IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LXIV, 2022, Numero 2-3, Pagina 95

 

 

Il grande cerchio dell’Unione:
come conciliare allargamento, approfondimento e rispetto dei diritti umani

 

GIULIA ROSSOLILLO

 

 

Introduzione.

Le crisi succedutesi negli ultimi anni hanno fatto emergere con forza nell’ambito del processo di integrazione europea due esigenze apparentemente tra loro contrastanti. Da un lato quella di rafforzare l’Unione per consentirle di affrontare le crisi e di divenire un attore in grado di evitare il loro prodursi; dall’altro quella di allargare l’Unione e la sua sfera di influenza. Si tratta di esigenze per alcuni aspetti difficili da conciliare. Più si rafforza l’Unione, più diviene difficile infatti aderire ad essa, perché l’adesione ad un’Unione rafforzata politicamente implica una forte limitazione della sovranità nazionale. D’altro lato, più si allarga l’Unione, più diviene difficile rafforzarla e riformarla in senso più sovranazionale, dal momento che molte decisioni, in primis quella di revisione dei trattati, sono prese all’unanimità, sicché più aumenta il numero degli Stati più raggiungere l’unanimità diventa difficile.[1] Inoltre, come è emerso dall’allargamento del 2004, difficilmente uno Stato che aderisce all’Unione europea accetta di fare in tempi rapidi passi verso un’ulteriore limitazione della sua sovranità.
  

La guerra in Ucraina e la spinta verso l’allargamento.

L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha riportato al centro dell’attenzione il tema dell’allargamento dell’Unione europea, per molti anni accantonato. L’esigenza di fornire un segno tangibile di sostegno all’Ucraina da parte dell’Unione e la volontà di attrarre Stati nel cerchio delle democrazie occidentali in contrapposizione alle autocrazie ha spinto l’Unione a concedere lo status di Paese candidato all’Ucraina (e alla Moldova).

Il processo di adesione all’Unione europea è tuttavia un percorso molto lungo e complesso, soprattutto per paesi che, come l’Ucraina, hanno subito e subiscono eventi bellici, e comporta un processo di recepimento dell’acquis dell’Unione e il rispetto di alcuni ben precisi criteri di carattere economico e giuridico (i cosiddetti criteri di Copenhagen), al controllo del cui soddisfacimento è deputata la Commissione.

Nel quadro ora descritto si colloca la proposta del Presidente francese Emmanuel Macron di creare una Comunità politica europea,[2] cioè un cerchio di paesi non ancora (o non più) membri dell’Unione che ne condividono i valori e siano coinvolti in forme di cooperazione politica, di sicurezza, energetica, in investimenti e infrastrutture, nella circolazione delle persone e soprattutto dei giovani.

La proposta sembra rispondere all’esigenza da un lato di rafforzare il blocco delle democrazie e degli Stati che aderiscono ad alcuni valori fondamentali, dall’altro di superare in qualche misura i limiti della procedura di adesione e di offrire agli Stati che intendono aderire all’Unione la possibilità di cooperare politicamente con la stessa prima di aver completato il difficile processo di recepimento dell’acquis e di adeguamento delle loro economie ai criteri richiesti per essere uno Stato membro. Il legame tra questi Stati e l’Unione dovrebbe dunque essere basato su criteri politici, e quindi di condivisione di valori democratici e di una visione di sicurezza collettiva, e non economici.

Al di là degli sviluppi concreti che potrà avere — che per il momento sembrano poco promettenti, dato che la Comunità politica europea sembra per il momento essere stata concepita come una replica di una conferenza internazionale — la proposta costituisce l’occasione per affrontare il tema della possibile creazione all’esterno dell’Unione di un cerchio di paesi legati a questa da un vincolo differente e più politico rispetto a quello creato con i normali accordi di associazione.

In particolare, per fornire qualche elemento di riflessione sul punto, è interessante fare riferimento all’esperienza degli anni Cinquanta, e in particolare al Trattato istitutivo della Comunità politica europea (CPE) che avrebbe dovuto affiancare il Trattato istitutivo della Comunità europea di difesa (CED). L’elemento in comune tra la proposta odierna e l’esperienza degli anni Cinquanta non è costituito dal nome delle due Comunità (la Comunità politica europea prefigurata negli anni Cinquanta era completamente diversa dall’attuale proposta di Macron), bensì dal fatto che il trattato istitutivo della CPE del 1953 prevedeva una sorta di status di membro associato che può fornire spunti interessanti per il futuro.[3]

Secondo l’articolo 90 di tale Trattato,[4] in effetti, in vista di stabilire una collaborazione stretta con alcuni paesi, la Comunità avrebbe potuto concludere accordi con Stati terzi che garantissero il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Questi accordi, secondo l’articolo 91,[5] avrebbero potuto prevedere anche la partecipazione di rappresentanti dei governi degli Stati associati al Consiglio dei Ministri e di rappresentanti dei Parlamenti dei medesimi Stati al Senato, o con una partecipazione piena o con una partecipazione parziale.

La soluzione che si era prevista presenta profili di interesse per due motivi principali: in primo luogo perché sembra richiamare, come l’attuale proposta di Comunità politica europea, un’associazione fondata più su valori comuni e il rispetto dei diritti fondamentali che su criteri economici o giuridici; in secondo luogo perché contempla forme di cooperazione che comportano una condivisione del potere decisionale tra Unione europea e Stati terzi molto maggiore rispetto a quanto previsto dai normali accordi di associazione. Questi ultimi, al contrario del progetto del 1953, non contemplano infatti alcuna partecipazione da parte dei rappresentanti dello Stato terzo alle riunioni degli organi dell’Unione.

Il tema della creazione di una forma di partecipazione all’Unione non piena non è in realtà nuovo ed è stato affrontato negli ultimi anni da quella parte della dottrina che ha studiato la possibilità di dar vita a forme di associated membership o limited membership. Pur non potendo in questa sede descrivere in modo dettagliato le diverse ipotesi prefigurate, basti accennare al fatto che da parte di alcuni autori si è proposto che vi sia una riunione del Consiglio europeo allargata ai membri associati o affiliati una volta all’anno, che osservatori di tali paesi partecipino alle sedute del Parlamento europeo, che vi siano giudici associati nella Corte di giustizia per le cause che toccano questioni relative a tali Stati.[6] Queste forme di membership limitata potrebbero poi comportare secondo alcuni, l’estensione di alcuni diritti ai cittadini dei detti Stati (protezione sociale per i lavoratori migranti, diritto di esercitare le proprie attività nello spazio europeo ai partiti politici e alle organizzazioni della società civile di questi Stati) e un’assistenza finanziaria e strutturale. Se ci poniamo nell’ottica del rispetto dei diritti umani e della rule of law, si potrebbe ad esempio pensare ad incentivi economici che mirino al rafforzamento di tale tutela e siano condizionati al raggiungimento di obiettivi in tal senso.[7]

Se l’appartenenza a una futura Comunità politica europea assumesse caratteri simili a quelli sopra descritti e non si risolvesse in una semplice forma di consultazione in seno a una conferenza internazionale, essa potrebbe essere concepita sia come alternativa all’adesione, per gli Stati che intendono mantenere solo questo legame con l’Unione, sia come una tappa verso l’adesione.[8] Questa seconda accezione va sottolineata per evitare che l’adesione alla Comunità politica europea sia vista dagli Stati che intendono aderire all’Unione come uno strumento per evitare la loro adesione. L’ingresso in questa Comunità si rivelerebbe essere in questo modo un vantaggio anche per gli Stati che mirino a un’adesione piena, perché consentirebbe loro di partecipare, anche se senza il diritto di voto, alla discussione in senso ad alcune istituzioni dell’Unione, di beneficiare di alcuni diritti e di assistenza finanziaria, senza che tutto questo sia subordinato al rispetto di criteri economici e al recepimento, molto complesso, dell’acquis.
  

Come conciliare allargamento e approfondimento.

La prospettiva dell’allargamento e della creazione di una Comunità politica europea che costituisca una sorta di cerchio esterno all’Unione è tuttavia impensabile se contemporaneamente l’Unione non si rafforza, trasformandosi in un soggetto capace di rispondere alle sfide divenute evidenti durante le crisi degli ultimi anni e dunque di rispondere alle esigenze che i cittadini hanno manifestato nella Conferenza sul Futuro dell’Europa. In mancanza di tale rafforzamento, infatti, non solo la prospettiva di un cerchio esterno e del progressivo ingresso di nuovi Stati rischia di trasformarsi in una diluizione dell’Unione e in un ostacolo al suo funzionamento, ma l’Unione non sarebbe nemmeno in grado di costituire una garanzia di sicurezza per gli Stati facenti parte della Comunità politica europea.

In sintesi, queste riforme comportano il trasferimento all’Unione di competenze (o il rafforzamento delle sue competenze) in alcuni settori cruciali come quello della salute, dell’energia, della politica sociale; la previsione di meccanismi che facilitino la presa di decisione e in particolare l’abolizione dell’unanimità in seno al Consiglio e al Consiglio europeo; la piena partecipazione del Parlamento europeo alla presa di decisione,[9] e dunque l’eliminazione di metodi di decisione intergovernativi, e in particolare l’attribuzione allo stesso del potere di decidere sulle entrate dell’Unione; la progressiva trasformazione della Commissione in un vero governo.

Si tratta di riforme di carattere strutturale che comportano una modifica dei Trattati, e che dunque necessitano l’accordo unanime dei ventisette Stati membri.

Come sottolineato, allargamento e approfondimento sono strettamente legati, dal momento che un allargamento senza una contemporanea o preventiva trasformazione dell’Unione renderebbe di fatto impossibile la sua evoluzione verso una forma federale. D’altro lato, tuttavia, non tutti gli Stati membri sono favorevoli a una simile evoluzione e a una modifica dei Trattati che crei un embrione di Europa politica.

La conciliazione tra allargamento e approfondimento rende pertanto necessario tornare sul tema della differenziazione all’interno dell’Unione, e dunque sulla prospettiva di diverse velocità di integrazione, e in particolare della creazione di un nucleo di unione politica all’interno del mercato unico.
  

Il legame tra le varie politiche. 

Il punto sul quale vorrei concentrarmi riguarda proprio la forma nella quale tale differenziazione dovrebbe svilupparsi, partendo da due considerazioni di fondo.

La prima è che i settori nei quali è emersa l’esigenza di rafforzare l’Unione e di renderla capace di agire sono tra loro strettamente legati. Così, non è pensabile una difesa europea senza una politica estera europea e una politica industriale europea; queste politiche a loro volta necessitano di risorse, e quindi di autonomia finanziaria dell’Unione, e di una Commissione responsabile dinanzi al PE e in grado di adottare decisioni politiche senza dipendere da un accordo in seno al Consiglio europeo. Lo stesso si può dire per la politica energetica, strettamente legata alla politica estera e di sicurezza e alla politica industriale, o della politica sociale, impensabile in mancanza di un vero bilancio federale.

Se lo scopo è quello di rendere l’Europa efficace e in grado di affermarsi come attore internazionale, non è possibile, insomma, trovare soluzioni distinte per i vari settori e pensare a un’Europa à la carte nella quale ogni Stato decide a quali settori partecipare, perché in definitiva la capacità di agire in ciascuno di questi settori è subordinata alla creazione di un’unione più stretta nell’insieme di questi.

Di fronte a tale esigenza, l’unico strumento generale e orizzontale di differenziazione esistente nei Trattati è la cooperazione rafforzata, che implica la possibilità per un gruppo di Stati, con un minimo di nove, di procedere più velocemente in certi settori di competenza non esclusiva dell’Unione, a condizione che vi sia un’autorizzazione in tal senso dal Consiglio, che siano rispettati i Trattati e il diritto dell’Unione, e che si rispettino i diritti e gli obblighi degli Stati non partecipanti.

Proprio perché riguarda singole materie, la cooperazione rafforzata non risponde tuttavia all’esigenza sopra messa in luce, dal momento che la differenziazione in questo caso è concepita come settoriale, e ha dato luogo alla creazione di differenti gruppi di Stati che cooperano più strettamente in differenti materie. Anche nelle ipotesi in cui sono state adottate cooperazioni rafforzate in settori tra loro simili, e che teoricamente dunque dovrebbero far convergere gli interessi dei medesimi Stati, come nel caso del regolamento su giurisdizione, legge applicabile e riconoscimento di decisioni in materia di regimi patrimoniali tra coniugi e del regolamento sulla legge applicabile alla separazione personale e al divorzio, gli Stati partecipanti non coincidono.[10] Come è stato notato, in effetti, tali cooperazioni sono basate su compromessi caso per caso e non su una visione comune complessiva della differenziazione.[11]
 

Differenziazione e caratteristiche dei settori considerati. 

La seconda considerazione concerne il fatto che un’integrazione in senso federale si pone oggi in settori strettamente connessi al cuore della sovranità statale e in materie che spesso hanno implicazioni che la dottrina ha definito “redistributive”,[12] elementi che ancora una volta spingono verso forme di differenziazione diverse dalla differenziazione à la carte delle cooperazioni rafforzate.

In primo luogo, in effetti, se è vero, come sottolineato prima, che tali materie sono strettamente legate tra loro e implicano, perché possa agire in modo efficace, che l’Unione sia in grado, nella sua sfera di competenza, di esprimere una volontà comune e di agire in modo autonomo dagli Stati membri, il meccanismo della cooperazione rafforzata risulta inapplicabile, perché esso presuppone il mantenimento della struttura istituzionale esistente.[13]

Inoltre, in mancanza di un’unione politica, l’applicazione di forme di cooperazione rafforzata e cioè di forme di differenziazione inserite nella struttura istituzionale esistente e limitate a singoli settori porta ad effetti auto-distruttivi o all’inefficacia delle misure adottate. Prendiamo l’esempio della rule of law: un’iniziativa di cooperazione rafforzata mirante a rafforzare il rispetto della rule of law negli Stati membri e ad imporre strumenti rafforzati di controllo da parte delle istituzioni europee sicuramente coinvolgerebbe solo gli Stati nei quali lo standard di rispetto della rule of law è elevato, mentre gli Stati nei quali essa non è rispettata non avrebbero alcun interesse a partecipare. Il risultato sarebbe l’inefficacia della cooperazione rafforzata. Lo stesso vale per la politica migratoria, dove la cooperazione rafforzata sarebbe conclusa solo tra gli Stati sottoposti alle pressioni migratorie più forti, con la conseguente inefficacia di misure di distribuzione dei migranti, o per misure di condivisione del rischio o per la fiscalità.

Come dimostra la cooperazione rafforzata in materia di imposta sulle transazioni finanziarie, autorizzata ma sulla quale, ormai da anni, non si riesce a trovare un accordo tra gli Stati partecipanti,[14] in effetti, una cooperazione rafforzata tra Stati per istituire una nuova imposta comporterebbe il rischio di delocalizzazione dei soggetti tenuti a pagarla in Stati non partecipanti alla cooperazione, e dunque l’inefficacia della misura, oppure incontrerebbe l’ostacolo, nel caso in cui se ne estendesse l’applicazione anche a soggetti localizzati in Stati esterni, di incidere sui diritti degli Stati non partecipanti, circostanza vietata dalle disposizioni in materia di cooperazione rafforzata.

In uno scenario di integrazione più stretta di carattere politico di un nucleo di Stati, questi problemi sarebbero invece superati. Per prendere l’esempio dell’imposta sulle transazioni finanziarie, lo svantaggio per un’impresa di essere collocata in uno Stato parte del nucleo e dunque di dover pagare questa imposta sarebbe compensato dall’esistenza di un bilancio federale in grado di garantire stabilità e investimenti e di compensare i fenomeni di concorrenza fiscale.
  

La prospettiva del nucleo federale. 

Solo se gli stessi Stati procedono verso una maggiore integrazione in tutti i settori sopra menzionati e dando vita a un nucleo di unione politica è dunque possibile rispondere alle esigenze di un’Europa capace di agire sul piano interno e internazionale sopra messe in luce. L’unica forma di differenziazione compatibile con l’obiettivo di conciliare allargamento e approfondimento sembra quindi essere la formula dell’avanguardia o, se si preferisce, dei cerchi concentrici, su un modello simile a quello utilizzato per l’Unione economica e monetaria.

Il problema del funzionamento delle istituzioni resta aperto, ma l’idea più compatibile con il mantenimento dell’Unione e la creazione al suo interno di un nucleo politico sembra essere quella del mantenimento delle istituzioni attuali e di un loro funzionamento a geometria variabile.[15]

Quanto al processo per arrivare a questo risultato, se non si raggiungesse un accordo in sede di riforma dei trattati nel senso di prevedere livelli di integrazione differenti, gli Stati intenzionati a procedere nella direzione della creazione di un nucleo federale avrebbero come unica alternativa quella di concludere tra loro un trattato separato.


[1] Come messo in luce da G. Van der Loo, P. Van Elsuwege, The EU-Ukraine Association Agreement after Ukraine’s EU membership application: Still fit for purpose, European Policy Centre, Discussion paper, Europe in the World Programme, 14 marzo 2022, p. 5, “there is a ‘fourth Copenhagen criterion’, which relates to the EU’s capacity to absorb new member States”, https://www.epc.eu/en/publications/The-EUUkraine-Association-Agreement-after-Ukraines-EU-membership-app~46daac.

[2] La proposta risale al 9 maggio 2022. Sulla proposta di Comunità politica europea, v. per tutti T. Chopin, L. Macek, S. Maillard, La Communauté politique européenne. Nouvel arrimage à l’Union européenne, Institut Jacques Delors, Décryptage, maggio 2022, https://espol-lille.eu/chopin-t-macek-m-maillard-s-2022-la-communaute-politique-europeenne-nouvel-arrimage-a-lunion-europeenne-decryptage-paris-institut-jacques-delors-18-mai/.

[3] Sul punto v. A. Duff, Britain and the Puzzle of European Union, London-New York, Routledge, 2022, p. 11.

[4] Art. 90: “En vue d’établir dans certains domaines une collaboration étroite impliquant les droits et obligations corrélatifs, la Communauté peut conclure des traités ou des accords d’association avec des États tiers qui garantissent le maintien des droits de l’homme et des libertés fondamentales”.

[5] Art. 91: “Le traité d’association peut prévoir notamment: 1. La participation de représentants des gouvernements des Etats associés au Conseil des ministres nationaux et de représentants des Peuples des États associés au Senat, soit avec des droits partiels, soit avec des droits pleins; 2. La création de Commissions permanentes mixtes de caractère gouvernemental ou parlementaire”.

[6] In questo senso v. C. Atligan, D. Klein, EU Integration Models beyond Full Membership, Konrad Adenauer Stiftung, Working Paper, Maggio 2006, pp. 8 ss., https://www.kas.de/documents/252038/253252/7_dokument_dok_pdf_8414_2.pdf/b7cf7fa7-340c-855b-477e-5db773e974f3?version=1.0&t=1539665427443; A. Duff, Britain and the Puzzle of European Union, op. cit., p. 133.

[7] Ibid., p. 7.

[8] Sul punto v. T. Chopin, L. Macek, S. Maillard, La Communauté politique européenne…, op. cit., p. 4, secondo i quali l’appartenenza alla Comunità politica europea dovrebbe comportare, oltre alla ratifica della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, “une association à la vie institutionnelle de l’UE”.

[9] Sul punto v. per tutti T. Gierich, How to Reconcile the Forces of Enlargement and Consolidation in “an Ever Closer Union”, in T. Gierich, D.C. Schmitt, S. Zeitzmann (eds.), Flexibility in the EU and Beyond. How Much Differentiation can European Integration Bear?, Baden-Baden, Nomos Hart, 2017, pp. 17 ss., pp. 24 e 48.

[10] Sul punto v. R. Böttner, The Development of Flexible Integration in EC/EU Practice, in T. Giegerich, D.C. Schmitt, S. Zeitzmann (eds.), Flexibility in the EU and Beyond. How Much Differentiation can European Integration Bear?, op. cit., p. 81.

[11] Ibid., p. 83. Per superare tale limite della cooperazione rafforzata, l’art. 10 del Fiscal Compact prevede che gli Stati parti di questo trattato “stand ready to make active use, whenever appropriate and necessary, of measures (…) of enhanced cooperation (…) on matters that are essential for the proper functioning of the euro area, without undermining the internal market”, prefigurando quindi la possibilità che lo stesso gruppo di Stati dia vita a molteplici cooperazioni rafforzate.

[12] In questo senso v. F. Schimmelfenning, The Conference on the Future of Europe and EU Reform: Limits of Differentiated Integration, European Papers, 5 n. 2 (2020), p. 996 s., https://www.europeanpapers.eu/en/e-journal/conference-future-europe-limits-differentiated-integration.

[13] Secondo l’art. 326 TFUE, le cooperazioni rafforzate rispettano i trattati e il diritto dell’Unione.

[14] Peraltro, il numero degli Stati partecipanti a detta cooperazione è sceso da undici a dieci, essendosi l’Estonia ritirata.

[15] Sul punto e relativamente alla composizione del PE, v. per tutti M. Heermann, D. Leuffen, No Representation Without Integration! Why Differentiated Integration Challenges the Composition of the European Parliament, Journal of Common Market Studies, 58 n. 4 (2020), pp. 1019 ss., https://onlinelibrary.wiley.com/doi/full/10.1111/jcms.13015.

 

 

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