13 (1957); P. Maranini, Mistificati e mistificatori, ibid., n. 17-18 (1957); lettera di M. Albertini a Il Mondo del 10 settembre 1957. Gli ultimi due scritti sono una risposta a un articolo di Eugenio Scalari su Il Mondo del 20 agosto 1957, nel quale il MFE veniva accusato di astrattezza in riferimento alla tesi della priorità dell’unità politica rispetto a quella economica e in cui si sosteneva altresì la necessità di una forte politica antimonopolistica a livello italiano anche per contrastare la tendenza dei monopoli ad approfittare della liberalizzazione degli scambi per rafforzare il loro strapotere. I federalisti replicavano che, date le grandi dimensioni delle imprese moderne, solo nell’ambito di un vasto mercato europeo aperto sarebbe stato possibile impedire il formarsi di posizioni monopolistiche, ma che d’altra parte una efficace politica antimonopolistica, che avrebbe dovuto essere europea e non nazionale, presupponeva la creazione di un governo europeo. Questo tipo di critica fu anche rivolto ai socialisti che si apprestavano ad assumere un atteggiamento positivo verso i Trattati di Roma (votarono a favore dell’Euratom e si astennero sulla CEE) con l’obiettivo di battersi perché la politica economica europea si indirizzasse verso il dirigismo. Cfr. Europa Federata, 10, n. 5 e n. 9 (1957).

[19] La manifestazione più clamorosa dei federalisti contro i Trattati di Roma si svolse in occasione di una conferenza sui Trattati, tenuta dal Presidente del consiglio, Antonio Segni, al teatro Adriano di Roma il 31 marzo 1957. Alla fine della conferenza la Gioventù federalista europea di Roma inondò l’emiciclo del teatro con volantini di protesta. Una manifestazione analoga si svolse a Torino ai primi di febbraio in occasione di una conferenza del sottosegretario agli esteri Dino Del Bo, Europa Federata, 11, n. 4 e n. 7 (1958).

[20] Cfr. M. Albertini, L’integrazione europea e altri saggi, Torino, Il Federalista, 1965 e S. Pistone, L’Italia e l’unità europea, Torino, Loescher, 1982.

[21] Il caso esemplare fu rappresentato dal nazionalismo di de Gaulle, che ebbe le sue basi materiali nel rafforzamento economico della Francia prodotto dall’integrazione europea. Cfr. M. Albertini, op. cit..

[22] I federalisti tedeschi (guidati da Ernst Friedländer) e olandesi (guidati da Henri Brugmans) e una parte di quelli francesi (guidati da André Voisin), favorevoli a un sostegno della politica europeistica governativa, uscirono dall’UEF e fondarono nel 1957 l’Azione europea federalista, mentre i federalisti italiani, assieme alla maggior parte di quelli francesi e belgi, promossero la costituzione nel 1959 del Movimento federalista europeo soprannazionale. Questa scissione fu superata nel 1973 con la ricostituzione dell’UEF. Cfr.: S. Pistone (a cura di), I movimenti per l’unità europea 1954-1969, op. cit.; A. Landuyt e D. Preda (a cura di), I movimenti per l’unità europea 1970-1986, Bologna, Il Mulino, 2000; S. Pistone, L’Unione dei federalisti europei, Napoli, Guida, 2008.

[23] Nel periodo qui considerato i più importanti esponenti di partiti nazionali che militavano nel MFE erano i democristiani Caron, Benvenuti, Santero, De Bernardis e Cuocolo, i repubblicani La Malfa, Cifarelli, Tramarollo, Gregory (che fu segretario nazionale della GFE fino al 1958) e Gatto, il liberale Orsello. Con motivazioni diverse essi non accettarono la linea, considerata troppo radicale, del gruppo dirigente spinelliano del MFE e la contestarono apertamente soprattutto in occasione del IX congresso nazionale del Movimento che si tenne a Bolzano dall’11 al 13 ottobre 1957, ma restarono in minoranza. In generale, man mano che si sviluppava la campagna del Congresso del popolo europeo, gli esponenti della classe politica nazionale abbandonarono il MFE o, comunque, rinunciarono a svolgere un ruolo attivo in esso. Tra l’altro il MFE non entrò a far parte del Consiglio Italiano del Movimento europeo che fu ricostituito nel 1956 e vi aderì solo nel 1966. Cfr. P. Caraffini, Il Consiglio italiano del movimento europeo, Bologna, Il Mulino, 2008.

[24] Il MFE, che contava 50.000 iscritti all’epoca della CED e 20.000 al congresso di Bolzano, scese negli anni Sessanta, a causa della scelta della piena autonomia dai partiti e dal governo e della critica intransigente alle iniziative europeistiche ufficiali, a poche migliaia di iscritti, anche se il numero dei quadri attivi è aumentato.

[25] I cittadini che in tutta Europa parteciparono alle elezioni del Congresso del popolo europeo furono 650.000. Altri 100.000 aderirono al Censimento volontario del popolo federale europeo. Per questi dati e per una informazione complessiva sullo svolgimento di queste campagne popolari si vedano M. Albertini, A. Chiti-Batelli, G. Petrilli, Storia del federalismo europeo, ERI, Torino, 1973, pp. 315-318, e le annate dei periodici Popolo europeo (pubblicato in italiano, francese, tedesco e olandese, 1958-1965), Giornale del censimento (italiano, francese, tedesco, 1965-66), Federalismo europeo (italiano, francese, tedesco, 1967-69). Questi periodici sono stati ripubblicai in ristampa anastatica a cura di S. Pistone dalla Consulta europea del Consiglio regionale del Piemonte, Torino, CELID, 2002, 2003.

[26] Cfr.: A. Landuyt e D. Preda (a cura di), I movimenti per l’unità europea 1970-1986, op. cit.; L.V. Majocchi e F. Rossolillo, Il Parlamento europeo. Significato storico di un’elezione, Napoli, Guida, 1979.

[27] Cfr.: A.Landuyt e D. Preda (a cura di), op. cit. ; L. Angelino, Le forme d’Europa. Spinelli o della federazione, Genova, Il Melangolo, 2003; P.V. Dastoli, Verso una costituzione democratica per l’Europa. Guida al Trattato di Unione europea, prefazione di Mauro Ferri e introduzione di Altiero Spinelli, Casale Monferrato, Marietti, 1984. Si veda la ristampa anastatica, a cura di S.Pistone ed edita dalla Consulta europea del Consiglio regionale del Piemonte dei periodici Nota informativa sull’attività del Parlamento europeo (1979-1984) e Crocodile. Lettera ai membri del Parlamento europeo (1980-1983), Torino, CELID, 2008. Si veda inoltre S. Pistone, A trent’anni dal progetto Spinelli, un’iniziativa parlamentare a favore di una Costituzione federale europea, in M. Belluati e P. Caraffini (a cura di), L’Unione europea tra istituzioni e opinione pubblica, Roma, Carocci, 2015.

[28] Cfr. S. Pistone, Il dibattito in Germania su democrazia e unificazione europea: il confronto fra Habermas e Streeck, Il Federalista, 55, n. 2-3 (2013); Id., Federazione europea subito come risposta alla crisi esistenziale dell’integrazione europea e per superare gli squilibri fra paesi forti e paesi deboli dell’Unione europea, Piemonteuropa, n. 1-2 (2013); Id., Il Movimento federalista europeo, in Dizionario dell’integrazione europea, a cura di U. Morelli e F.M. Giordano, Roma, Rubbettino, 2016; G. Rossolillo, Sovranità fiscale nazionale o fiscalità europea?, Federalista, 58, n. 2-3 (2016).

[29] Cfr. S. Pistone, Unione politica e sfide della sicurezza, Paradoxa, 9, n. 3 (2015); Id., Realismo politico, federalismo e crisi dell’ordine internazionale, Il Federalista, 57, n. 1 (2015); F. Spoltore, Unione federale e difesa europea, Il Federalista, 58, n. 2-3 (2016). Va qui sottolineato che un’Europa pienamente federale passerebbe dalla posizione di consumatore di sicurezza a quella di produttore di sicurezza e, in quanto potenza civile capace di agire efficacemente sul piano internazionale, fornirebbe un contributo determinante alla formazione di un ordine internazionale fondato su un sistema pluripolare strutturalmente cooperativo, che aprirebbe la strada verso un mondo più giusto, più pacifico ed ecologicamente sostenibile.

[30] Cfr. D. Rigallo, A. Sabatino, G. Turroni (a cura di), Per una politica europea di asilo, accoglienza e immigrazione, Consiglio Regionale del Piemonte, Torino, 2015; A. Sabatino, Per una politica europea sostenibile dell’immigrazione, Il Federalista, 58, n. 2-3 (2016); G. Bordino, D. Rigallo, A. Sabatino, G. Turroni, Europa, emigranti, frontiere, Consiglio Regionale del Piemonte, Torino, 2017.

[31] Cfr. S. Pistone, No al nazionalpopulismo. Sì alla federazione europea, Piemonteuropa, n. 1 (2014); Alessandro Cavalli, Alberto Martinelli, La società europea, Bologna, Il Mulino, 2015; F. Spoltore, Unire l’Europa per salvare la democrazia, Il Federalista, 58, n. 2-3 (2016).

 

 

 

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