IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LI, 2009, Numero 1, Pagina 43

  

 

L’Europa di fronte a un mondo multipolare sbilanciato
 
HAJNALKA VINCZE
 
 
Il posto dell’Europa nello scacchiere geopolitico, attualmente in piena riconfigurazione, è lungi dall’essere sicuro. Eppure è da parecchio tempo che i processi di evoluzione in corso hanno preso avvio e che le grandi linee di queste modificazioni si delineano in modo abbastanza limpido. Quello che veniva indicato, all’indomani della scomparsa dell’Unione Sovietica, come «il momento unipolare» volge inesorabilmente alla fine, con buona pace di quanti volevano, e di quanti ancora vorrebbero, riporvi tutte le loro speranze. Gli Stati Uniti, sempre preoccupati di mantenere la loro leadership negli affari del mondo, si sono mostrati per lungo tempo infastiditi a sentir parlare di «mondo multipolare». Vi vedevano l’espressione mascherata di un complotto antiamericano. A questo fastidio i responsabili europei, ed in particolare francesi, non cessavano di ribattere che non si trattava affatto di un progetto, ma semplicemente di una constatazione.
 
Stato dei fatti — ieri come oggi
 
Non c’è necessariamente da rallegrarsi molto di questa constatazione, come a prima vista potrebbe sembrare. Perché se un ordine mondiale articolato attorno ad un solo polo predominante comporta incontestabilmente la forte tentazione di abuso del potere, nemmeno il multipolarismo è la panacea: esso non è di per sé né una garanzia, né un valore. In effetti, nulla ci assicura che un sistema multipolare sia necessariamente basato su rapporti equilibrati e cooperativi. Per di più — e ciò riguarda direttamente i cittadini del nostro vecchio continente — nulla ci dice che l’Europa figurerà tra i futuri poli di potere. Al contrario, se proseguono e si confermano le tendenze attuali, essa rischia di diventare, come aveva giustamente osservato Hubert Védrine, «lo sciocco del villaggio globale».[1] Secondo l’ex-ministro degli Affari esteri, l’Europa si condannerebbe rimanendo attaccata alla sua concezione, molto ingenua (e molto solitaria) secondo cui faremmo già parte di una grande famiglia, quella della «comunità internazionale». Aggiungiamoci subito un’altra tara, cioè la stupefacente facilità con cui la stragrande maggioranza dei governi europei si sono abituati a vivere alle dipendenze di una potenza esterna. Da questo punto di vista, l’identità di quest’ultima è assolutamente secondaria. Per il momento, si tratta dell’America, ma una volta che si sono instaurate le basi materiali (perdita/abbandono di autonomia nei settori strategici) e psicologiche (riflessi di allineamento e di auto-censura delle élites) di una situazione di subordinazione, scatta la trappola dell’abdicazione della sovranità e la soggezione si perpetua quale che sia la potenza tutelare.
Con loro grande smarrimento, gli Europei non possono nemmeno trovar conforto nell’idea che il pericolo sia nuovo, le modificazioni recenti, e le loro debolezze dovute a difficoltà di adattamento in un mondo che cambia ad una velocità vertiginosa, perché le questioni di fondo alle quali devono urgentemente rispondere sono sul tavolo da molti decenni. Lo testimonia un rapporto redatto più di trent’anni fa dal Primo Ministro belga Leo Tindemans, che aveva formulato la diagnosi con un’esattezza impressionante.[2] I temi che esso evoca e gli interrogativi che solleva possono aver cambiato di forma o di intensità, ma certamente non di natura.
 
Le argomentazioni premonitrici del Rapporto Tindemans.
 
Il Primo Ministro Tindemans ha rivolto il suo rapporto ai suoi omologhi europei nel 1975, ma la massima parte delle osservazioni in esso contenute conservano, ancor oggi, tutta la loro freschezza. La sua analisi resta pertinente quando parla delle sfide su scala globale: «La disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza minaccia la stabilità del sistema economico mondiale; l’esaurimento delle risorse pesa gravemente sul futuro della società industriale; l’internazionalizzazione della vita economica accentua la dipendenza del nostro sistema di produzione». Analogamente, il documento non è minimamente invecchiato quando mette in evidenza i rischi che l’arretramento degli Stati comporta: «Da trent’anni a questa parte, il peso relativo e l’influenza dei nostri Stati nel mondo non hanno smesso di diminuire. Parallelamente, la capacità dei governi nazionali di manovrare le leve che permettono di influenzare l’avvenire delle nostre società si è costantemente ridotta. Il margine di manovra dei singoli Stati è diminuito sia al loro interno che all’esterno. Essi tentano di mantenersi in equilibrio di fronte a pressioni e a fattori sia interni sia esterni, che sono fuori dal loro controllo. Gli effetti di questa doppia spirale rappresentano un grave pericolo; portano dalla debolezza alla dipendenza, che a sua volta è fonte di ulteriori perdite».
Le argomentazioni di Tindemans rimangono d’attualità anche quando si tratta delle aspettative dei cittadini e degli imperativi strategici che l’Europa non deve soprattutto perdere di vista se vuol essere in grado di darvi una risposta: «I nostri popoli si aspettano che l’Unione Europea rappresenti, dove e quando appropriato, la voce dell’Europa. La nostra azione congiunta deve essere il mezzo per difendere efficacemente i nostri legittimi interessi, deve offrire la base per una reale sicurezza in un mondo più equo». Per far ciò, «l’Europa deve guardarsi sia dall’isolamento, dal ripiegarsi su se stessa che la metterebbe ai margini della storia, sia dalla soggezione, dalla stretta dipendenza, che le impedirebbe di far sentire la sua voce. Deve recuperare una certa padronanza del suo destino». Su questo punto, il Primo Ministro belga dimostra di essere completamente in sintonia con il sentimento profondo e notevolmente costante dei cittadini. Non è un caso se in successivi Eurobarometri, la PESC (politica estera e di sicurezza comune) e la difesa europea continuano ad avere un sostegno massiccio (più del 70%) da parte dell’opinione pubblica — con una maggioranza schiacciante (più dell’80%) quando si tratta di precisare che questa politica europea «deve essere indipendente dagli Stati Uniti».
In effetti, uno dei principali pregi del rapporto Tindemans è che, per quanto riguarda i nostri rapporti con l’America, non esita a mettere il dito su verità che disturbano. Anche oggi è raro trovare dei responsabili europei pronti ad ammettere fatti evidenti come quello che, se l’Europa si è costruita, è anche, se non soprattutto, per poter pesare nei confronti degli Stati Uniti. O a evocare l’ipotesi, oh! quanto sacrilega, che i nostri rispettivi interessi non sempre possono essere identici in seno a questa grande famiglia transatlantica, che, d’altra parte, non è più necessariamente monolitica. «Le relazioni con gli Stati Uniti, che sono contemporaneamente i nostri alleati, i nostri partners e talora i nostri concorrenti, pongono all’Unione europea problemi di vaste proporzioni. La necessità dell’Europa di parlare con una sola voce nelle sue relazioni con gli Stati Uniti è una delle motivazioni profonde della costruzione europea». L’obiettivo è di «stabilire con gli Stati Uniti rapporti fondati sul principio di eguaglianza, esenti da ogni idea di dipendenza, che riflettano ad un tempo ciò che vi è di comune nei nostri valori fondamentali, nei nostri interessi e nelle nostre responsabilità, e ciò che vi è di diverso nel destino delle nostre due regioni del mondo».
 
Il fattore americano al cuore del problema.
 
Ora, su questo punto cruciale, che rappresenta il nodo delle questioni di fondo circa la costruzione europea, i punti di vista degli Stati membri rimangono incompatibili fra di loro. O, per riprendere i termini eufemistici del rapporto Tindemans, le capitali europee sono lungi, ben lungi, «dall’arrivare ad una valutazione rigorosamente identica dei rapporti tra Stati Uniti ed Europa». Non c’è nulla di straordinario in questo. Gli Stati Uniti sono sempre stati il grande argomento tabù delle discussioni in materia di PESC, e ciò a dispetto del fatto che le prese di posizione degli uni e degli altri si definiscono essenzialmente in rapporto a questo non-detto rappresentato dalla posizione, ben nota e/o accuratamente comunicata in anticipo, delle autorità di Washington. E anche a dispetto del fatto che la prima domanda che si pongono i responsabili dei paesi terzi a proposito della politica estera e di difesa dell’UE è di sapere se essa si costruisce come un complemento o come un contrappeso della politica americana. Domanda lasciata senza risposta — anche tra Europei.
Già nel 1973, al momento della redazione della «Dichiarazione sull’identità europea», una differenza sottile, ma significativa, tra le versioni inglese e francese fa vedere l’esistenza di punti di vista diametralmente opposti. Per i Francesi, le relazioni con l’America non devono influenzare in alcun modo l’affermazione di una politica europea che essi vogliono vedere indipendente («Les liens étroits qui existent entre les Etats-Unis et l’Europe des Neuf n’affectent pas la détermination des Neuf de s’affirmer comme une entité distincte et originale»: gli stretti legami esistenti tra gli Stati Uniti e l’Europa dei Nove non incidono sulla determinazione dei Nove di affermarsi come un’entità distinta ed originale), mentre i Britannici preferiscono sottolineare che essi negano perfino l’idea stessa di un’eventuale contraddizione trai due («The close ties between the United States and Europe of the Nine do not conflict with the determination to establish themselves as a distinct and original entity»: gli stretti legami esistenti tra gli Stati Uniti e l’Europa dei Nove non confliggono con la determinazione dei Nove di affermarsi come un’entità distinta ed originale).[3]
Questa fondamentale opposizione è all’origine delle future tribolazioni della PESC/PESD (politica europea di sicurezza e di difesa) e spiega un buon numero di organigrammi surreali, di formule fantastiche e di episodi grotteschi. Come aveva osservato Nicole Gnesotto, ex-direttrice dell’Istituto di Studi sulla sicurezza dell’UE: «Mentre gli Europei possono abbastanza facilmente trovarsi d’accordo su di una visione più o meno comune del mondo, sono divisi sul ruolo dell’Unione nella gestione delle crisi mondiali. Poiché questo ruolo è largamente funzione del tipo di relazioni che ciascuno Stato membro ambisce costruire con gli Stati Uniti, in modo bilaterale o nel quadro della NATO, gli Europei non sono mai riusciti a mettersi d’accordo sulla finalità della loro cooperazione politica e militare. I ricorrenti dibattiti sulle virtù o i vizi della multipolarità o dell’unipolarità, come pure le discussioni sul livello possibile di autonomia europea in materia di difesa, sono le più caricaturali dimostrazioni di questa latente divisione tra gli Europei a proposito del ruolo dell’Unione e delle sue relazioni con la superpotenza americana».[4]
A rischio di ripeterci, occorre insistere sul fatto che le relazioni di dipendenza o di autonomia che definiamo oggi nei confronti dell’America vincolano le nostre posizioni nei confronti di qualsiasi altra potenza in futuro. La soggezione comporta conseguenze durature, tanto sul piano materiale che su quello psicologico. La rassegnazione alla dipendenza tecnologica e industriale significa che accettiamo uno sganciamento definitivo, con i nostri settori strategici ridotti a una funzione di subappalto o completamente distrutti. Psicologicamente, il fatto di rimettersi a qualcun altro per la propria difesa crea progressivamente una cultura della deresponsabilizzazione e ci priva di ogni dignità. E’ in questa prospettiva che Jean-François Deniau, negoziatore francese del Trattato di Roma e primo Commissario europeo incaricato delle relazioni estere, nel suo libro ha messo in luce l’esigenza di un’Europa indipendente («non ve n’è un’altra») e ha attirato l’attenzione sulle questioni della difesa: «perché presto o tardi esse condizionano tutte le altre e perché non vi è sentimento di identità senza l’esercizio della responsabilità, e la più importante delle responsabilità è quella di rimanere capaci di scegliere il proprio destino, in altre parole, di difendersi».[5]
 
Miti, illusioni ed ingenuità
 
Come Jean Monnet, anche Deniau diceva di aver fiducia nella «forza delle idee semplici». Ora, le relazioni transatlantiche si sono rivelate, a questo proposito, l’eccezione che conferma la regola. Se la miscela di luoghi comuni, di grandi slanci retorici, di piccoli calcoli meschini e di cecità emotivo-ideologica che costituisce, sul versante europeo, la base dei nostri rapporti con l’America, continua a resistere nel tempo a dispetto della logica più elementare, è perché le nostre élites non hanno smesso di diffondere delle concezioni profondamente ingenue (o colpevolmente ingannevoli) di potenza e di autonomia.
 
Questioni di potenza.
 
La resistenza degli Europei a riflettere in termini di potenza si traduce, tra l’altro, nei loro tentativi di minimizzare la pregnanza delle realtà geopolitiche e nella beata credenza nell’utopia di una «Europa potenza civile».
 
 – Il mito post-moderno.
 
Tradizionalmente, gli Europei sono particolarmente sensibilizzati all’eredità della storia e a tutto quello che ne consegue: culture, identità, diffidenza nei confronti di interpretazioni unidimensionali o semplicistiche. Ora, l’importanza attribuita a questi fattori ci differenzia dai nostri cugini d’oltre Atlantico. Come ha notato Javier Solana, alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune: «Quando gli americani dicono ‘questo è storia’, spesso intendono dire che non ha più importanza. Quando gli Europei dicono ‘questo è storia’, generalmente intendono il contrario».[6] Ciò non toglie che a partire dall’inizio degli anni ‘90, le élites europee siano state sempre più sedotte dalle tesi americane sulla «fine della storia» ed obnubilate dagli incantesimi, spesso mascherati da discorsi sui diritti dell’uomo, sul meraviglioso progetto dell’esportazione del modello occidentale.
L’ideologia post-modernista non si accontenta di metterci, in qualche modo, «al di là» della storia, intende anche metterci «al di fuori» della geografia. Di nuovo, si confrontano due visioni, il che si riflette, nello specifico, nelle versioni inglese e francese della Strategia europea di sicurezza, documento che tuttavia serve ai responsabili europei da biglietto da visita nei loro rapporti con i dirigenti stranieri. Bene, una volta di più, le minuscole sfumature nelle traduzioni danno conto di profonde divergenze. Se, per i Francesi «Même à l’ère de la mondialisation, la géographie garde toute son importance» (anche nell’era della mondializzazione la geografia conserva tutta la propria importanza), per gli Inglesi è sufficiente notare che «Even in an era of globalisation, geography is still important» (anche in un’era di globalizzazione, la geografia resta importante).[7] Vi si ritrova il faccia-a-faccia abituale tra il realismo geopolitico e una concezione che, in nome del post-modernismo, vorrebbe ridersene delle realtà. Tuttavia, i fatti parlano da soli. La nostra Europa costituisce la piccola estremità occidentale del vasto continente euro-asiatico (al punto che i geografi, dal canto loro, indicano l’Europa come uno pseudo-continente), mentre resta separata dall’America, con gran rammarico degli atlantisti di entrambe le coste, da 6.000 chilometri di oceano Atlantico. «L’America non fa parte dell’Europa… Credo di averlo scoperto sulla carta geografica», aveva osservato il generale de Gaulle a suo tempo, non senza una punta di ironia.
 
 – Il mito dell’«Europa potenza civile».
 
Il Presidente francese Nicolas Sarkozy, con la sua abituale propensione a martellare su cose evidenti, capita talvolta su dei tabù che rompe con un sol colpo, con disinvolta indifferenza. E’ così che osserva nelle colonne del New York Times, che «l’Europa non può essere una potenza economica senza assicurare la propria sicurezza».[8] Con questa osservazione, tanto semplice quanto logica, il capo dello Stato chiude con una riga mezzo secolo di mascherata transatlantica, insieme, come danno collaterale, all’arsenale completo della propaganda pacifista. In effetti, l’abdicazione alle responsabilità in materia militare ha ripercussioni dirette in tutti i campi e mette in pericolo la sopravvivenza stessa di un modello di società nel suo complesso, indipendentemente dal fatto che questa abdicazione venga fatta perché si crede beatamente nella pace universale o per spirito di servilismo nei confronti di una potenza straniera. Come aveva rilevato, con una franchezza inusitata negli ambienti di Bruxelles, Robert Cooper (eminenza grigia di Javier Solana e direttore generale degli affari esteri e politico-militari del segretariato generale del Consiglio), «è estremamente insoddisfacente che 450 milioni di Europei dipendano fino a questo punto per la loro difesa da 250 milioni di Americani. Non esiste difesa gratuita. A un certo punto, gli europei dovranno pagare per questa soluzione. Nulla garantisce che gli interessi americani ed europei coincideranno per sempre».[9] Presto o tardi rischiamo di ricevere il conto…
D’altra parte, i nostri amici d’oltre-atlantico non se lo nascondono. Un documento ufficiale pubblicato dal Dipartimento della difesa sotto l’amministrazione Clinton ha avuto il merito di far venire in chiaro le cose: «I nostri alleati devono essere consapevoli del legame che esiste tra il sostegno americano alla loro sicurezza e il loro comportamento in campi come la politica commerciale, il trasferimento di tecnologie e la partecipazione alle operazioni di sicurezza multinazionali».[10] E non sono parole in aria. Già nel 1962, in piena guerra fredda, il vice-Presidente degli Stati Uniti, in visita a Berlino, il luogo più sensibile d’Europa, aveva brandito la minaccia di ritirare le truppe americane dall’Europa se il Mercato comune avesse frenato le esportazioni di polli americani verso il vecchio continente…
Oltre a metterci alla mercè delle pressioni, per non dire dei ricatti, di una terza parte, il rifiuto della potenza ci priva anche di ogni credibilità, e quindi di ogni influenza reale sulla scena internazionale. Gli episodi del tipo di quello dell’aeroporto di Sarajevo, ricostruito grazie al finanziamento europeo, ma inaugurato dal Segretario di Stato americano, sono solo la parte emergente dell’iceberg. Come ha notato Robert Cooper, «l’assenza di forza militare credibile significa che quando si tratta di questioni come il Kosovo, l’Irak o l’Afganistan, le decisioni cruciali vengono prese a Washington». E ciò, malgrado il robusto impegno finanziario e la massiccia presenza di soldati europei nei teatri d’operazione. In una vera situazione di crisi, prosegue Cooper, «gli Europei si ritrovano estremamente dipendenti dalla benevolenza dell’America». Ora, dal punto di vista della potenza o dell’impotenza dell’Europa, la presenza o l’assenza di «forza militare credibile» non è una questione di cifre, ma una questione di autonomia. L’americana Kori Schake, professoressa all’Accademia militare di West Point, consulente del Consiglio di sicurezza nazionale durante il primo mandato del Presidente Bush e consigliere per la sicurezza nazionale del candidato repubblicano John McCain durante la campagna elettorale del 2008, aveva brillantemente messo il dito su questa ovvia verità: «Non disponendo di forze militari veramente autonome, i bisogni dell’Europa sono subordinati alle priorità degli Stati Uniti. L’UE resta ostaggio delle preoccupazione del veto potenziale degli Stati Uniti».[11] Ecco qualcosa che merita di essere detto con chiarezza.
 
Questioni di indipendenza.
 
Nei fatti, non tutti vedono di cattivo occhio la subordinazione degli interessi europei ai desiderata dell’America. Coloro che, da una parte e dall’altra dell’Atlantico, vi trovano il proprio interesse o vi sono rassegnati ricorrono di solito ai tre seguenti falsi argomenti.
 
 – Il mito del sostegno americano al rafforzamento dell’Europa.
 
E’ sempre buona educazione ricordare l’indefettibile sostegno che Washington non ha mai smesso di dare alla costruzione europea. Lasciando da parte qui la questione dei motivi di questo appoggio americano (molto meno altruisti di quanto farebbe piacere ammettere), ci limiteremo a sollevare la questione del suo obiettivo. In altre parole, è opportuno soprattutto precisare che tipo d’Europa gli Stati Uniti incoraggiano a costruire. Certo, non c’è alcun dubbio che l’America è stata sempre un sostenitore incondizionato e fu anche uno degli istigatori del Mercato Comune — per lo meno finché esso rifiuta saggiamente l’idea di divenire una vera Comunità economica. Quest’ultima si distingue dal primo per il fatto di mettere in atto politiche… tariffarie, commerciali, agricole o industriali, destinate, per definizione, a proteggere gli interessi dei cittadini europei, analogamente a quelle attuate, a giusto titolo, dalle autorità americane. Nello stesso ordine di idee, se gli Stati Uniti hanno finito per accettare, dopo anni di veementi proteste e di messe in guardia, il lancio della PESC/PESD, è perché pensano di poterla confinare in ruoli che possano esser loro utili: paravento di legittimazione politica (per le loro azioni diplomatico-militari), riserva di rinforzi (spiegamento, sotto comando o sotto controllo degli USA, di soldati europei), e mercato vincolato (a beneficio delle industrie americane degli armamenti). Resta sempre vero che Washington continua a vedervi un potenziale rischio di emancipazione dei suoi alleati e vigila quindi soprattutto a silurare qualsiasi iniziativa suscettibile, in un modo o nell’altro, di mettere in causa la propria posizione egemonica.
Perché dietro alle rimostranze di facciata e ai sorrisetti obbligatori circa la pretesa «incapacità europea» (illustrata da poetiche immagini di «pigmei» e di «tigri di carta»), le preoccupazioni americane sono di tutt’altra natura. Zbigniew Brzezinski, capofila degli ambienti democratici in materia di diplomazia e sicurezza, ha avuto la benevolenza di spiegarcele in uno dei suoi libri: «Con il potenziale economico dell’UE che equivale già a quello dell’America e con le due entità che già si scontrano nei campi finanziario e commerciale, un’Europa emergente militarmente potrebbe diventare un formidabile concorrente per l’America. Essa rappresenterebbe inevitabilmente una sfida per l’egemonia USA (…). Un’Europa politicamente forte, capace di rivaleggiare in campo economico e che non fosse più dipendente militarmente dagli Stati Uniti rimetterebbe inevitabilmente in causa la supremazia americana (…) e confinerebbe la sfera dell’egemonia degli USA grosso modo alla regione del Pacifico».[12] Non deve sorprendere se Brzezinski prevede — e non è il solo — «la complementarietà, ma non l’autonomia» dell’Europa nei confronti degli Stati Uniti: «complementarity with, but not autonomy from» the United States.
 
 – Il mito della complementarietà.
 
L’elogio di questa complementarietà è, da quindici anni a questa parte, un esercizio obbligatorio negli ambienti transatlantici. Non per questo non comporta due errori basilari. Da una parte, nell’accezione condivisa dall’America e dalla maggior parte dei governi europei, la complementarietà si realizza a senso unico: indica, beninteso, quella dell’Europa nei confronti dell’America. Così, non è difficile vedere come la tensione tra la volontà di mantenere un controllo assoluto sugli affari di sicurezza europea (incarnato dalla NATO, quadro istituzionale della tutela USA) e il desiderio di un margine di manovra autonoma (espresso, malgrado tutte le tergiversazioni interne, dalla messa in marcia della Difesa europea) sia strutturale. Di conseguenza, le due non solo non sono complementari, ma rischiano addirittura di essere antinomiche. Come ha osservato Michael Cox, professore di Relazioni internazionali alla London School of Economics, durante un’audizione alla Camera dei Comuni inglese, la contraddizione può essere gestita «finché la PESD non è veramente seria». Tuttavia «se la PESD divenisse veramente seria, potrebbe verificarsi una incompatibilità» e «sarebbe possibile immaginare una situazione in cui la mano sinistra cominci a combattere con la destra».[13]
A ciò si aggiunga che c’è l’esempio della Gran Bretagna a testimoniare le conseguenze, disastrose per la sovranità, di una politica condotta sotto lo stendardo della complementarietà. Per l’ex-Capo delle esportazioni militari della Gran Bretagna (Head of UK Defence Exports), Tony Edwards, il suo paese «mantiene la propria capacità di gestire la potenza al prezzo di fare uno straordinario affidamento sugli Stati Uniti per quanto riguarda la tecnologia, l’equipaggiamento, l’intendenza e le informazioni».[14] L’analisi dell’ex-presidente della Commissione sulle Informazioni di Sua Maestà, Rodric Braithwaite, non è più rassicurante. Per lui «i politici americani trovano utili i Britannici come scudieri all’ONU e nella NATO e come alleati militari sufficientemente competenti quando si tratta di combattere. Di tanto in tanto, cercano di utilizzare i Britannici come potenziale cavallo di Troia se la costruzione europea sembra sulla strada di riuscire troppe bene». Braithwaite precisa anche che a forza di cercare la «complementarietà» con l’America, ormai «in una guerra reale, le forze britanniche opereranno unicamente come parte integrante di una forza statunitense, sotto comando statunitense e al servizio degli interessi statunitensi». Il verdetto è senza appello: «Contrariamente ai Francesi che hanno preferito un cammino più solitario, ma indipendente, la cooperazione con gli Americani ha privato i Britannici di gran parte della loro indipendenza»[15]. Resta da vedere se, in cambio, sono riusciti, o almeno hanno una probabilità di riuscire, ad ottenere un seppur minimo di influenza. Senza sorpresa, la risposta è no — e un no clamoroso.
 
 – Il mito di una possibile influenza su Washington.
 
Per trovarne una recente dimostrazione, basta guardare la prestazione del Primo Ministro Blair nell’affare iracheno — e la sua «ricompensa» in termini di influenza. Dal punto di vista politico, l’ambasciatore britannico stesso ha in seguito confessato che Londra non era stata tenuta al corrente (e ancor meno coinvolta nell’elaborazione) dei piani per il dopo-guerra. Dal punto di vista militare, alcune rivelazioni della stampa hanno messo in evidenza che le forze britanniche, una volta poste sotto il comando americano, non dispongono più dei propri mezzi (incidente emblematico fin dall’inizio dell’operazione Iraqi Freedom: le truppe britanniche impegnate a terra avrebbero avuto bisogno dell’appoggio dei propri aerei, ma le loro richieste sono rimaste senza effetto. Il comando americano aveva preferito mandare gli apparecchi britannici in appoggio alle forze USA — in aggiunta agli aerei USA). Dal punto di vista diplomatico, Londra in realtà non avuto maggior successo. Ne sono testimoni gli sforzi sempre più disperati di Tony Blair per poter mostrare non foss’altro che una parvenza di contropartita in cambio del suo sostegno incondizionato. Washington non ha dato loro seguito, né sul dossier israelo-palestinese, né su quello del cambiamento climatico. Come diceva l’ex-Cancelliere tedesco Helmut Schmidt, la relazione anglo-americana «è talmente speciale che solo i Britannici sono al corrente della sua esistenza».
E perfino i fedeli Britannici cominciano ad avere dei dubbi… Secondo il rapporto della prestigiosa Chatham House pubblicato nel 2006 e firmato dal direttore uscente, il caso di Tony Blair è sintomatico soprattutto di un errore di valutazione più generale, quello della sopravvalutazione delle possibilità di influenza. In effetti, «lo smacco fondamentale (della politica estera di Blair) è stato la sua incapacità di influenzare in modo significativo l’amministrazione Bush, malgrado il sacrificio — militare, politico e finanziario — affrontato dal Regno Unito». Ora, prosegue il rapporto, «data la complessità bizantina della politica di Washington, è sempre stato irrealistico credere che potenze esterne — per quanto leali — possano aspettarsi d’avere molta influenza sul processo di presa delle decisioni americane».[16] Ma perché, in verità, dovrebbero avere influenza sulle decisioni delle autorità americane che hanno il mandato di difendere gli interessi dei propri cittadini? In realtà, la questione non è quella dell’influenza, bensì quella di un’eventuale cooperazione. Orbene, chi dice cooperazione dice reciprocità. Il problema, per l’Europa, è che partendo da una situazione di dipendenza è impossibile partecipare ad una cooperazione equilibrata. Una delle due parti è sempre in condizione di abbandonare, o di minacciare di abbandonare, la cooperazione senza che il suo potenziale strategico ne risulti diminuito, mentre l’altra (avendo smantellato le basi della sua autonomia) si trova imprigionata. In breve, bisogna essere in due per poter cooperare su di un piano d’uguaglianza. Il cammino che può un giorno portarvisi è quindi lo stesso che conduce all’autonomia.
 
Questioni europee: il mito dell’«europeizzazione» come soluzione miracolosa.
 
Bisogna per forza constatare che questo cammino non emerge automaticamente da una integrazione europea sempre più spinta. Questa potrebbe perfino portare, in mancanza di una presa di coscienza urgente e generale della posta in gioco, esattamente all’opposto. Per vederci con maggior chiarezza, bisogna anzitutto sciogliere un amalgama ingannevole, e notare che il termine «europeo» ha due aspetti ben distinti. Il primo designa, in una accezione burocratico-istituzionale, il livello europeo in opposizione e come sovrastante al livello nazionale. Il secondo definisce noi in rapporto al resto del mondo e si riferisce, in una accezione questa volta politico-strategica, ad interessi e priorità specifici del nostro continente. Ora i due significati non si confondono affatto. La sovra-nazionalizzazione non ci conduce meccanicamente alla presa in carico e al perseguimento degli interessi europei nel senso geopolitico. Ahimé, allo stato attuale delle cose, rischia di avere l’effetto contrario. Poiché la maggioranza degli Stati membri è reticente, per non dire ostile, all’idea di un’Europa indipendente, qualsiasi «progresso» nell’integrazione, per esempio sotto forma di passaggio al voto a maggioranza nei domini strategicamente sensibili, significherebbe la messa in minoranza immediata di ogni ambizione di potenza e di autonomia.
I due tipi di tensione intra-europea all’origine della maggior parte degli arresti dell’integrazione fanno parte, da questo punto di vista, di un’unica singola problematica. Che sia il confronto tra logica nazionale e logica federale, o tra visione autonomista (in favore di un’Europa indipendente) e visione atlantista (che preconizza una cosiddetta Europa complementare agli Stati Uniti), è attorno alla questione della sovranità che si articola il fondo del dibattito. Ora, se si parte dal principio che si costruisce l’Europa per difendere e non per distruggere la sovranità dei suoi popoli, i due tipi di tensione sono indissolubilmente legati. In effetti, un paese con un alto grado di indipendenza e una acuta coscienza delle poste di potere in gioco (la Francia, per non nominarla) non accetterà, e nell’interesse dell’intera Europa soprattutto non deve accettare, il gioco soprannazionale se non a condizione che le stesse esigenze strategiche di potenza e di autonomia siano assunte e difese, con la stessa intransigenza ed allo stesso livello, dalle autorità di Bruxelles. Finché la maggioranza degli Stati membri vi si opporrà, ogni spinta integrazionista ci legherà sempre più in una posizione di dipendenza definitiva. D’altra parte, Tindemans aveva già avvertito che «un edificio incompleto non può sfidare il tempo: deve essere completato, se no crolla». Per tranciare questo nodo gordiano, bisognerà smetterla una volta per tutte con i miti; in altre parole, rompere con le illusioni/ideologie pacifiste e atlantiste.
Come aveva sintetizzato Jean Monnet nelle sue Memorie, «Le sconfitte che ho incontrato sono state meno spesso causate da gente limitata per natura, di quanto lo siano state da spiriti deliberatamente chiusi all’evidenza, resi ciechi dalla lealtà verso il loro sistema di riferimento».


[1] Audizione di Hubert Védrine davanti alla Commissione sul Libro bianco sulla difesa e la sicurezza nazionale, 4 ottobre 2007.
[2] Rapporto sull’Unione europea, detto «Rapporto Tindemans», Bruxelles, 29 dicembre 1975.
[3] Declaration on The European Identity, Copenhagen, 14 December 1973.
[4] Nicole Gnesotto, EU, US: visions of the world, visions of the other, in Shift or Rift – Assessing US-EU relations after Iraq, (ed. Gustav Lindstrom), Institut des études de sécurité de l’UE, Paris 2003.
[5] Jean-François Deniau, La découverte de l’Europe, Paris, Seuil, 1994.
[6] Discorso di Javier Solana all’Istitut des études de sécurité de l’UE, 6 ottobre 1006, Parigi.
[7] A Secure Europe in a Better World — The European Security Strategy, 12 Dicembre 2003. Une Europe sûre dans un monde meilleur — Stratégie européenne de sécurité, 12 dicembre 2003.
[8] Intervista del Presidente Nicolas Sarkozy al quotidiano The New York Times, 24 settembre 2007.
[9] Robert Cooper, The Breaking of Nations, London, Atlantic Books, 2004.
[10] Report on the Bottom-up Review, Les Aspin, Secretary of Defense, October 1993.
[11] Kori Schake, «The United States, ESDP and Constructive Duplication», in J. Howorth and J.T.S. Keeler (eds.), Defending Europe: The EU, NATO and the Quest for European Autonomy, Palgrave, MacMillan, 2003, pp. 107-132.
[12] Zbigniew Brzezinski, The Choice: Domination or Leadership, New York,Perseus Books, 2004.
[13] House of Commons Defence Committee, The Future of NATO and European Defence, 20 marzo 2008.
[14] Contributo al Libro verde della Commissione da parte di Tony Edwards, citato in «Il mercato comue europeo dell’equipaggiamento di difesa: l’articolo 296 del Trattato istituente la Comunità europea e il Libro verde della Commissione europea», rapporto redatto da Franco Danieli per l’Assemblea generale dell’Unione dell’Europa Occidentale, 6 dicembre 2005.
[15] Rodric Braithwaite, «End of the Affair», Prospect Magazine n. 86, Maggio 2003.
[16] Victor Bulmer-Thomas, Blair’s Foreign Policy and its Possibile Successor(s), Chatham House, dicembre 2006.

 

 

 

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