IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno L, 2008, Numero 1, Pagina 13

 

 

Quale libertà per l’Europa?
 
BERNARD BARTHALAY
 
 
Nessuna potenza straniera occupa l’Europa. Nessuna la domina. Eppure la sua libertà d’azione non è equivalente a quella degli Stati Uniti, della pseudo-federazione russa o della Cina.
L’Europa è dipendente. L’Europa non ha una volontà propria. L’Europa non è libera.
Per mancanza di unità. Certo, è in via di unificazione da mezzo secolo, ma la sua unità non è compiuta. Nulla è sancito definitivamente. Gli stessi Stati, che, in un momento di grande saggezza, ne hanno concepito il progetto, sono oggi pronti a dimenticarlo, e costituiscono dei fautori di divisioni più che fattori di unità. È nella natura delle cose. L’Europa si offre, vulnerabile, alle altre potenze che esercitano senza vergogna a nostre spese, ma per colpa nostra, il divide et impera. E anche questo è nella natura della cose.
 
Un realismo europeo.
 
Il mondo resta un sistema di Stati sovrani, squilibrato a favore di una sola potenza, che vi trova al tempo stesso la sfera della propria influenza ed i limiti della propria azione. Un sistema westfaliano, non più europeo, ma mondiale, in preda all’egemonia di un solo Stato. Gli Europei ne conoscono la legge ferrea, per averne subito gli effetti sulla loro pelle per più di tre secoli e per averli diffusi su tutti i continenti. La legge della potenza, della politica di potenza, dello Stato-potenza. In questo sistema «moderno», vi sono Stati che posseggono la forza, attuale o potenziale, richiesta per contestare la prima potenza e Stati che non l’hanno, che si illudano o no di possederla. A questa illusione nazionale di qualche Stato europeo si oppone ora un’altra illusione, europea, questa volta: fondata su un progetto di unità per la pace, capace di creare nuove condizioni materiali favorevoli alla non-belligeranza nei rapporti tra Stati, l’Europa ha sviluppato mezzi giuridici, messi al servizio della sua potenza economica, che le permettono di imporre le sue regole, o almeno di dire una parola, nel negoziato globale con le altre regioni del mondo. L’Europa non avrebbe quindi bisogno di ricorrere ai «moderni» mezzi della potenza. La norma «post-moderna» che regge l’ordine comunitario tra gli Stati membri dell’Unione la dispenserebbe dall’adottare una «moderna» politica di potenza. Tutto avverrebbe in realtà come se, per il solo fatto di esistere in un angolo del mondo — il nostro — tale ordine fosse sufficiente per far pendere l’intero pianeta verso una «post-modernità» nella quale i rapporti giuridici prevarrebbero sui rapporti di forza.[1]
È questo idealismo cosmopolitico del soft power[2]che professano i nostri mercanti di illusioni. Illusione è per l’Europa credere che le basterebbe comportarsi nel mondo senza hard power, come sono stati invitati a fare tra di loro i suoi Stati dalla dichiarazione di Schuman, perché ne conseguano non solo la pace, ma anche l’eguaglianza di diritto delle potenze e il controllo dei rischi planetari. Basterebbe in fondo lasciar fare al tempo, che Javier Solana ha da poco indicato come il miglior alleato dell’Unione. Come se, illusione delle illusioni, il tempo non fosse contato. Il dimenticare che il mondo è un sistema moderno è un atteggiamento colpevole, perché nasconde l’impotenza politica dell’Europa, il vuoto europeo nella bilancia mondiale del potere. C’è il rischio enorme che questo vuoto attiri la guerra e la crisi, economica o ecologica. Anche questo è, ancora, nella natura delle cose.
D’altra parte, gli europei hanno tutti la stessa percezione del tempo? Non che questa diversa percezione vada intesa come carattere culturale nazionale, ma semplicemente come una più o meno forte esigenza europea, una maggiore o minore fretta di completare l’unità, una ineguale propensione, in caso di crisi, a cadere dalla parte dell’unità piuttosto che da quella del ciascuno per sé. È una costante il fatto che l’Inghilterra, pur dichiarando a proposito dell’Europa, per bocca di Churchill, la propria scelta per gli Stati Uniti d’Europa fin dal 1946, se ne sia nello stesso momento esclusa; e che da allora essa abbia scelto il mare aperto piuttosto che il continente, i tempi lunghi del laissez-faire contro quelli brevi della decisione politica comune. Esiste un’alleanza di fatto tra l’idealismo cosmopolitico e questo laissez-faire (il cinismo del mercato innanzitutto), che frena l’unificazione, alleanza aggravata dall’opposizione nazionalista pura e semplice all’unità (Rule Britannia; right or wrong, my country). È una costante che la Francia, iniziatrice del progetto (Stati Uniti di Monnet, federazione di Schuman, «unione indissolubile» del piano Fouchet) ed affossatrice degli atti costituzionali europei (statuto della Comunità politica, bilancio federale di Hallstein, Trattato costituzionale) resti prigioniera della contraddizione «niente indipendenza senza potenza, niente potere per l’Europa», che equivale ad affermare la perennità dello Stato nazionale e la morte programmata del progetto europeo. Esiste un’alleanza tra l’idealismo cosmopolitico e il souverainisme (il cinismo dello Stato innanzitutto) che, insieme ai nazionalismi (la grandeur della Francia, la Francia ai francesi), costituisce un fattore di blocco.
E tuttavia in certi momenti è anche grazie alla Francia che le cose vanno avanti. Siamo in uno di questi momenti dopo l’elezione di Nicolas Sarkozy alla presidenza della Repubblica? Per capirlo bisognerebbe preliminarmente esaminare il caso tedesco e il caso italiano, perché la Francia da sola, anche nei suoi momenti migliori, non può far nulla d’europeo. Ma allora bisogna introdurre nell’analisi un criterio di metodo: la distinzione usuale tra l’intergovernativo, il comunitario e il federale deve essere messa a confronto con i paradigmi del nazionalismo metodologico e del cosmopolitismo metodologico, nelle sue varianti idealista e realista.
Se è chiaro che il metodo intergovernativo si basa sull’internazionalismo e quindi, in termini di metodo, sul nazionalismo, e che esso dunque sottende un’ideologia particolaristica che accetta l’impossibilità di agire insieme quando non si arriva all’unanimità delle volontà, è meno chiaro che il metodo comunitario, che è cosmopolitico, non sia che un’idealismo («la potenza attraverso la norma»), denunciato come rinunciatario dai nazionalisti e dagli altri souverainistes, o anche dai federalisti critici del metodo comunitario, che si uniscono allora in una stupefacente cacofonia all’internazionalismo più romantico. In realtà il metodo comunitario ha resistito perché è ambivalente. Essenzialmente, è una soluzione alla difficoltà di prendere decisioni tra Stati sovrani. Conferendo un dovere e un potere di iniziativa (e, nel tempo, di molteplici iniziative successive) ad un collegio indipendente, si creano (senza ledere gli interessi degli Stati di volta in volta minoritari) le condizioni per il voto degli Stati e quindi per decisioni che vincolano gli Stati (regole comuni). L’integrazione assume allora la forma di una stratificazione di norme (l’acquis), alcune delle quali finalizzate ad obiettivi federali. E qui sta tutta la differenza tra il già descritto metodo comunitario visto come astratto idealismo cosmopolitico, che si fonda su un cieco possibilismo, nel quale le nuove decisioni sono orientate dalle decisioni precedenti; e metodo comunitario visto come realismo cosmopolitico, volontarismo finalizzato, lucido, nel quale le nuove decisioni sono orientate da una finalità politica fissata inizialmente, perseguita con coerenza e continuità, senza remissioni: la federazione. Nel paradigma del realismo cosmopolitico, la federazione appare allora al tempo stesso come il solo possibile sbocco quando il metodo comunitario, nella sua versione realista, ha esaurito la sua fecondità, cioè quando non è più possibile procedere per piccoli passi, quando si impone un grande salto, quando quello che si tratta di mettere in comune non è più divisibile; essa appare come la forma da dare alla comunità delle democrazie per risparmiar loro l’impero sia all’interno sia all’esterno. È questa doppia logica che ha prevalso tra alcuni Stati membri nel caso dell’euro e della Banca centrale. È a questo paradigma di realismo cosmopolitico finalizzato ad un obiettivo federale che aderisce per costituzione la Repubblica Federale di Germania. È questo paradigma che era prevalente in Italia quando Spinelli e De Gasperi ottennero che al progetto di Comunità europea di difesa fosse annesso lo statuto della Comunità politica. È questo paradigma che prevalse quando Monnet e Schuman, perseguendo un obiettivo di alta politica (la pace franco-tedesca), crearono a tal fine uno strumento apparentemente tecnico, economico e settoriale. Curiosamente, è ancora questo paradigma che prevarrà quando de Gaulle proporrà ai cinque partner della Francia, con il piano Fouchet, l’atto fondatore di una «unione indissolubile», un patto che essi rifiuteranno.
Quando il nuovo Presidente francese propone di avanzare nella direzione di un’Europa della difesa, o ancora di suggellare definitivamente l’Unione o di eleggere il Presidente di un’Europa politica, difficilmente passerebbe per intergovernativo. Sarebbe almeno comunitario. Un comunitario finalizzato? O no? Quando fa leggere la dichiarazione di Schuman il 14 luglio, quando cita (adesso senza omissioni) i padri fondatori, orienta la costruzione europea (secondo lui la priorità delle priorità della politica francese) verso una federazione o verso un sistema di Stati sovrani? Non si tratta di un dibattito bizantino. È l’essenza del dibattito.
 
Dirlo o non dirlo?
 
Ma si può usare la parola federale? La signora Thatcher si rifiutava di pronunciarla. E da allora, tutta l’Europa, dai più ardenti difensori del laissez-faire all’ala opportunista del federalismo organizzato,[3] l’ha seguita passo passo, complicando il dibattito. Bisogna proprio dire federale se si vuol fare chiarezza. Se l’adesione all’obiettivo finale è più chiara in Germania e in Italia di quanto non lo sia in Francia, ciò è senza dubbio dovuto al fatto che il federalismo e la costruzione europea sono inseriti nella costituzione in Germania, che Roma non è Parigi e che non c’è stato un de Gaulle tedesco o italiano a riportare di moda la grandeur della nazione tedesca o della nazione italiana, cosa che d’altra parte avrebbe sollevato feroci proteste.[4] Non che de Gaulle abbia complicato il dibattito. Anzi, l’ha chiarito, contraddittoriamente, mettendo il veto all’ingresso dell’Inghilterra, ma proponendo da una parte un’unione indissolubile ed opponendosi al bilancio federale dall’altra. Ciò che ha fatto degenerare il dibattito europeo in Francia è stato il regolamento di conti tra gli eredi di de Gaulle e quelli di Monnet, di Schuman, di Pinay, di Blum e di Mollet, sullo sfondo delle guerre coloniali e della guerra fredda. Era allettante per gli eredi crearsi un patrimonio fondato su ricordi ancora freschi. Di questi tempi, più sereni, sarebbe saggio, anziché opporre i ricordi, accordarsi una volta per tutte per conciliare esigenze a lungo considerate come inconciliabili nell’Unione. Quelle di de Gaulle: autorità dello Stato, concerto organizzato dei governi responsabili,[5] ratifica popolare diretta,[6] subordinazione dell’amministrazione ai poteri legittimi,[7] indissolubilità dell’Unione; e quelle di Monnet: eguaglianza degli Stati, abbandono del diritto di veto, espressione dell’interesse comune, forza delle regole comuni, finalità politica.
È ciò a cui sembra essersi dedicato finora Nicolas Sarkozy. Possiamo scommettere che non si fermerà qui se vuole imprimere la sua impronta, come altri prima di lui, nella costruzione europea.
Ciò contribuirebbe a rasserenare il dibattito francese, di cui non si occupano i nostri vicini e partner, spesso sconcertati da tanta ostilità, più o meno contenuta, tra le due fazioni storiche e dal nuovo confronto tra sostenitori del sì e del no, che peraltro non si sovrappone alla prima divisione. Al di fuori dei nazionalisti e dei souverainistes (ma ce ne sono nello stretto entourage di Nicolas Sarkozy), che rifiutano qualsiasi integrazione, bisogna però riconoscere che l’opposizione al metodo comunitario è abbastanza diffusa, che il discorso divenuto di moda, a destra come a sinistra, dichiara volentieri «superato» il metodo di Monnet, senza che si riesca a capir bene se si tratti della sua invenzione istituzionale o del gradualismo, o anche della pretesa priorità dell’economia sulla politica.[8] In ogni caso, una cosa, che non semplifica nulla, è chiara: tra quanti si oppongono al metodo comunitario, ve ne è un certo numero, anche tra i sostenitori del sì, che rimproverano a tale metodo di andare al di là dell’intergovernativo, altri che vogliono mettere la museruola alla Commissione, altri che vedono nel diritto di veto un diritto inalienabile degli Stati, altri che denunciano il governo dei giudici e contestano la legittimità di un Parlamento che non è quello di una nazione; ma vi è anche chi, anche tra i sostenitori del no, gli rimprovera di fermarsi a metà strada nel cammino verso la federazione, o addirittura di precluderne lo sbocco. Circa l’adesione al metodo comunitario, altrettanto diffusa, per gli uni si accompagna alla constatazione che con il metodo intergovernativo non si raggiungono né l’efficacia né la democrazia, pur ammettendo che idealmente il conto tornerebbe solo con la federazione; per altri, l’adesione si fonda sul metodo stesso, e ne sostiene l’universalità, nel culto di un Monnet che non avrebbe mai pronunciato le parole Stati Uniti d’Europa, né mai pensato al precedente e all’esempio americani: sono coloro che rifiutano per principio tutto quello che potrebbe assomigliare ad una presidenzializzazione o a una parlamentarizzazione completa dell’Europa, ad un governo, ad uno Stato federale. In queste condizioni, non stupisce affatto che i partner della Francia facciano fatica a capire che cosa sia in questione e che anche i cittadini francesi lo capiscano male. Ciò che conta è non sottostare più ai terrorismi intellettuali, sia che si tratti di quello della signora Thatcher, o quello degli anti-liberali o degli anti-cosmopoliti, questi nuovi nazisti del pensiero.[9] È invitare tutti i Monnet e tutti gli Spinelli del continente (oggi ne resta qualcuno e le generazioni emergenti ne contano più di quanto non si pensi) a tirare la carretta, sperando, con gli uni di ottenere dalla Francia e da qualcuno dei suoi partner, in una strategia dei ruoli, una nuova iniziativa e, con gli altri, se ce ne fosse bisogno, di ottenere un nuovo slancio attraverso nuove forme di partecipazione dei cittadini.[10]
Come l’esempio dell’euro dimostra bene, il metodo comunitario non è un passaggio obbligato verso il metodo federale. Quando si tratta di una competenza indivisibile, ove prevale l’esigenza dell’unità di decisione e di responsabilità, si vede chiaramente che è necessario saltare la tappa comunitaria. Non è possibile fissare i tassi di interesse al tavolo di un consiglio di governatori, che devono decidere all’unanimità una politica sedicente «comune» condotta da banche centrali rimaste indipendenti le une dalle altre. Bisogna organizzarle in un sistema federale il cui esecutivo comune, la BCE, distinta dalle banche centrali nazionali, sia unico. Ed è proprio quello che è stato capito. E realizzato, ma solamente tra quanti erano pronti, e i criteri di Maastricht erano là per aiutare ad identificarli. Questi paesi formano oggi, che lo si voglia o no, un nucleo di paesi dell’Unione che hanno un sistema di governo monetario comune, aperto a ciascuno degli altri, quando a loro volta saranno pronti. Ci si potrebbe chiedere: perché non si fa altrettanto in materia di politica estera e di difesa? La prima risposta è che una banca non è altro che un’agenzia. Anche se la moneta è un affare di Stato, e anche se il potere di batterla è, come si suol dire, «prerogativa regale», sottolineando bene che si tratta di una prerogativa sovrana, resta il fatto che il governatore di una banca centrale, anche se indipendente, non ha un potere politico, ma un potere tecnico, triviale, che la sua sorte non dipende dalle urne, e che, indipendenza o no della banca, non partecipa alla lotta per il potere. La seconda risposta è che il problema si è posto una sola volta, tra il 1951 e il 1954, e che dopo il fallimento, per colpa della Francia, del progetto di difesa europea che aveva essa stessa costruito, questo problema è stato costantemente eluso e la messa in comune delle diplomazie e delle forze armate è stata provvisoriamente messa da parte, ma con una provvisorietà che tende a diventare eterna. Non sono i progressi che mancano, purché l’indipendenza dei capi degli eserciti (i capi di Stato o di governo) e quella dei ministri degli Affari esteri non sia intaccata. Né la creazione del Servizio europeo di azione esterna o dell’Eurocorpo (agenzie) e neppure la novità dell’esistenza di un capo di stato maggiore europeo (ancora un’agenzia) modificano minimamente la sovranità formale degli Stati, né i poteri dei governi eletti. Anche il Trattato di Lisbona, creando un Presidente stabile del Consiglio europeo e dando maggior rilievo all’Alto Rappresentante della PESC, senza concedergli il rango di ministro, resta inoffensivo nei confronti della sovranità, almeno nella forma.[11]
La sola vera novità nel campo delle istituzioni, non ancora colta sul continente, ma capita perfettamente oltre Manica, è che l’allargamento da 15 a 27 ha un effetto inatteso, sanzionato dal Trattato di Lisbona, che la maggior parte dei governi non aveva saputo prevedere: è la trasformazione del segretariato del Consiglio, di cui è titolare l’Alto Rappresentante, in una istituzione soprannazionale a pieno titolo, alla stessa stregua della Commissione o del Parlamento. Per essere efficace con 27 membri, il segretariato non può più accontentarsi di essere uno strumento delle capitali, bensì deve affermare la propria autorità, una autorità europea. E paradossalmente, si tratta dell’interesse dei governi di fronte alla Commissione. Ed è qui che cominciano i guai. Più il segretario, alias l’Alto Rappresentante, acquisterà importanza, più darà ombra alla Commissione, di cui è per altro il vice-presidente, cosa che del resto rafforza il suo carattere soprannazionale, ma darà ombra anche ai ministri nazionali e ai capi di governo, gli stessi che speravano di utilizzarlo per impedire alla Commissione di apparire come un governo europeo. Senza parlare del Presidente del Consiglio europeo, che dovrà costruirsi un profilo a spese del Presidente della Commissione. Ecco perché la macchina europea della PESC e della PESD non andrà avanti! Perché a livello dei 27 non esistono ancora la convergenza effettiva (la coscienza degli interessi comuni), la coesione (le solidarietà all’opera) che sarebbero espresse da una politica estera europea completa, né un corpo politico europeo. Il Ministro è là per condurre una politica che avrà difficoltà ad esistere, e rimarrà molto parziale, esposta al rischio di grosse contraddizioni rispetto all’azione dei singoli Stati. Ma questa coerenza è possibile e la coesione è sufficiente su scala ridotta, come per l’euro. A questo proposito bisogna prestare la massima attenzione ad una recente dichiarazione di Jean-Claude Juncker, dell’8 novembre a Berlino. Ricordando che il Regno Unito non faceva parte dello spazio di Schengen, non aveva adottato l’euro ed aveva recentemente ottenuto deroghe circa la Carta dei Diritti fondamentali, così come in materia di polizia e di giustizia, Juncker ha proposto di prendere atto di questo stato di fatto rafforzando il nucleo centrale degli Stati che aderiscono a tutte le regole dell’Unione, autorizzando la costituzione attorno ad esso di una corona di paesi ad adesione parziale. A proposito di Juncker bisogna d’altra parte parlare di un pensiero costante, perché egli aveva già, in un altro 8 novembre, ma questa volta a Parigi, al Senato, preso in considerazione «parecchi appartamenti nella casa europea: l’appartamento di quelli che fanno insieme tutto, e due o tre stanze aggiunte per quelli che non vorranno o non potranno partecipare a tutte le politiche dell’Unione. Volere a tutti i costi — aveva detto — una costruzione d’insieme con gli stessi doveri per una quarantina di paesi mi sembra un progetto destinato a fallire».
La nucleazione dell’Europa,[12] oltre ad essere stata legata alla dinamica europea fin dalla CECA, è un’ipotesi che affiora di tanto in tanto nel dibattito europeo fin dal documento Schäuble-Lamers del 1° settembre 1994;[13] addirittura era stata anche ipotizzata, ufficiosamente, l’organizzazione di una retroguardia dall’artefice del Progetto Penelope (il progetto di costituzione della Commissione), il compianto François Lamoureux.[14] Quest’idea riuscirà ad assumere un ruolo strategico, come paradigma del completamento (in opposizione all’approfondimento e all’allargamento) nella situazione che si creerà dopo la ratifica (probabile al momento in cui vengono scritte queste righe) del Trattato di Lisbona o costituirà, accanto allo spill-over o teoria del domino, un semplice strumento di analisi che si aggiungerà all’armamentario dell’economista o del politologo dell’integrazione?
 
Pensare il nucleo.
 
Pensare il nucleo è un compito difficile, perché bisogna chiedersi chi ha al tempo stesso la legittimità e la credibilità necessarie per prendere l’iniziativa, in che cosa consiste un’adesione completa all’Unione o che cos’è un full member. La full union (il nucleo), l’unione completa, l’unione compiuta è un’unione di full members? Come costituirla? Come organizzarla? Qual è il suo status nell’Unione? E per fare che cosa che l’Unione attuale non fa o non può fare, sia che questa incapacità sia postulata sia che risulti in tempi brevi dall’esperienza di qualche anno di applicazione del Trattato modificato?
È chiaramente all’ultima di queste domande che bisogna rispondere per prima cosa. Il nucleo non è che un mezzo, come d’altra parte l’Unione, per salvare gli europei dalla divisione e il mondo dal disordine. Basta una frase letta sulla stampa inglese: Europe is shrinking, the West as well. Gli ordini di grandezza sono sotto gli occhi di tutti: anche solo in termini economici e demografici: occorrono l’Europa e l’America del Nord insieme per sperare di potersi misurare domani con la Cina o con l’India.[15] Ciò equivale a dire che una relazione transatlantica equilibrata è indispensabile per assicurare nel mondo la vittoria dei Lumi, dello Stato di diritto liberale e della democrazia rappresentativa. Se lo sviluppo sostenibile dell’Europa ha il prezzo di una politica comune dell’energia e dell’ambiente, quello del pianeta dipende dalla nostra capacità di trascinare nella stessa direzione dapprima gli Stati Uniti d’America e poi, con loro, due sub-continenti con miliardi di uomini, anche al prezzo di una politica estera da grande potenza e di una difesa al servizio di questa politica.[16] La pace e la libertà dei Balcani e dell’area circostante l’Unione e la nostra libertà d’azione collettiva nei confronti di una Russia incerta e del caos del Medio Oriente dipendono anche dalla nostra capacità di intelligence e di proiezione della potenza, dal dominio dei mari (ed in primo luogo del Mediterraneo e del Baltico) e dello spazio e dalla capacità di dissuadere qualsiasi aggressore. Parallelamente, la fecondità e la credibilità del metodo comunitario come prefigurazione delle «forme di governo del mondo di domani» (Monnet) dipende dal completamento della costruzione europea, di un’unione indissolubile di coloro che sono pronti e determinati, aperta a tutti i paesi membri dell’Unione europea, di una federazione nell’Unione. Da questo completamento federale dipende il fatto che il metodo comunitario appaia o come un’inutile deviazione verso il libero scambio e verso il ritorno ad una illusoria cooperazione mondiale degli Stati nazionali sotto la protezione e la sorveglianza dei più potenti, cioè degli Stati Uniti e della Cina (e dell’India, se ne avrà la volontà e riuscirà a trovare un modus vivendi con il suo grande vicino del Nord), vale a dire verso un mondo nel quale il messaggio dell’Europa circa i suoi valori o i sui suoi principi non sarebbe più creduto e dal quale essa, in quanto tale, sarebbe assente. O come la via più diretta verso un sistema mondiale multipolare di federazioni regionali, verso un nuovo ordine mondiale, verso un governo democratico planetario. Il metodo di Monnet non è superato: è ad un crocevia a seconda che gli europei lo utilizzino al servizio del laissez-faire, come i britannici insistono a volere, o che si facciano carico coscientemente della finalità federale posta dai padri fondatori.
O l’Europa rimane uno spazio — ma anche il mondo è uno spazio — più vasto, che si organizza in quanto tale velocemente e le imprese, le parti sociali e gli stessi cittadini non vedranno ben presto più l’utilità dell’Unione, che non avrà la capacità di difendere e di promuovere i loro interessi; oppure l’Europa, un’Europa federale nell’Unione, diviene una potenza capace di fare per tutti gli europei altrettanto o di più di quanto fa l’America per gli americani, e gli europei torneranno a credere nel loro avvenire, diverranno un popolo, capace allora di condividere con gli altri continenti la propria esperienza di più di mezzo secolo di vittorie sulla «libertà selvaggia degli Stati» (Kant).
È stato un errore parlare di «costituzione». Non c’è costituzione senza Stato. Non volendo federare gli Stati in uno Stato federale, non bisognava parlare di costituzione. Confusamente, i francesi e gli olandesi (ed altri che non sono stati consultati per via referendaria) hanno avuto l’impressione che ci si prendesse gioco di loro con le parole e con le cose, senza proporre loro un vero cambiamento, perché non si trattava di mettere l’Unione allargata in condizione di decidere più efficacemente, non si trattava di costituire uno Stato. Si sono sentiti ingannati. È una lezione, perché adesso bisognerà essere chiari. Bisognerà che Habermas scriva un nuovo articolo: «Perché l’Europa ha bisogno di uno Stato» (e perché uno Stato deve essere costituzionale, democratico, federale e sociale).[17] Bisognerà dire perché i problemi di sopravvivenza di fronte ai quali si trova il mondo non possono trovare alcuna soluzione efficace se non ponendo fine al «nuovo disordine mondiale»[18]a partire da un’Europa potenza. Constatare che il tempo incalza, che questa Europa potenza, per essere credibile agli occhi degli altri e degli stessi europei, per essere efficace al servizio di obiettivi (come l’indipendenza alimentare o energetica e lo sviluppo sostenibile) che sono già quelli dell’Unione impotente, non può essere che uno Stato federale, un ordine federale che, «pur lasciando a ciascuno degli Stati la possibilità di sviluppare la propria vita nazionale nel modo più adatto» alla sua cultura e alla sua identità, «tolga alla sovranità di tutti gli Stati associati i mezzi di far valere i propri particolarismi egoistici». Queste parole prese a prestito da Spinelli[19] dicono abbastanza chiaramente che lo Stato richiesto non è che uno Stato minimale, sufficiente, sussidiario, non un super-Stato. Bisognerebbe d’altra parte che i nostri avversari ci dicessero che cosa intendono per «super-Stato», a noi che ci sforziamo di spiegare che cos’è una federazione. Gli euroscettici d’oltre-Manica (o di altrove) credono che gli Stati Uniti non siano un paese di libertà? Credono contro ogni evidenza che dopo aver subìto due totalitarismi in un secolo i continentali sarebbero tentati di inventarne un terzo? Oppure credono che possa trattarsi di uno Stato burocratico accentrato, sul modello francese o prussiano? Ridicolo. Tutti coloro che cedono alla tentazione di tenere questo discorso, un po’ per pigrizia, un po’ per demagogia, un po’ per abitudine, un po’ per ignoranza, dovrebbero stare attenti a non cadere in questo ridicolo!
Trattandosi della potenza dell’Europa, cioè del potere di piegare il corso delle cose nel senso dei principi e degli interessi europei, bisogna riconoscere che non esiste niente tra lo status quo di una cooperazione alla ricerca di se stessa, intergovernativa, con obiettivi poco chiari, e la politica che potrebbe essere definita democraticamente e condotta in modo efficace da uno Stato federale europeo. I progressi che sono compiuti, a poco a poco, avvengono nell’ombra. È l’Europa surrettizia (l’Europa «en douce», come aveva detto Elisabeth Guigou l’indomani del referendum sul Trattato di Maastricht), quella che presta il fianco al sospetto di un complotto contro le nazioni.[20]Ed è l’Europa lenta che permette ad avversari, rivali, concorrenti e partner di segnare punti a nostre spese, che assiste passivamente alla crescita in potenza di altri continenti e, tra pochissimo, alla vulnerabilità, all’impotenza, perfino al declino dei nostri alleati e partner nord-americani. Allora bisogna agire velocemente, al di là della semplice cooperazione di tutti gli Stati membri dell’Unione, mettendo in comune i mezzi della diplomazia e della difesa, gli strumenti di intelligence e di polizia, cioè competenze indivisibili, nelle quali l’unità di decisione e di responsabilità, di rappresentanza e d’azione, è una necessità. E riconoscere che il metodo comunitario (soprattutto a 27) sarebbe incapace di operare e che, anche se fosse mantenuta la promessa di comunitarizzare queste competenze, non verrebbe soddisfatta l’esigenza di legittimità, posta al tempo stesso dalla rinuncia ad agire degli Stati e dall’eventuale decisione di utilizzare le forze armate. Se è solo un passo che bisogna fare, come nel caso della moneta, e non un lungo cammino da percorrere, come nel caso del mercato, allora bisogna abbandonare l’idea che l’Europa non si farà in un sol colpo, improvvisamente, alla luce del giorno. È ora di ammettere che i lavori di avvicinamento sono durati abbastanza e che bisogna passare ai fatti. È una scelta che possiamo ancora fare liberamente, a freddo, prima che ci venga imposta, in mezzo a una crisi e nella tormenta, o a caldo, in un momento e nelle forme che non avremo avuto la possibilità di deliberare e di definire serenamente tra europei. Al gradualismo di Monnet bisogna ora sostituire, con un ritorno alle fonti del federalismo di Spinelli, la creazione di una nuova sovranità interna ed esterna, sul territorio di diversi Stati dell’Unione europea attraverso la fusione parziale (la parte federale) delle loro precedenti sovranità, fino ad allora formalmente intatte.[21]La federazione così creata erediterebbe i diritti e gli obblighi dei suoi Stati membri, derivanti dal diritto comunitario e dal diritto internazionale. Essa li rappresenterebbe negli ambiti di propria competenza. D’altra parte è proprio perché l’esistenza dell’Unione non ha per nulla intaccato le sovranità nazionali che gli Stati membri rimangono liberi di disporne a proprio piacimento, in parte fondendole (metodo federale) — che è già il caso della moneta — senza smettere di condividerle (metodo comunitario), come nelle aree di competenza non esclusiva dell’Unione.[22] Questa creazione, anche se si scompone in una serie di atti giuridici e politici distinti, è istantanea e mette tutti gli altri (che sarebbe tuttavia opportuno tenere informati ed invitare) davanti ad un fatto compiuto (dal quale si sarebbero dissociati in precedenza). Sarà necessaria, da parte di coloro che prenderanno l’iniziativa di questo atto fondatore, una forte volontà comune, altrettanto spontaneamente comune quanto fu quella di Schuman, di Adenauer e di De Gasperi. I tempi di questo «colpo», praticato in piena legalità comunitaria, non sono né i tempi secolari della crisi e dell’«addomesticazione» delle sovranità, né quello storico dell’evoluzione spontanea e dell’interdipendenza crescente del genere umano: è l’istante della rottura (nella crisi o al di fuori della crisi) e non rappresenta una novità nella costruzione europea. Si fa finta di vedere in questa costruzione nient’altro che un processo, se non continuo, almeno concatenato, in una dinamica dai tempi lunghi. Ma questo significa dimenticare che la CECA ha escluso tutti coloro che non hanno voluto parteciparvi, senza fare riferimento alle sole Europe allora esistenti, il Consiglio d’Europa e l’OECE. È bene che coloro che in Europa centrale od orientale sono già (o sarebbero domani) tentati di vedere nella prospettiva di una nucleazione dell’Unione un atto di divisione mirante a satellizzarli prendano atto del fatto che oggi non sarebbero membri di una libera unione di nazioni libere se i promotori della CECA si fossero fatti degli scrupoli ad andare avanti da soli. Non esiste atto fondatore senza rottura con il passato. La rottura può fare tabula rasa: è fuori discussione. Può aprire le porte dell’avvenire: qui sta tutta la posta in gioco.
 
Il federatore.
 
Per aiutare a capire, può essere utile distinguere diversi momenti di questa nucleazione: il tempo dell’opportunità, quello dell’iniziativa, quello della visione, quello della comunione delle volontà, ed infine il tempo della deliberazione (la costituzione propriamente detta). Il tempo dell’opportunità è quello dell’analisi della situazione globale. Dedicarvisi pubblicamente contribuirebbe alla costruzione del consenso necessario. Basta ricordare che il maggior o minore disordine mondiale dipende ancora (quanto a lungo?) da Washington, più che da una coscienza planetaria, che tuttavia si diffonde, ma senza concretizzarsi nelle istituzioni di una comunità giuridica; che la catastrofe ecologica ci sarà risparmiata solo al prezzo di un’azione universale immediata, che esige nuove forme di governo a livello mondiale, capaci di suscitare una convergenza di interessi divergenti. È entro questi tempi che occorre coinvolgere le ragion di Stato, operanti là dove esistono Stati con le dimensioni giuste, continentali o subcontinentali. È il tempo machiavellico della nucleazione.
Il tempo dell’iniziativa è quello della valutazione dei bisogni e degli interessi immediati. È quello della presa di coscienza, facilitata da qualche spirito illuminato, dell’urgenza di un soprassalto degli europei, se vogliono evitare i pericoli di cui si avverte l’avvicinarsi: stagflazione, dipendenza energetica, vulnerabilità strategica, insufficienza demografica, instabilità attorno ai propri confini, stallo della ricerca. Esprimendo in termini risoluti la sua intenzione di costruire un’Europa della difesa alla vigilia della presidenza francese dell’Unione, Nicolas Sarkozy ha aperto una finestra di opportunità, perché questa intenzione deriva da un’analisi dei rischi e delle poste in gioco con la quale i federalisti sono in consonanza, ma è anche una finestra di iniziativa, nella quale sono chiamate ad esprimersi, a fianco dell’ambizione della Francia per l’Europa, le ambizioni dei suoi partner. L’iniziativa francese, se resta aperta, autenticamente europea, richiama altre iniziative. È un momento monnetiano-spinelliano. Tali iniziative disegneranno i primi contorni del nucleo. L’Europa della difesa può essere due cose: un’Europa del complesso militar-industriale, o un’Europa delle forze armate europee sotto un comando unificato. La prima è un affare per i mercanti di armi, quale che sia l’impiego che ne viene fatto, nazionale o europeo. Vi si vede bene l’interesse francese. E britannico (ed il rischio di dissociazione dell’Unione). Se invece si tratta, ben al di là di una semplice alleanza nell’alleanza, che i nostri partner (in particolare la Germania) non vorrebbero, della costruzione del secondo pilastro dell’alleanza, allora il comando militare non è sufficiente, e gli italiani, come nel 1951, hanno la vocazione per dirlo. Niente esercito senza Stato. Ma niente Stato, diranno i tedeschi, che non sia non solo democratico, cosa che dovrebbe essere ovvia per tutti, ma anche federale e sociale. Se questa iniziativa resta aperta a tutti gli altri Stati membri dell’Unione, si vedrà già delinearsi un perimetro: la Francia, l’Italia, la Germania, il Belgio, il Lussemburgo e la Spagna. I Britannici, salvo sorprese, non ne vorranno sapere dello Stato e si ripiegheranno, per «aspettare e vedere», su programmi di produzione di armi. L’Olanda, il Portogallo (sempre sensibili alle posizioni britanniche) e l’Austria (se non mette fine alla sua neutralità «permanente») potrebbero declinare l’offerta. L’Irlanda e la Finlandia, che non sono membri della NATO, ma utilizzano l’euro, potrebbero invece vedervi l’occasione di entrare in un sistema di difesa collettiva legato alla NATO e di acconsentire, così facendo, alla loro presenza nella NATO in quanto membri della Federazione, senza doversi pronunciare a livello nazionale. La Danimarca, membro della NATO, che pensa di sottoporre a referendum l’abbandono dei suoi opting-outs, potrebbe facilmente rivedere la sua posizione sulla difesa. La Polonia non ne vorrà sapere del federalismo, almeno in un primo tempo, ma la Slovenia (che utilizza l’euro) e l’Ungheria (che si è così spesso dichiarata favorevole alla difesa europea) potrebbero facilmente propendere per l’adesione (soprattutto se l’Austria, che utilizza anch’essa l’euro, facesse lo stesso) così come i Baltici, nella scia della Finlandia, superando la loro paura della prospettiva di una nuova divisione degli europei. «Tutto diventa possibile — scrive Monnet — se si è capaci di concentrarsi su di un punto preciso che trascina tutto il resto». A più lungo termine, altri sviluppi del tutto inattesi, sarebbero allora probabili, anche in Svezia (dove si comincia a parlare di «nucleo duro»[23]e dove si prende in considerazione l’adesione alla NATO) o nel Regno Unito, e poi infine, in tutti gli Stati membri.
Ma lo Stato (il cui capo civile è il capo dell’esercito) precede l’esercito (ed il suo stato maggiore), come sua precondizione: è il momento «alla Victor Hugo» della visione. Gli Stati Uniti d’Europa sono inevitabilmente il quadro concettuale in cui l’Europa della difesa finirà per inscriversi. Per motivi di equilibrio (equal partnership) e di legittimità: l’Europa avrà credibilità solo a condizione di avere non solo il numero di telefono presso il quale ricevere le chiamate della Casa Bianca o del Cremlino (è già il caso dell’Alto Rappresentante), ma un interlocutore per il Presidente degli Stati Uniti non solo unico (è già il caso sia del Presidente della Commissione, sia del futuro presidente «stabile», ma quale dei due?), ma soprattutto uscito da un’elezione come lui, abilitato a rispondere a tutte le questioni in nome della federazione e investito della legittimità necessaria per ingaggiarne le forze armate in operazioni, con o senza gli Stati Uniti, nel quadro della NATO oppure unilateralmente.
Viene anche il momento della volontà, soprattutto di quanti in Francia si pensa non ne abbiano: gli italiani, i belgi e i lussemburghesi. È anche il momento più delicato, perché il suo esito positivo dipende dalla forza di convinzione, dall’abilità diplomatica, dall’immaginazione e, in una parola, dall’impegno personale di uomini o di donne. Questi uomini e queste donne ci sono. Sono i nostri contemporanei. Vivono al nostro fianco. Chi sono? Si sono espressi? Vogliono farlo? Indurre questo momento di volontà è il compito prioritario dei federalisti, come in passato; il momento in cui il whisperer, come Monnet e Spinelli al loro tempo, a condizione di arrivare all’orecchio di qualcuno di questi uomini o di queste donne, ha il potere di cambiare il corso delle cose. I federalisti, attraverso una strategia di influenze o azioni di consensus-building o people-building, possono essere dei fabbricanti di volontà. Della volontà di questi uomini e di queste donne: di dissuadere la Francia da ogni passo unilaterale improvvisato, in particolare nei confronti della Germania; di scongiurare la Germania di rispondere positivamente ad una proposta francese che, nella sua logica ultima, va ben al di là del Trattato rivisto di cui Berlino per il momento fa finta di accontentarsi; di ottenere, con la Germania, l’adesione di un Nicolas Sarkozy, considerato senza pregiudizi, al principio di uno Stato federale, di condizionare l’accettazione di qualsiasi proposta francese di suggellare qualcosa di definitivo, cosa che Nicolas Sarkozy dice di augurarsi, al carattere federatore del patto che associa indissolubilmente le parti contraenti. Per dar vita così al federatore (qui già europeo) di cui lo stesso generale de Gaulle rimpiangeva l’assenza o che lui stesso non ha saputo essere. Infine per mantenere in permanenza l’assedio delle capitali europee, al fine di raccogliere sotto la stessa condizione e senza possibilità di deroga il maggior numero possibile di Stati membri dell’Unione. Bisogna far capire ai francesi che molti dei loro partner riconoscono l’urgenza del bisogno di una politica estera e di una difesa europee, condividendo la convinzione che l’Unione a 27 non è il quadro operativo in cui questo bisogno può essere soddisfatto, che le cooperazioni rafforzate non cambieranno nulla,[24]che ci vuole un’ambizione che in partenza non è alla portata di tutti. Ma occorre anche che la Francia colga bene quello che perderebbe in caso di fallimento: ogni possibilità di offrire agli europei, e quindi ai francesi, lo strumento delle loro legittime ambizioni, una potenza pubblica europea, una potenza europea per equilibrare il mondo ed aprire la strada al governo del pianeta.
L’ultimo momento, last but not least, quello della nucleazione è il più consensuale, perché si tratta del semplice esercizio della democrazia rappresentativa (e partecipativa): il momento costituente spinelliano, della deliberazione e della cristallizzazione del consenso fondatore.
L’esigenza di un’assemblea costituente dovrebbe essere in effetti un momento di riconciliazione nazionale ed europea. In Francia, in ogni caso; perché fu un gollista, e non di poca importanza, Fouchet stesso, autore del piano omonimo, a rimpiangere poco prima di morire: «avremmo dovuto convocare una assemblea costituente». Inutile spiegare ai lettori del Il Federalista la portata assiologia, la forza politica e la pertinenza strategica di questo momento.
Rimarrà il tempo del compimento del completamento, il tempo più lento, dell’allargamento del nucleo fino ai limiti dell’Unione (che non saranno già più, grazie alla prospettiva aperta dalla nucleazione, quelli attuali).
Trarre la lezione dalle sconfitte, in tutta umiltà, è in fondo il solo imperativo. La sconfitta del Trattato «costituzionale», dovuta ad un troppo-pieno di idealismo. «Abbracciamoci, pazza città» non è una massima realista: l’allargamento senza un preliminare approfondimento ha sancito il destino dell’Unione, che rimarrà uno spazio, utile alla prosperità, ma non adatto alla potenza; gli stessi americani riconoscono il potenziale europeo, ma se ne ridono, perché lo sanno rovinato. La sconfitta del governo economico dell’euro, della strategia di Lisbona e della PESC: non avendo incluso nelle competenze esclusive (federali) dell’Unione le grandi linee della politica economica, (e gli strumenti di bilancio che ne derivano), un quadro generale per le politiche nazionali dell’educazione e della ricerca e la stessa PESC,[25]i governi hanno già esposto l’Europa al declino. La sconfitta della differenziazione anarchica: a furia di opting-outs, di deroghe e di esenzioni, o di rimborsi ai britannici, il principio dell’eguaglianza dei doveri e degli obblighi degli Stati è andato perso: non ne è emersa un’avanguardia, ma una retroguardia, che ha il suo posto nell’Unione-spazio, ma che i full members di una full union ancora in cantiere trascinano come una palla al piede nella loro aspirazione a pesare negli affari del mondo.
Riteniamo che le due idee che strutturano il discorso di Nicolas Sarkozy sull’avvenire, difesa e unione politica, siano destinate al fallimento (come la CED o il Piano Fouchet), se non si tiene presente che un’Europa della difesa è impensabile senza Europa politica; e che un’Europa politica è impensabile senza federatore.
Il federatore, in mancanza di una grande figura storica in grado di svolgere questo ruolo, non può che essere un pugno di parlamentari e di uomini di governo che agiscano di concerto per un ritorno alla finalità posta dai padri fondatori, senza il ricordo della quale nulla di quanto è stato compiuto sarebbe stato fatto, e dimenticando la quale le più grandi ambizioni si risolvono in fallimenti.
Dal nucleo dei full members che sanciscono un patto indissolubile,[26] può nascere il federatore che manca all’appello, sotto forma di un’Europa libera, di un’unione sovrana, di un Stato federale costituito da quegli Stati membri dell’Unione europea che hanno il realismo di considerare il progetto iniziale più attuale che mai e dai loro cittadini di una prima democrazia europea (non nazionale) a pieno titolo, chiamata a federare, passo a passo, l’insieme del continente.


[1] Il paradigma della post-modernità è l’oggetto di una approfondita elaborazione, nel campo delle scienze storico-sociali, da parte di Ulrich Beck. Le sue opere ne analizzano le potenzialità: dapprima Risikogesellschaft – Auf des Weg in eine andere Moderne (Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1986), poi Macht und Gegenmacht im globalen Zeitalter: neue weltpolitische Ökonomie (Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 2002) e Der kosmopolitische Blick oder: Krieg ist Frieden (Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 2004), infine, con Edgar Grande, Das kosmopolitische Europa (Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 2004). Nel campo della politica, e in particolare in quello delle relazioni internazionali, l’analisi è troppo sincronica, fondata sulla cosmopolitizzazione interna di ciascun individuo. Quanto agli Stati, suppongo che si comportino come Stati moderni, che intrattengono ancora, per l’essenziale, rapporti di forza, appena temperati dalla cosmopolitizzazione interiore degli uomini di governo e dal movimento verso l’organizzazione internazionale. Nell’Unione europea, in cui questo movimento ha raggiunto il grado più avanzato (è, come vedremo, l’esperienza finora unica di un’integrazione finalizzata ad una completa unione), dove la guerra è divenuta materialmente impossibile, come prevedevano Monnet e Schuman, dove la sovranità è stata «addomesticata» (per riprendere la bella espressione di Paul Magnette), i rapporti giuridici prevalgono già de facto sui rapporti di forza. Affinché ciò avvenisse anche de jure, in modo irreversibile, bisognerebbe che l’Unione fosse indissolubile, quindi che fosse uno Stato (federale). Si potrebbe dire che l’Europa è già post-moderna all’interno, ma il mondo al di fuori resta moderno, e il dimenticarlo sarebbe altrettanto suicida quanto le teorie, una volta di moda, del disarmo unilaterale.
[2] Concetto proposto da Joseph Nye nel 1990 in Bound to Lead – The Changing Nature of American Power, Basic Books, New York, 1990, come reazione alle tesi che prospettavano il declino della potenza americana. Tale nozione è stata ripresa a proposito dell’Europa in francese da Zaki Laïdi (La norme sans la force – L’énigme de la puissance européenne, Presses de Sciences Po, Paris, 2005) e in inglese da Robert F. Cooper (The Post-Modern State and the World Order, Demos, UK, 2000). Non è irrilevante, perché si tratta di un collaboratore di Javier Solana, l’Alto Rappresentante dell’Unione. È vero che egli attenua la sua affermazione sul fatto che stia emergendo uno Stato post-moderno, la cui sovranità non consisterebbe in altro che nel diritto di sedere al tavolo, spiegando che il mondo ha ancora bisogno di imperi («Why we still need Empires», The Observer, Sunday 7 April, 2002: http://www.observer.co.uk/worldview/story/o,11581,680117,00.html). Forse qui si trova la spiegazione del pericoloso titolo che Ulrich Beck ha dato, o ha lasciato dare, alla traduzione francese di Das kosmopolitische Europa: Pour un empire européen (Flammarion, Paris, 2007)? In ogni caso, si tratta proprio del riconoscimento che la politica di (piccola o grande) potenza non è morta nel sistema mondiale degli Stati e che non è opponendo loro delle regole che si possono «contenere» (nel senso di containment) gli imperi.
I lettori della rivista Il Federalista sanno che il federalismo qui professato non è sospettabile di idealismo astratto, cosmopolitico o no, né di ingenuità. D’altra parte, non sono sicuro che il federalismo organizzato ne sia sempre esente in alcune delle contraddittorie correnti che lo attraversano.
[3] L’astratto idealismo cosmopolitico degli ingenui e di tutti coloro che pretendono che il metodo comunitario sia sufficiente in eterno, o che l’Europa non debba essere (o non sarà mai) uno Stato, fa in realtà il gioco del laissez-fairisme dei mercati finanziari e dei mezzi di comunicazione di massa che sono loro affidati, la cui parola d’ordine non è «meno Stato» (discorso che avvolge lo statalismo francese da quando il liberalismo è tornato di moda) o «Stato solo se necessario» (lo Stato sussidiario dell’ordine statuale tedesco), ma «il meno Stato possibile» o «niente Stato del tutto», e, poiché dopotutto nel mondo ci vuol pure un gendarme, occorre almeno una Repubblica imperiale: Raymond Aron non si era sbagliato. Se l’Europa, federandosi subito, non reagisce a questa visione (perfettamente resa dall’inglese Antony Giddens: «federalism is dead»), accelera scientemente l’avvento di un mondo in cui un’altra potenza, o delle altre potenze, contesteranno l’imperium americano: la democrazia americana, senza l’aiuto europeo, non sopravviverà. È questo il senso del titolo (Comment l’Europe va sauver l’Amérique, Saint-Simon, Paris, 2004) dato all’edizione francese del bel libro di un ex-consigliere di Bill Clinton, Charles A. Kupchan: The End of the American Era, U.S. Foreign Policy and the Geopolitics of the Twenty-first Century, Alfred A. Knopf, United States, 2002.
[4] Affermare che l’Unione Europea non è uno Stato è enunciare un fatto evidente. Ma dire che costituisce un sistema di governo federale è mentire, ancora oggi: vedo bene, per riprendere l’acuta definizione di Kenneth Clinton Wheare nel suo saggio What Federal Government Is, che gli Stati sono indipendenti, ma sono coordinati? Alternativamente: chi ha il compito di «combinare gli Stati per ottenere un tutto ben accordato, un funzionamento armonioso, senza doppi impieghi, senza lacune e senza contraddizioni» (definizione di «coordinare» presa dal dizionario Logos – Grand dictionnaire de la langue française, Bordas, Paris)? No, in verità il costituzionalista di Oxford era molto chiaro: «Il governo federale è caratterizzato da una divisione delle competenze tra autorità che non sono in alcun modo subordinate le une alle altre; questo vale tanto per l’estensione quanto per l’esercizio delle loro competenze costituzionali». Orbene, si constata piuttosto la condivisione, nel senso di sharing, quasi la fusione, per non dire la confusione, anziché la divisione nel senso di separare. Ho perfino sentito dire da Delors: «Non vorremo dopo tutto tornare a Montesquieu!» L’Unione in forza del suo atto fondatore — un trattato, sia pure battezzato «Trattato costituzionale» — resta subordinata agli Stati. Bisogna riconoscerlo, anche se è facile stendere la lista delle caratteristiche federali che l’Unione ha man mano ricevuto dai trattati (primato del diritto comunitario, posizione preminente della Corte di Giustizia, Parlamento eletto, deliberazione degli Stati, competenze esclusive, cittadinanza comune, principio di sussidiarietà, doppia legittimità).
[5] Sembra che egli non abbia mai preso in considerazione altro che una rappresentanza degli Stati attraverso i loro governi. È quanto d’altra parte avviene nel federalismo tedesco. C’è un riconoscimento generale che questa soluzione sia la più adatta nel caso di un’unione di nazioni di antica data: essa conserva alla Camera Alta un forza che in Europa un Senato eletto non avrebbe. Storicamente, la domanda è venuta dai Paesi Bassi («ma dove sono gli Stati?»), durante i negoziati per il Trattato di Parigi, quando Monnet aveva proposto un’Alta Autorità. Egli vide immediatamente il vantaggio che poteva trarre dall’accettare la creazione di un Consiglio, proponendo contemporaneamente un’Assemblea, prefigurando attraverso le due istituzioni un bicameralismo di tipo federale e ottenendo senza colpo ferire l’adesione dei tedeschi.
[6] De Gaulle non ha mai sottoposto atti europei a referendum. Ma rientrava pienamente nella sua visione il fatto che un atto d’unione indissolubile dovesse essere ratificato dal popolo francese. Il fallimento del piano Fouchet decise altrimenti.
[7] La denuncia della tecnocrazia europea (al cui sviluppo egli stesso ha contribuito non poco facendo mettere la Commissione sotto la sorveglianza permanente del COREPER di diplomatici con sede a Bruxelles) andava in lui di pari passo con una grande diffidenza verso l’oscuro potere degli uffici nella stessa Francia. Per lui l’amministrazione era una serva. Tuttavia, non si è mai reso conto del fatto che quella stessa amministrazione teneva al guinzaglio tutti i poteri, in particolare quelli territoriali, tranne il Presidente ed i suoi ministri.
[8] Molti buttano via il bambino con l’acqua sporca: l’invenzione istituzionale con il gradualismo economico, che non fu una scelta di Monnet, ma dell’Assemblea Nazionale francese quando bocciò la CED nel 1954. Una volta chiusa la porta all’unione politica, si imponeva l’applicazione dell’invenzione istituzionale sul tipo della CECA all’economia in generale e anzitutto al mercato. L’ironia della storia è che questo stesso paese, nel rigettare nel 2004, cinquant’anni dopo, una prospettiva costituzionale ritenuta capace di preparare un ritorno verso gli aspetti politici, ha creduto di rompere con la logica del «mercato prima di tutto» o della «moneta per prima cosa», alla quale si era precedentemente condannato.
Il metodo di Monnet, come indica il suo nome, non è che un metodo, non si propone di dividere le competenze tra gli Stati e la loro «comunità» e contemporaneamente quelle dei loro cittadini, ma di facilitare la decisione comune da parte degli Stati membri: deliberare e votare (nel Consiglio) su regole proposte da un organo indipendente dagli Stati (la Commissione) dando origine ad un diritto autonomo che si impone agli Stati che l’hanno creato insieme (è questo accumularsi di regole, l’acquis, che concretizza il gradualismo del metodo). Ma bisogna notare che, a valle, l’esecuzione delle decisioni rimane, a livello delterritorio, di competenza dei soli Stati (l’Unione non ha un’amministrazione territoriale propria) e che, a monte, gli Stati si sono affrettati ad erodere l’indipendenza della Commissione già allo stadio dell’elaborazione delle sue proposte, attraverso il COREPER, inventato sotto de Gaulle per controllare la Commissione e attraverso una miriade di comitati che riuniscono funzionari di una direzione generale della Commissione e dei ministeri nazionali incaricati delle stesse questioni in ciascuno degli Stati. Se ne sono resi conto i politologi che hanno costruito a partire da ciò la teoria della «fusione» delle amministrazioni (W. Wessels, «Comitology: Fusion in Action. Politico-administrative Trends in the EU System», Journal of European Public Policy 5/2, 1998, pp. 209-234; Dietrich Rometsch and Wolfgang Wessels (eds) , The European Union and Member States: Towards Institutional Fusion?, M.U.P., Manchester, 1996). È la prospettiva del governo dei burocrati denunciata da Romano Prodi. Se questa tendenza, naturale per le tradizioni francese e «prussiana», fosse confermata, darebbe vita a un Stato amministrativo monolitico, senza contro-poteri. Un simile Stato, creato sotto la monarchia, sopravvissuto alla rivoluzione francese, per l’essenziale, sopravvive ancora in Francia. Se è di questo che hanno paura gli inglesi, li capisco, ma allora che mettano in campo tutte le risorse del loro liberalismo politico per proporre una federazione con poteri limitati, ma reali, anziché alienare la loro sovranità, presunta intatta, agli Stati Uniti.
[9] Una cosa mi ha colpito nel dibattito pre-referendario in Francia: il largo consenso contro il mercato e contro l’apertura. Molti si qualificavano come «anti-liberali» ed «anti-cosmopoliti». Mi sono accorto, leggendo il libro di Emmanuel Faye, Heidegger, l’introduction du nazisme dans la philosophie, Albin Michel, Paris, 2005, ricco di testi di autori appartenenti al NSDAP, che i nazisti avevano esattamente gli stessi bersagli, che concentravano tutto il loro odio sulla democrazia e sugli ebrei (cosmopoliti per la diaspora). Nemmeno il bolscevismo, malgrado le sue pretese universalistiche, prese dal giacobinismo, si allontanerà mai, nemmeno lui, da un’ostilità innata nei confronti delle le libertà «borghesi» e si dichiarerà vittima di un complotto «cosmopolita». Non si potrebbe meglio descrivere in quale bagno culturale totalitario siano caduti, in occasione del referendum, tutti coloro che hanno prestato fede alle false argomentazioni di una minoranza di attivisti.
[10] «Monnet e io, stiamo tirando la carretta come due somari cocciuti — lui nella speranza di ottenere dai governi una nuova iniziativa, io nella speranza di ottenere dal movimento un nuovo slancio». Questa frase di Spinelli è citata dal Presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano, nel suo elegante saggio Altiero Spinelli e l’Europa, pubblicato in occasione del centenario della sua nascita (Il Mulino, Bologna, 2007). Quanto alle idee che ho in mente circa la partecipazione dei cittadini, esse sono già di dominio pubblico. Il lettore può far riferimento al mio sito (in preparazione): http://www.peupleeuropeen.eu, nel quale si troverà un «Progetto di manifesto per un nuovo Congresso del Popolo europeo».
[11] Il Presidente dipende unicamente dagli Stati, i soli sovrani, e l’Alto Rappresentante non è un suo ministro. D’altra parte è paradossale che l’Alto Rappresentante abbia più probabilità, nella prassi, di apparire come l’interlocutore dei capi di Stato terzi, di quante ne abbia il Presidente del Consiglio europeo, il cui ruolo è di presiedere (to chair) e non di rappresentare. Tony Blair, sostenuto da alcuni, tra cui Nicolas Sarkozy, sembra tuttavia essersi fatto un’altra idea, tutta esteriore, di questa funzione. Se questa visione dovesse prevalere, dovrebbe necessariamente aver luogo un riordino istituzionale, con l’elezione di questo Presidente che agisce come un Presidente dell’Unione. Non mancheranno di riapparire obiezioni del tipo di quelle già sentite negli anni Sessanta e Settanta a proposito del Parlamento: perché eleggere un Presidente senza poteri? Perché scegliere questo Presidente come si sceglie un capo di Stato dal momento che l’Unione non è uno Stato? Se il precedente dell’elezione diretta del Parlamento europeo ha un senso, per il federalismo organizzato e per gli euro-federalisti non organizzati quello sarà il momento di «far salire la pressione».
È stato appena pubblicato a Bruxelles un rapporto redatto da Antonio Missiroli che analizza per conto della sotto-commissione «Sicurezza e Difesa» del Parlamento europeo i probabili effetti del nuovo Trattato sulla PESD:  The Impact of the Lisbon Treaty on ESPD: Opportunities and Unknowns, European Policy Centre. Osservo che egli paventa, come per il progetto francese di Unione mediterranea, il rischio della sostituzione dell’Unione con una rete di unioni regionali, associate o no tra di loro, e che disegna il perimetro di un’Europa della difesa sovrapposta-dissociata, dal momento che include il Regno Unito e la Polonia.
[12] È la formula che ho utilizzato nel mio libro Nous citoyens des Etats d’Europe…, L’Harmattan, Paris, 1999. Vi descrivevo quattro scenari che è ovviamente possibile attualizzare a distanza di qualche anno: atomizzazione-fissione (il Trattato non viene ratificato, non entra in vigore, la Francia sente che l’Europa le sfugge, si lancia a testa bassa nell’avventura mediterranea, nella quale la sostiene un’Italia sull’orlo della disintegrazione e si compiace in un gioco di alleanze all’indietro, privilegiando Mosca rispetto a Berlino, la quale non ha che una sola soluzione di ricambio: la Mitteleuropa; l’America, per scongiurare i pericoli a Est, propone a Berlino di stringere i legami reciproci, mentre Londra si morde le dita per avere rifiutato la finalità politica della costruzione europea; qualche anno più tardi, la BCE va a pezzi, il dollaro o un nuovo marco circolano nell’Europa centrale e la stabilità del continente resta alla mercè di un incidente nei Balcani), sovrapposizione-dissociazione (nel grembo della NATO si forma un’Europa della difesa, soprattutto franco-britannica, con una Germania ben decisa a limitarsi ad acquistare un biglietto di ingresso nel club esclusivo delle industrie degli armamenti; non si applicano le regole delle cooperazioni rafforzate, perché francesi e britannici non vogliono deliberare su questi temi in presenza degli altri, si perde la fiducia: questo strumento, i cui creatori sono tentati di utilizzare per la difesa dei propri interessi, neutralizza ogni sforzo di dotare l’Unione di una politica estera propria; e le divergenze franco-britanniche, arbitrate dalla Germania, rimangono ben lontane dal raggiungere il volume richiesto per una politica di grande potenza; difesa con qualcuno e diplomazia a 27 si neutralizzano), sostituzione-associazione (questo scenario comincia come il primo, ma Francia e Germania reagiscono alla mancata ratifica organizzando un «nucleo-meno», un nucleo confederale sul tipo del trattato dell’Eliseo al di fuori delle istituzioni comunitarie e quindi del quadro delle cooperazioni rafforzate; qualche membro della zona euro rimane in disparte, l’iniziativa è percepita come un’azione di divisione, nella quale lo spirito di dominazione ha la sua parte, questo «nucleo» troppo ristretto, tutti i membri del quale restano membri dell’Unione, tende a sostituirsi all’Unione nella scala delle loro priorità e con ciò ha fine lo spazio di stabilità a 27. Ad immagine di questo, si creano spazi regionali nel Baltico, nei Balcani, nel Mar Nero, nell’Europa orientale, tra i quali con difficoltà riesce a tessersi una rete di accordi di associazione, ultimo voltafaccia dell’Unione), nucleazione-fusione (è la strategia del «nucleo-più», validata da un largo consenso, ricostruito pazientemente dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona tra quelli degli Stati membri che l’avranno ratificato; si tratta di pace e di democrazia; e di potenza al servizio della stabilità e della sicurezza, cioè degli interessi superiori degli Stati che si federano, superiori agli interessi nazionali; la federazione eredita i diritti e gli obblighi degli Stati membri nell’Unione europea; il suo perimetro è sufficientemente ampio per giustificare una politica estera da grande potenza e una difesa al suo servizio: entro un decennio, la maggior parte di coloro che se ne erano inizialmente auto-esclusi ratificano a loro volta la costituzione. I britannici stessi, che Washington richiama alla ragione ed i loro stessi interessi correttamente interpretati).
[13] Karl Lamers e Wolfgang Schäuble, «Riflessioni sulla politica europea», CDU/CSU Fraktion des Deutschen Bundestag, Bonn, 1° settembre 1994. Più recentemente, nello stesso spirito, Karl Lamers «Die Fundamente tragen noch – Wie Europa seine Bürger wiedergewinnen kann», Internationale Politik, n. 60, 2005, p. 7.
[14] Commissione europea, Studio di fattibilità – Contributo all’avanprogetto di Costituzione dell’Unione Europea – Documento di lavoro 04/12/2002. Questo prezioso testo, superiore, sotto molti aspetti al progetto di Trattato costituzionale della Convenzione, meriterebbe una maggior considerazione in caso di arresto del processo in corso, in particolare si tratterebbe di offrire ad assemblee di cittadini (nel quadro di un nuovo CPE) o ad «assise» parlamentari (con mandato costituente) una base di lavoro.
[15] Giusto per memoria, UE: 500.000; NAFTA: 400.000; Cina: 1.300.000; India: 1.000.000.
[16] Qui prendo a prestito volutamente i termini di «politica europea da grande potenza», gli stessi utilizzati dall’European Council on Foreign Relations (ECFR), un think tank accoppiato ad una lobby e da uno dei suoi fondatori, Joschka Fischer, che alcuni vedono come candidato alla funzione di Alto Rappresentante. L’ECFR si appoggia alla Open Society Foundation di Geroge Soros. L’impressione generale che si ricava, a mio parere, dai fora organizzati quest’anno in questi ambienti è che l’Europa non potrà evitare una crisi, che ne ha bisogno per prendere coscienza della sua unità di fatto e quindi per sancire la sua unità di diritto. Come possono tanti personaggi influenti ragionare in questo modo, senza inventare contemporaneamente la strategia di influenze e le formule politiche necessarie per fare a meno di questa crisi e, a freddo, condurre l’opinione pubblica sulla via dell’unità? Non perdiamoci comunque d’animo: ho letto, grazie alla penna di Ulrike Guérot, rappresentante dell’ECFR a Berlino, un’analisi dei rischi per l’equilibrio delle istituzioni derivanti dall’indipendenza del Kosovo e dall’esempio dato ad altre nazioni senza Stato o ad altre potenti regioni. Si tratta in ogni caso di un’indicazione che va nel senso della partecipazione diretta dei territori ad un futuro processo costituente.
[17] Jürgen Habermas, «Why Europe Needs a Constitution», New Left Review, n. 11, September-October 2001, http://www.newleftreview.org/A2343.
[18] Tra gli eurofederalisti che si esprimono in questi termini: Tzvetan Todorov, Le Nouveau Désordre mondial: Réflexions d’un Européen, Robert Laffont, Paris, 2003.
[19] «…un ordinamento federale, il quale, pur lasciando a ogni singolo stato la possibilità di sviluppare la sua vita nazionale nel modo che meglio si adatta al grado e alle peculiarità della sua civiltà, sottragga alla sovranità di tutti gli stati associati i mezzi con cui possono far valere i loro particolarismi egoistici, crei ed amministri un corpo di leggi internazionali al quale tutti egualmente debbono essere sottomessi» (Altiero Spinelli e Ernesto Rossi, Problemi della Federazione europea, Edizioni del Movimento Italiano per la Federazione europea, 1944).
[20] La tematica del complotto è molto presente nella memoria collettiva francese, nella sinistra giacobina, dove il complotto è necessariamente girondino, e quindi federalista, nella reazione, dove il complotto è masso-giudaico, e quindi cosmopolita.
[21] Quando affermo che le sovranità sono intatte, mi riferisco certamente alle sovranità formali, che rimangono assolute. Il discorso sulla sovranità materiale (che segue le competenze, quando sono esercitate in modo comunitario o federale) o reale (che finisce, per uno Stato, là dove la volontà di potenza di un altro Stato più potente ha esteso la propria) è tutt’altra cosa: la sovranità è sempre limitata de facto. Come il libero scambio degli economisti classici, la sovranità assoluta è un mito. Nello Stato federale, è la costituzione che pone dei limiti, ben reali, alla sovranità.
[22] La mia preferenza va al federalismo duale, anche se il federalismo cooperativo alla tedesca o all’austriaca conta molto in Europa. Mi sembra meglio evitare sia la deriva verso una fusione amministrativa degli Stati federati e dello Stato federale, sia quella verso un accentramento eccessivo. Ad esso viene rimproverato un funzionamento meno consensuale. Diciamo piuttosto che esso riduce alla sua espressione più semplice il campo in cui il consenso tra gli Stati federati dovrebbe stabilirsi. Si può leggere con profitto: Tanja A. Börzel and Thomas Risse, «Who is Afraid of a European Federation? How to Constitutionalise a Multi-Level Governance System», A Contribution to the Jean Monnet Working Paper, n. n. 7/00, Symposium: Responses to Joschka Fischer, disponibile all’indirizzo:
http://www.jeanmonnetprogram.org/papers/00/00f0101.html.
[23] Discorso del Primo ministro svedese, Fredrik Reinfeldt, martedì 19 febbraio davanti al Parlamento europeo a Strasburgo, Bollettino Europe n. 9605.
[24] Il quadro del nuovo Trattato offre, a condizione di dar prova di immaginazione, qualche «opportunità», come dice Missiroli. Ma resta il fatto che le cooperazioni rafforzate saranno impraticabili, come spiega Philippe de Schoutheete, capofila dello studio congiunto del Centre for European Policy Studies (CEPS), dell’Institut Royal des Relations Internationales (Egmont) e dell’European Policy Center (EPC), intitolato The Treaty of Lisbon: Implementing the Institutional Innovations. Il nuovo Trattato pone nuove regole, ma le modalità della loro applicazione rischiano di scoraggiare queste «cooperazioni». Tutti gli Stati membri parteciperanno ai loro lavori, anche quelli che le avranno rifiutate, ed il Parlamento europeo si esprimerà sulla loro creazione e sulle loro decisioni. Una cooperazione rafforzata composta da una maggioranza degli Stati membri sarebbe in grado di sormontare queste difficoltà, ma quando vi partecipa solo una minoranza? I parlamentari degli Stati membri non partecipanti sarebbero in maggioranza e potranno opporvisi. Il risultato sarà che i paesi implicati tenderanno a metter in piedi una semplice cooperazione intergovernativa, al di fuori delle regole comunitarie, quindi al di fuori di ogni controllo democratico, e con evidenti rischi di blocco e di fallimento.
[25] Il federatore, come unione aperta, era implicito nel piano Fouchet I, accessibile sul sito European Navigator: http://www.ena.lu/.
L’idea di un patto continentale che dichiarasse l’indissolubilità dell’unione tra gli Stati membri dell’Unione europea decisi ad adottare una politica estera e di difesa comune, a mettere in comune i loro mezzi pubblici nei campi della scienza, dell’insegnamento superiore e della ricerca, rigettata in passato per motivi comprensibili, sarebbe oggi in grado di discriminare (in modo più definitivo che non la dichiarazione 52 sui «simboli» annessa al Trattato di Lisbona) tra coloro che accettano la finalità politica e coloro che (provvisoriamente) la rifiutano. È entro il perimetro di questo patto che potrebbe essere di nuovo posta la questione costituzionale, quindi quella dello Stato, attraverso la convocazione di un’assemblea con opportuno mandato.
[26] La dichiarazione 52 sui simboli abbozza un perimetro. Che cosa sono i simboli se non quelli di uno Stato da costituire?
 

 

 

 

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