IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XLIX, 2007, Numero 2, Pagina 77

 

 

Mario Albertini teorico e militante*
 
NICOLETTA MOSCONI
 
 
La varietà dei temi e dei problemi contenuti negli scritti di Mario Albertini, dai più meditati a quelli appena abbozzati, dai testi teorici a quelli «militanti», alla corrispondenza, agli articoli per giornali e riviste, non permette di esaminare esaurientemente, in una breve introduzione, il contributo che egli ha dato alla cultura politica, e in particolare al pensiero e alla lotta federalista,[1] contributo che andrebbe integrato con il contenuto dei corsi tenuti all’Università di Pavia sull’ideologia, la politica, la ragion di Stato, la concezione materialistica della storia (proponendo una lettura originale dei testi di Marx). Questi temi sono stati via via approfonditi anche nelle «scuole-quadri» per i giovani federalisti, ai quali, come vedremo, voleva trasmettere la convinzione che senza strumenti teorici adeguati non sarebbe stato possibile condurre con piena consapevolezza la battaglia per la Federazione europea.[2]
Va inoltre sottolineato un altro aspetto — meno tangibile, ma comunque concreto e non senza conseguenze — della sua enorme vitalità culturale e politica: la grande disponibilità al dialogo, che egli riteneva basilare per l’avanzamento della conoscenza, e che faceva di ogni incontro, di ogni colloquio una riflessione basata sull’interscambio e sul massimo rispetto per l’interlocutore, sia che fosse l’affermato uomo politico o il giovane neofita federalista.
A questo proposito Albertini citava spesso il Fedro di Platone riguardo ai limiti della scrittura rispetto all’oralità, per concludere che l’unica vera forma di comunicazione produttiva — cioè che produce idee è quella orale, proprio perché è la sede del dialogo. Naturalmente non negava la funzione ordinatrice del linguaggio scritto, una volta raggiunti dei punti fermi. Ma la valorizzazione dell’oralità per lui significava l’indicazione della necessità che il linguaggio entrasse in un processo nel quale ogni affermazione potesse essere sottoposta alle molteplici prospettive aperte dall’interrogare e dal rispondere: il dialogo, appunto. E ciò è tanto più importante quando si tratta di mettersi in sintonia con una realtà in movimento in un’epoca di transizione come la nostra, e di interpretarla per tracciare percorsi e fare progetti.
Del percorso morale e intellettuale che lo ha condotto al federalismo Albertini ci ha lasciato qualche testimonianza in alcuni scritti autobiografici, pubblicati o inediti, che danno conto della sua formazione e del suo impegno politico prefederalista: «La mia formazione politica, appartenendo io ad una generazione cresciuta in tempo di dittatura, senza altra vita d’intorno che quella d’una uniformità coatta e stagnante, era stata semplicemente l’amore della libertà. Nell’oppressione questo sentimento non poteva maturare concezioni concrete, o meglio, l’unica concretezza allora possibile era quell’animus d’opposizione assoluta, che poneva di fronte al male (il fascismo) il bene (la libertà) senza alcuna possibilità di mediazione… Entrai nel Partito liberale credendo d’aderire ad una religione di libertà… Lì svolsi la mia astratta battaglia, mentre le continue smentite dell’esperienza… obbligavano a meditare tutto il problema politico».[3]
Una meditazione che è dapprima reazione a quel Benedetto Croce, suo «primo maestro»,[4] che condanna la ratifica del Trattato di pace in nome dell’onore dell’Italia: «L’ideale dell’Italia e della sua dignità nazionale è morto: lo pensiamo rispettabile in un vecchio che l’ha vissuto quand’era vivo; ma è inoperante, perché morto, perché senza prospettive storiche, quando sia ora richiamato, per l’azione di oggi».[5] Ma sarà poi necessario un lungo percorso di letture e riflessioni (Machiavelli, Meinecke, Dehio, Ranke, Schumpeter, Robbins, Bobbio ecc.) per giungere alla scelta di campo europeo, che è diventata prioritaria grazie al contatto con Spinelli, nel 1953.[6]
In realtà già nei primi anni del dopoguerra Albertini si era avvicinato al problema europeo, ma lo percepiva ancora, all’interno dell’impegno politico a livello nazionale, come un fatto di cultura.[7] Ci volle qualche tempo per arrivare alla presa di coscienza che il quadro italiano non era più adeguato al raggiungimento di fini democratici e non permetteva di sviluppare una lotta politica progressiva: «I sentimenti con i quali accompagnavo la lotta politica mutarono. Il grande problema del Sud, dell’unità nazionale, della democrazia in Italia, i valori che mi avevano mosso mentre credevo di occuparmi dell’umanità, e dei valori generali, mi apparvero ben relativi. Perché mai, nelle mie scelte morali, dovevo dare la priorità agli italiani del Sud, quando c’erano nel mondo due miliardi di uomini che stavano peggio degli italiani del Sud?… Il senso positivo dell’essere nato in Italia era proprio soltanto che ci ero nato, ogni altro senso doveva essergli attribuito dalla ragione e dal giudizio politico… Così mi ribellai non solo al nazionalismo… ma allo stesso lealismo nazionale».[8]
Questa sorta di illuminazione, questa raggiunta capacità di «misurare il mondo» con sguardo nuovo ebbe conseguenze sul piano culturale e intellettuale: «…giunsero altre revisioni culturali. Avevo messo a punto la critica dell’ideologismo, così lessi Mannheim capendo i suoi argomenti al di là di quanto li aveva capiti egli stesso, e ritenni di lavorare, culturalmente, entro l’ambito di una scienza empirica della politica ed in questo orientamento sto mettendo assieme questi vari pezzi, di Marx, dello Stato di diritto, di Ranke, della classe politica, traverso il pensiero di Hamilton e le sue sentenze fulminanti (“la garanzia della fedeltà del genere umano sta nel far coincidere i doveri con gli interessi”) che portano il senso della fondazione e del retto impiego delle istituzioni».[9]
Andare in profondità nell’analisi delle categorie della politica diventò un’esigenza vitale al fine di «definire» una scelta nuova, di rottura con una realtà superata di cui i partiti erano succubi («i partiti tendono ad identificare la realtà con la attualità di un equilibrio politico, poiché sono occupati a manipolarlo, a conservarlo in definitiva»[10]), e di cui gli intellettuali stentavano a rendersi conto. Come emerge nella «polemica» con Norberto Bobbio, sono proprio la figura e il ruolo dell’intellettuale che, nei periodi di cambiamento storico, vanno ripensati. Se Bobbio vede nell’intellettuale colui che «né si ritira, né attende, ma cerca di essere presente dovunque ci sono valori positivi», per Albertini egli non deve limitarsi ad affermare il positivo delle varie parti. In questo caso la sua presenza «subisce il corso politico generale, quindi diventa parassitaria della politica in atto, e priva l’equilibrio generale di una società, tanto quello politico immediato quanto e più quello futuro, della funzione attiva del tipo di verità proprio dell’intellettuale, sia per quanto riguarda il giudizio politico, cioè la conoscenza il più possibile esatta della situazione, sia per quanto riguarda la revisione degli schemi di azione politica, e la fondazione di nuovi schemi».[11]
È su queste considerazioni che Albertini ha fondato il suo pensiero e la sua azione nel corso di tutta la vita, cercando di esaminare il nostro tempo «con la disposizione mentale dell’uomo attivo, che si occupa del futuro, e del presente soltanto in funzione del futuro». «Il presente — la situazione storica in atto — non viene pensato a sé, come qualcosa da accettare, ma come qualcosa da integrare nei piani della volontà… Dunque esso assume per un verso il carattere di mezzo per i fini di una lotta, e per l’altro quello di una situazione che ha senso; e il cui senso sta proprio nel fatto che contiene la possibilità della sua evoluzione verso una situazione nuova, e tale da migliorare le sorti dell’umanità. A sua volta il futuro non si presenta nella forma di una semplice descrizione…, ma nella forma specifica di nuovi principi d’azione e delle conseguenze che ne derivano».[12]
La tensione verso il futuro, in termini di pensiero e di azione, raggiunge il culmine con la consapevolezza di vivere una fase storica di svolta radicale, in cui «qualcosa di vecchio deve essere tolto di mezzo per far posto al nuovo»[13] e per permettere l’avanzamento del processo di emancipazione umana. «In questi momenti la storia presenta — accanto alla sua incessante complessità evolutiva — un punto di estrema semplicità, quello nel quale o sta il vecchio o sta il nuovo, e un no assoluto deve pertanto essere pronunciato. Ciò è accaduto al liberalismo nei confronti dell’assolutismo, alla democrazia nei confronti del privilegio politico di classe…, al socialismo nei confronti del privilegio economico di classe… e sembra che stia per accadere al federalismo nei confronti del monopolio nazionale del potere politico ed economico, che si vale della forza bruta degli eserciti per mantenere la gerarchia tra le nazioni, ormai incompatibile, a causa della crescente interdipendenza tra processi nazionali e internazionali, con lo sviluppo della libertà, della giustizia e dell’eguaglianza».[14]
Quella che Albertini ha definito linea teorica consiste proprio in questo: la capacità di stabilire una relazione specifica tra una ideologia politica e il punto a cui è arrivato il processo storico.
«Una ideologia ha… una relazione generica con la storia quando ha già vinto la battaglia per la sua esistenza e non corrisponde più ad una svolta della storia, ma ad un fattore acquisito e stabile del processo storico. In tale situazione le ideologie mettono in rapporto il presente con il passato (la svolta che vide la loro affermazione), rispecchiano teoricamente nel pensiero i fattori acquisiti della vita sociale… e mobilitano energie sul fronte dei valori già riconosciuti».[15]
Ma l’incessante evoluzione storica concede agli uomini di concentrarsi su questo fronte solo fino al momento in cui qualunque vero progresso è precluso: a questo punto solo il rinnovarsi del pensiero dell’avvenire permette l’esercizio della responsabilità politica e fornisce agli uomini la base razionale della vita morale. Essi, di fronte a un crocevia, a un conflitto tra valori che si escludono a vicenda, si devono interrogare su «ciò che deve essere distrutto e ciò che deve essere creato… In tale situazione le ideologie coincidono con il pensiero che mette in relazione il presente con l’avvenire e mobilita energie sul fronte dove si trova l’ostacolo che deve essere tolto di mezzo»,[16] diventando «pensiero politico attivo».
 
Natura e critica dello Stato nazionale.
 
La crisi delle ideologie tradizionali, percepita in modo particolare in Europa dopo la seconda guerra mondiale e accentuatasi nel corso degli anni, è un campanello d’allarme che segnala la difficoltà da parte delle forze politiche che ad esse si richiamano di creare consenso attorno ai loro programmi, di reclutare energie nuove, ma soprattutto di dare risposte adeguate ai problemi e alle esigenze che emergono nella società. Identificare le radici di questa crisi implica mettere in discussione non tanto i contenuti di valore delle ideologie politiche, né l’adeguatezza o meno della classe politica, bensì puntare l’attenzione sul quadro politico all’interno del quale questa è costretta ad agire: il quadro nazionale.
Mettere in discussione il quadro nazionale è una necessità storica: l’aumento dell’interdipendenza dei rapporti umani ha ormai reso inadeguate le dimensioni degli Stati nazionali classici. Ma questo dato concreto, anche se riconosciuto, produce solo una sterile constatazione se non si prende coscienza del fatto che la condizione nazionale non è uno stato naturale, bensì è una situazione prodotta dagli uomini e che gli uomini possono modificare.
Solo a partire da questa presa di coscienza, cioè dal tradursi di una constatazione in un atteggiamento psicologico, è pensabile una battaglia, la battaglia per la Federazione europea, basata sulla pretesa di dichiarare illegittimo lo Stato nazionale e sul rifiuto del lealismo nei suoi confronti. Questa conversione psicologica non è facile, poiché implica il contrapporsi a un mito radicato nella storia recente, l’idea di nazione. Si tratta dunque di indagare il carattere proprio della nazione per smitizzarla e di dimostrare il legame ideologico fra lo Stato nazionale e la nazione.
È ciò che Albertini ha fatto nel 1958 con Lo Stato nazionale, uno scritto in cui, a partire dalla considerazione che non esiste nessuna seria elaborazione culturale su di esso, indica la necessità di analizzare il «comportamento nazionale» in quanto abito politico quotidiano al quale imputare, nel bene e nel male, la maggior parte delle scelte e dei comportamenti politici. «Di fronte ai disastri politici del nostro secolo, in Europa c’è stata una discussione accanita e a volta a volta, dalle diverse parti, i mali e gli errori sono stati imputati alla politica liberale, a quella socialista, a quella comunista, a quella fascista, a quella cristiano-sociale, a quella nazionalista. L’imputazione al “comportamento nazionale” non è stata quasi mai fatta. Eppure il semplice ricorso all’idea della ragion di Stato, in altri termini il tener presente che il carattere del potere politico dipende dal modo di acquistarlo e di mantenerlo, basterebbe per comprendere che le condotte liberale, comunista, fascista e così via si adattarono al potere politico nazionale, e prevalsero a seconda che avessero raggiunto fini nazionali e fornito stabilità e sicurezza alle compagini nazionali».[17]
In definitiva, ci si trova di fronte a quello che Albertini chiama il «paradosso del nazionalismo». Questo «comporta una dottrina della nazione, e certe condotte umane, ma i suoi principi, che sono i soli nel nostro tempo a legittimare il dovere di morire e di uccidere, ed in nome dei quali anche nel nostro secolo è stata effettivamente giustificata la morte violenta di molti milioni di individui, non sono stati mai definiti seriamente, e non consentono attualmente né di circoscrivere con precisione i gruppi di individui implicati, né di conoscere seriamente quale sia il legame che stringe gli individui quando sentono ed agiscono in modo “nazionale”, né di dare una giustificazione utile al valore “nazionale”, che ha preso purtuttavia il primo posto nella scala dei valori umani. Milioni e milioni di volte uomini sono morti cruentemente e sulle loro labbra c’era, o fu messa, la parola Francia, Germania, Italia e così via. Essa significava sempre qualche cosa di più del puro comando di un potere politico, però non sappiamo veramente che cosa significasse. Noi non sappiamo ancora con quale motivazione queste parole condannano gli uomini a far coincidere un atto di devozione suprema e di sacrificio totale con la negazione altrettanto totale dei valori umani implicati; in altri termini non sappiamo perché queste parole fanno del sacrificio della vita, del morire, un valore proprio quando questo sacrificio coincide con la negazione del valore della vita altrui, con l’uccidere».[18]
Dopo una lunga trattazione di carattere storico, sociologico e linguistico, Albertini giunge a definire la nazione come l’ideologia di un tipo di Stato, lo Stato burocratico accentrato nato con la rivoluzione francese, e il comportamento nazionale come un comportamento ideologico, mistificato. «Se si ammette che il carattere proprio della “nazione” non è la lingua, né il possesso di un territorio, né la tradizione, né la razza, come risulta dal fatto che questi elementi sono troppo vaghi (tradizioni), o retrospettivi (possesso del territorio), o incomprensibili (razza), o non sempre presenti (lingua) là dove esistono individui che sentono di appartenere ad una nazione; e se si ammette inoltre che la “nazione” in senso specifico è un fatto ideologico, si possono tirare delle conseguenze importanti.
Cominciando, si può stabilire un criterio per giudicare il grado di nazionalismo. Il sentimento nazionale… è il riflesso ideologico dei legami del cittadino con il proprio Stato nazionale. Di conseguenza il sentimento nazionale diventa tanto più forte ed esclusivo quanto più questi legami aumentano in estensione (numero dei cittadini effettivamente coinvolti) e profondità (quantità di attività umane collegate allo Stato)… Se le competenze dello Stato finiscono col coprire gli aspetti più importanti della vita sociale, e riguardano anche la scuola, la cultura, la religione e così via, il nazionalismo, proprio per l’estensione della sua scala di valori a tutte queste attività, finisce col diventare esclusivo, livellatore, totalitario, e trasforma davvero… il gruppo nazionale in un’orda».[19]
Dunque è arbitrario ed errato distinguere tra «sentimento nazionale, che equivarrebbe ad un bonario patriottismo disarmato, e nazionalismo, che sarebbe soltanto cieca volontà di potenza e di dominazione»,[20] e sostenere che il nazionalismo è la negazione del sentimento nazionale. In realtà «sono proprio le nazioni che sprigionano il nazionalismo. Quando una nazione esiste, e non è semplicemente un proposito o una speranza, ha esistenza come Stato. La sua condotta — vale a dire il comportamento della classe politica che lo governa — deve perciò sottostare alla legge della ragion di Stato che esclude mistiche fratellanze internazionali, stabilisce fra gli Stati la dura realtà dei rapporti di forza, e comporta pertanto il continuo tentativo di aumentare la propria e diminuire l’altrui potenza».[21] La prioritaria esigenza della sicurezza dello Stato, in definitiva, «converte l’ipotetico sentimento nazionale, come puro amore della propria nazione in un mondo di nazioni amiche, in nazionalismo».[22]
Se tutto questo è vero, e se il processo storico indica una direzione di marcia basata sull’aumento dell’interdipendenza che va al di là degli Stati nazionali, il compito di quegli uomini che avranno saputo liberarsi dalla mistificazione nazionale sarà quello di rifiutare le comunità nazionali esistenti per sostituirle con comunità pluralistiche, ossia federali, nelle quali soltanto possono essere superate la coincidenza fra Stato e nazione e le sue conseguenze.
 
Il federalismo.
 
Nonostante esistano ormai molte federazioni, «il federalismo è un’idea più nota che conosciuta»[23] per il fatto che esso è stato realizzato prima di essere stato pensato. «La Costituzione degli Usa non è stata pensata come il progetto di un nuovo tipo di Stato, ma solo come il compromesso tra due tendenze politiche apparentemente inconciliabili: quella che voleva lasciare tutta la sovranità a ciascuno dei tredici Stati americani… e quella che voleva trasferirla completamente all’Unione per impedire che si dissolvesse».[24] Solo Hamilton capì, nel momento della fondazione della Federazione americana, che lo Stato federale incarnava un nuovo mezzo di governo democratico, un mezzo capace di allargare l’orbita della sua azione da uno a più Stati.
In realtà, le basi per dare al pensiero sul federalismo autonomia teorica sono state poste in Europa, a partire dalla rivoluzione francese e dallo sviluppo del nazionalismo. Il ricorso ai valori ideali del federalismo, sotto forma di idee di unità e fratellanza fra i popoli, è servito infatti a dare una risposta, sia pure rimasta a livello utopico, alla contraddizione fra l’universalità dei valori del cristianesimo, del liberalismo, della democrazia, del socialismo e la fedeltà alla nazione, che divide e contrappone i popoli. Ed è con il ricorso ai criteri del federalismo che si può capire la crisi storica degli Stati europei fra le due guerre mondiali, così come la loro crisi politica dopo la seconda guerra mondiale.
Il grande contributo teorico che Albertini ha dato alla definizione del federalismo è stato innanzitutto quello di sgombrare il campo dall’oscurità di quelle teorie parziali — quella che identifica il federalismo con la teoria dello Stato federale (all’inizio condivisa da Albertini stesso) e quella, elaborata da Alexandre Marc, che fornisce una «visione globale della società di carattere metastorico» sulla base del pensiero di Proudhon[25] — che, non avendo stabilito un collegamento con dati di fatto reali, presentano un certo carattere di arbitrarietà. La sua concezione del federalismo si è andata continuamente approfondendo sino alla definizione secondo la quale esso è la coscienza teorico-pratica di un comportamento sociale indipendente.
Questa impostazione, vale a dire la definizione del federalismo fondata su comportamenti umani (operazione che può essere fatta anche in relazione alle altre grandi ideologie, il liberalismo, la democrazia e il socialismo) permette di uscire dall’indeterminatezza e di usare la teoria come criterio di conoscenza e di azione.
A tal fine Albertini ha elaborato uno schema conoscitivo basato su una tripartizione: «Per definire un comportamento sociale… bisogna dividerlo, dal punto di vista analitico… in tre aspetti: un aspetto di valore, cioè il fine al quale è diretto, che spiega il manifestarsi delle passioni e degli ideali degli uomini; un aspetto di struttura, cioè la forma definita che il comportamento assume per realizzare i suoi scopi; e un aspetto storico-sociale, cioè il complesso delle condizioni storiche e sociali nelle quali il comportamento si può diffondere e consolidare.[26]
Il riferimento essenziale per la definizione dell’aspetto di valore del federalismo, la pace, è Immanuel Kant. L’analisi kantiana dei termini «pace» e «guerra», con l’introduzione del concetto di «tregua», permette di superare una grave mistificazione presente nella coscienza degli uomini, che li porta a pensare alla pace come alla assenza di guerra. In realtà, ciò che viene comunemente definita situazione di pace, è una situazione di tregua, nella quale gli Stati continuano a fondare la loro condotta sulla violenza accumulando armi per garantire la propria sicurezza e instillando nei cittadini l’idea che devono essere sempre pronti a uccidere o a farsi uccidere per il bene della patria. Questa condotta dipende dal fatto che nelle relazioni internazionali mancano i meccanismi giuridici e i poteri che regolano in modo pacifico i contrasti tra gli individui all’interno di ogni comunità politica; manca cioè la condizione preliminare — la presenza dello Stato, lo Stato federale — grazie alla quale la falsa pace (la tregua) si tramuterebbe in una vera pace. Solo l’unità del genere umano in una Federazione mondiale potrà garantire la kantiana «pace perpetua».
Se lo Stato, che garantisce il superamento dei rapporti anarchici fra i membri della comunità internazionale, è il fondamento della pace, risultano allora errate le teorie secondo le quali la pace sarebbe una conseguenza dell’affermazione dei valori di libertà, o di democrazia, o di uguaglianza sociale, anche se esse contengono una parte di verità: «Se per realizzare la pace, infatti, è necessario un ordine legale, uno Stato esteso a tutto il genere umano, il diritto, e lo Stato che lo fa valere, non sono contestati, sono stabili, solo quando sono assicurate la libertà, la democrazia e la giustizia sociale. Queste non sono sufficienti per avere la pace, ma sono di fatto condizioni necessarie».[27]
Il significato della pace non può essere compiutamente compreso se non la si mette in relazione, oltre che con i grandi valori della vita sociale e politica, anche con la condizione umana in generale. Solo una volta che sia stato abolito il regno della guerra diventa pensabile che emergano e prevalgano nella condotta umana i comportamenti morali e razionali: «Tenuta presente la relazione stabilita da Kant tra il federalismo, la pace e l’autonomia della ragione e della volontà, si può ragionevolmente prevedere, nel contesto di uno sviluppo mondiale del federalismo, un mutamento della condizione umana tale da promuovere i comportamenti sociali diffusi necessari per la realizzazione universale della città umana, fondata sui rapporti di solidarietà e non di potere»,[28] sull’«etica della convinzione» piuttosto che sull’«etica della responsabilità». In altri termini, «nell’ambito dei gruppi nei quali l’altro è una persona che si conosce o che rientra direttamente nel raggio della propria azione», tutti saranno fini e nessuno sarà mezzo, e il senso di comunità diventerà «una componente normale dell’animo umano».[29]
Tale proiezione nel futuro non ha lo stesso carattere della previsione che la crescita in estensione dell’interdipendenza umana permetterà di superare la divisione dell’umanità in nazioni, previsione basata sul materialismo storico come strumento analitico di carattere sociologico. Prefigurare un futuro in cui il senso di comunità diventi una componente dell’animo umano implica applicarvi la filosofia della storia, della quale non si può fare a meno. «È vero, scriveva Albertini, che in questo modo non si raggiungono vere e proprie certezze. Ma per quanto ne sappiamo gli uomini non possono agire che in regime di rischio e di incertezza. Ciò non significa tuttavia che essi procedano nella più completa oscurità. Essi marciano verso traguardi ben definiti, anche se non hanno la certezza di raggiungerli, e la illustrazione di questi traguardi, la filosofia della storia, è l’unico mezzo per cogliere il senso del loro cammino…».[30]
L’aspetto di struttura del federalismo, lo Stato federale, ha un aggancio concreto con una realtà che è già presente nella storia, con le varie federazioni nate nel corso degli ultimi secoli. Ma è soprattutto la riflessione sulla nascita della Federazione americana, e in particolare sulle lucide analisi che Hamilton ha svolto nel Federalist, che aiuta a definire una teoria compiuta dello Stato federale. Esso nasce quando viene volontariamente creata una unione dotata della sovranità su di un’area pluristatale, mantenendo nel contempo una pluralità di centri di decisione. In quanto tale, la federazione è lo strumento adeguato per allargare l’orbita della statualità, fino a estenderla, in teoria, a tutta l’umanità, sostituendo i rapporti gerarchici e violenti fra gli Stati con rapporti democratici e pacifici.
La democrazia, oltre che ampliare la sua sfera, con la federazione si invera compiutamente. Se quella che è stata indicata come una delle caratteristiche fondamentali della democrazia, la divisione dei poteri, tende a rimanere una divisione puramente formale all’interno degli Stati unitari, e — come è dimostrato dall’esperienza degli Stati europei — si può facilmente manifestare una prevaricazione del potere esecutivo sulla volontà del parlamento e sul potere giudiziario, in una federazione acquista la sua piena efficacia diventando divisione sostanziale fondata territorialmente.[31]
Andando al di là del duplice lealismo tipico delle attuali federazioni (negli Stati Uniti d’America, ad esempio, ciascun individuo è cittadino tanto degli States quanto del proprio Stato), Albertini ha identificato nella peculiarità della situazione europea — caratterizzata da una complessa articolazione territoriale dovuta a una molteplicità di tradizioni regionali e locali — la possibilità di affermazione di un nuovo modello di Stato federale e di vita democratica. Con la creazione di più livelli di governo indipendenti e coordinati, dal quartiere e dalla città fino alla Federazione europea (al limite, dal quartiere al mondo), si porrebbero le basi per vere decisioni democratiche, che non possono prescindere dalla conoscenza dei problemi su cui deliberare, proprio a partire dal livello più vicino ai cittadini, quello della propria comunità, in cui diventa pensabile la coincidenza tra volontà generale e governo (autogoverno).[32]
Una comunità statuale di carattere federale (veniamo così all’aspetto storico-sociale) «può manifestarsi e mantenersi solo in una società molto articolata territorialmente, e contrassegnata da una bipolarità (al limite multipolarità) dei comportamenti politici diffusi sufficiente per generare nell’animo di ogni cittadino la divisione equilibrata del lealismo tra l’Unione e gli Stati».[33] Ciò implica che il senso di appartenenza dei cittadini alla comunità statuale di origine sia abbastanza forte da indurli a non rinunciarvi completamente e che, nello stesso tempo, si sentano legati ai cittadini degli altri Stati da un destino comune che li spinge a rinunciare alla cittadinanza esclusiva dello Stato di appartenenza per entrare a far parte di una comunità più ampia.
Ci sono tuttavia ostacoli allo sviluppo e alla persistenza di questo duplice lealismo, analizzando i quali si approfondiscono i problemi legati al quadro storico-sociale che rende pensabile la federazione. Uno degli ostacoli è la lotta tra classi antagonistiche, che, sostituendo la divisione territoriale (e quindi il lealismo che si crea su questa base) con la divisione sociale, crea una contrapposizione tra i membri della stessa comunità e un lealismo trasversale tra le classi al di là dei singoli Stati. A questi verrebbe così a mancare la base sociale che ne garantisce il potere, indebolendoli rispetto al potere centrale.
Ma l’ostacolo maggiore alla creazione e al mantenimento del bipolarismo sociale a base territoriale è il riflesso interno dei rapporti internazionali. Il continuo pericolo di guerra e la necessità di apprestare un forte apparato militare, che fa inevitabilmente capo al governo federale, da una parte produce accentramento, e dall’altra produce uno squilibrio del lealismo dei cittadini, che si attenua nei confronti degli Stati membri disarmati e si concentra sul potere centrale.
Ciò spiega il declino progressivo del federalismo americano dopo il coinvolgimento degli Usa nella politica mondiale e dimostra come il federalismo potrà manifestarsi nella sua forma piena e definitiva solo quando si affermerà a livello globale.
Se il federalismo, così inquadrato, permette di prefigurare il futuro dell’umanità come un futuro di pace e solidarietà, nello stesso tempo le sue categorie consentono di ribaltare la visione dominante della politica internazionale nella fase della transizione dal mondo della divisione e della guerra a quello dell’unione e della pace. Si tratta di una visione conservatrice, basata sull’idea che gli Stati nazionali rappresentano un dato permanente della storia. In questa prospettiva si può pensare la politica internazionale solo in termini di ragion di Stato, «cioè in termini di convergenza in un equilibrio delle varie ragion di Stato. Il che comporta pensare come possibile questo equilibrio, farsi reggere al fine della individuazione e della realizzazione di questo equilibrio e dello stare efficacemente in esso. Cioè pensare un assurdo, un fantasma, un idolo baconiano. Coloro che pensano in tal modo… non dirigono più il processo politico, perché non lo conoscono; ma si fanno dirigere da un moto incomposto e irrazionale».[34]
Non è possibile instaurare rapporti «razionali» fra Stati sovrani, anche se si possono identificare in precise aree geografiche e in certe fasi storiche lunghi periodi caratterizzati da un grado ragionevole di equilibrio. Nella vita del sistema europeo degli Stati, per esempio, l’applicazione del principio dell’equilibrio di potenza, pur non avendo impedito la guerra, ha permesso «una evoluzione positiva della realtà politica, nella quale poté entrare una componente razionale (i classici ministri della ragion di Stato svolsero un capitolo della storia della ragione)».[35] «La ragion di Stato, spiega Albertini, quando sia distinta dalla cieca volontà di potenza, ha avuto certamente il carattere di una applicazione della ragione alla sfera della politica, nel senso che ha identificato un campo della conoscenza — quello dei rapporti di forza tra gli Stati… — ed ha assunto la fredda valutazione di questi rapporti di forza come criterio supremo della condotta politica, controllando così, entro certi limiti, per un verso proprio la cieca volontà di potenza, e per l’altro l’arbitrio, la condotta casuale».[36] Ma la presenza della ragione, che può attenuare i conflitti, è cosa ben diversa dalla sua affermazione, che potrà avvenire solo quando la ragion di Stato non condizionerà più i rapporti internazionali, ossia quando questi rapporti saranno diventati pienamente giuridici, basati su un potere federale mondiale.
 
Il significato storico del processo di unificazione europea.
 
Il federalismo può diventare «cultura politica» in senso proprio nel momento in cui non è solo una teoria, una riflessione su un tornante della storia, ma è anche qualcosa «di storicamente realizzato come fatto pratico; e tale da diventare un punto di riferimento per tutti… La cultura politica è di fatto riferita ai criteri di comportamento che compaiono con i grandi episodi storici. Questi criteri diventano modelli di comportamento che si pongono in confronto, sino al contrasto, proprio con i criteri di comportamento sociali abituali… e assumono così il significato di principi morali e ideali di portata storica, di gradi di sviluppo della libertà, dell’emancipazione umana ecc.».[37]
È un dato di fatto che le vicende nordamericane che hanno fatto seguito alla guerra d’indipendenza hanno portato all’«invenzione» e alla realizzazione concreta del federalismo come meccanismo di unificazione democratica di più Stati. Tuttavia il significato di questa invenzione è rimasto legato al problema del buongoverno e a quello del destino del popolo americano.[38] La nascita della Federazione americana, cioè, non ha di per sé dato vita a una nuova cultura politica. Se in nome delle grandi rivoluzioni liberal-democratica e socialista si sono mobilitati uomini e popoli di tutto il mondo nel corso degli ultimi due secoli, lo stesso non è avvenuto per la rivoluzione americana, la quale non è stata percepita come il superamento di uno stadio dell’evoluzione storica. La Federazione americana «si è formata in quella che era ancora una via marginale della storia, al riparo dai grandi conflitti fra gli Stati e fra le classi. Ed essa ha negato… tredici piccoli Stati senza storia statale e nazionale».[39]
In realtà, sino a che non si giunga alla nascita di uno Stato federale su un’area costituita da un gruppo di Stati nazionali consolidati, continueranno a prevalere il modo e la visione tradizionali secondo i quali si svolge la vita politica, che, nel suo normale sviluppo, si presenta come evoluzione degli Stati o dei rapporti fra gli Stati, ma non come un processo che porti alla fusione di più Stati. La sostituzione degli ordini giuridici di Stati nazionali consolidati con un ordinamento pluralistico, quello federale — una rottura nella continuità giuridica, ossia una «rivoluzione» —, determina una nuova distribuzione del potere. Ed è proprio questa nuova distribuzione del potere che permette l’emergere di nuovi criteri di comportamento sociale che una volta immessi nella storia ne condizionano il cammino.
La Federazione europea, se nascerà, rappresenterà la negazione delle grandi nazioni storiche. «Queste nazioni hanno reso tipica l’idea di nazione come divisione organica del genere umano; sono l’espressione laica, storicamente concreta, della cultura della divisione politica del genere umano. La loro negazione equivarrà dunque alla negazione della cultura della divisione politica del genere umano…
La cultura nazionale…. è la cultura che ha legittimato nei fatti, mistificando il liberalismo, la democrazia e il socialismo… il dovere di uccidere. La cultura della negazione della divisione politica del genere umano è la negazione storica di questo dovere; è l’affermazione, nella sfera del pensiero, del diritto politico, e non solo spirituale, di non uccidere, e perciò il quadro storico della lotta per affermarlo anche in pratica, al di là della Federazione europea, con la Federazione mondiale.
Questa interpretazione del significato storico-culturale della Federazione europea potrà sembrare… troppo ambiziosa, troppo arbitraria. Ma la storia degli uomini, nel suo farsi che non è il suo semplice ripetersi, è ambiziosa a giusta ragione perché il distacco tra ciò che è, e ciò che deve essere, è enorme. D’altra parte, c’è qualcosa di non arbitrario in questa interpretazione, e precisamente il fatto che non si tratta di una escogitazione solitaria, ma del significato che sono andate assumendo le motivazioni della lotta dei federalisti».[40]
La riflessione sul significato storico ultimo del problema dell’unità europea assume così una grande rilevanza teorico-pratica: teorica perché è una riflessione sui fini ultimi di un processo di portata storica; pratica perché riguarda l’azione umana che influenza, o che è necessaria per influenzare questo processo, tuttora aperto e tuttora incerto, a conferma delle difficoltà che si incontrano quando si vogliono introdurre «ordini nuovi».
 
La strategia della lotta per l’unificazione europea.
 
«Tutto ciò che si fa spontaneamente per l’unità europea è utile, e tutti possono contribuire nei modi più diversi, sia nello stesso campo della propria attività personale che in ogni altro campo di attività sociale… Ma la questione decisiva è quella della strategia».[41] Se infatti la linea teorica consiste nell’identificare la fase storica che stiamo vivendo attraverso le categorie del federalismo, e quindi la direzione di marcia della storia, se la linea politica consiste nel segnalare quegli ingorghi entro i quali rimangono intrappolati problemi, esigenze e pretese che non trovano risposte adeguate negli strumenti della politica normale e in un certo assetto istituzionale, la linea strategica identifica i mezzi e il modo in cui ci si può confrontare col potere nazionale da superare per creare il nuovo potere sovranazionale.
A questo proposito sono necessarie alcune considerazioni preliminari, la prima delle quali, di carattere molto generale, riguarda il rapporto tra la possibilità di impostare una strategia e il mutamento sociale: in Europa «si potrà davvero distruggere le istituzioni dell’accentramento e della chiusura, e fondare quelle dell’apertura e del federalismo… solo se la condotta degli europei sta acquistando davvero, in qualche misura, nei più importanti settori della vita sociale, questi caratteri».[42] Si tratta cioè di tener conto, nell’ambito del discorso strategico, di quello che Albertini ha definito la base storico-sociale del federalismo, non tanto per ricavarne precise indicazioni strategiche, quanto per fondare la pensabilità di una strategia, considerando che «ogni comportamento umano che dà luogo a una certa organizzazione dei rapporti politici non può manifestarsi senza che ci sia nella società e in una certa fase storica una base che permetta la sua diffusione e il suo consolidamento».[43]
La seconda osservazione è che non è possibile condurre una battaglia politica senza conoscerne la natura, e in particolare senza conoscere la natura dell’obiettivo. Nel caso dell’unità europea si tratta di rispondere alla domanda se essa è un obiettivo rivoluzionario o un obiettivo normale, per individuare l’operazione da condurre, i mezzi da impiegare e il ruolo dei protagonisti. La natura della decisione di fondare la Federazione europea è tale che non si può assimilarla alle normali decisioni politiche: «…si tratta della decisione più grave che si possa prendere nel dominio dell’attività politica, in quanto essa comporta la fondazione di uno Stato nuovo su un’area nuova, ossia la scelta del destino degli abitanti di parecchi Stati per molte generazioni».[44] È una scelta radicale, in cui è in gioco la sovranità e in cui è messa in discussione la formula politica, ossia la struttura che regola la lotta per il potere.[45] Insomma, la natura della decisione, e quindi della battaglia, è rivoluzionaria, e ciò non può non avere conseguenze sulla strategia.
Tale carattere della battaglia — ed è la terza osservazione — induce ad escludere dal discorso strategico il problema del contenuto politico dell’Europa inteso come scelta tra Europa liberale, socialista, ecc. Battersi per l’unità dell’Europa significa battersi per creare uno Stato (ossia per certe istituzioni, non per questa o quella politica) che, in quanto tale, dovrà lasciare piena libertà d’azione a tutte le correnti politiche senza identificarsi con nessuna di esse: cioè, dovrà essere solo democratico. «Il fatto che la federazione, essendo uno Stato, deve essere aperta a tutte le correnti politiche non implica tuttavia che essa non escluda certi esiti politico-sociali e non ne favorisca altri. È un fatto che la soluzione dei grandi problemi politico-sociali non dipende soltanto dal tipo di governo ma anche, e soprattutto, dal tipo di Stato, anche se di solito non ci se ne accorge perché il problema del mutamento della forma e delle dimensioni dello Stato ha carattere eccezionale ed emerge solo in occasione di grandi modificazioni storiche».[46] Queste considerazioni hanno un risvolto strategico importante anche in relazione alle forze da mobilitare: un compito costituente deve coinvolgere tutto il popolo e tutte le forze politiche (senza distinzione tra destra e sinistra), e l’unica divisione che deve emergere è quella tra il campo di interesse nazionale e quello sovranazionale.
La quarta considerazione preliminare riguarda il significato dei termini unità e divisione in un processo di unificazione di Stati, poiché solo se ciò è chiaro si identifica l’obiettivo finale da perseguire e si può quindi impostare una strategia, misurandone poi il successo o il fallimento. «A questo scopo basta ricordare una verità tanto banale quanto generalmente misconosciuta: per quanto riguarda l’essenziale, il supremo potere di decisione, c’è divisione sino al livello confederale. Sino al livello confederale gli Stati mantengono la sovranità assoluta, cioè non riconoscono un superiore centro di decisioni politiche, e perciò dividono le popolazioni sottoposte. Istituzionalmente c’è unità solo quando si raggiunge il livello federale, cioè quando si possono prendere in modo autonomo decisioni che valgano per tutti. In ogni altro caso, vale a dire in tutte le associazioni di Stati nelle quali manca il potere dell’associazione in quanto tale, c’è divisione. La distinzione tra unità e divisione non sta dunque nell’assenza o nella presenza di una associazione qualunque, ma nel carattere federale o non federale dell’associazione. Gli Stati, non potendo vivere isolati, presentano quasi sempre fenomeni di associazione, ma tali fenomeni non impediscono profonde divisioni e grandi contrasti», tranne che nel caso del passaggio della sovranità dagli Stati a una federazione.[47] Solo misurandosi con il problema della sovranità la strategia della lotta per l’Europa starà sul versante dell’unità.
La quinta considerazione sgombra il campo dalla concezione funzionalista, secondo la quale la decisione di fondare la Federazione europea sarà l’esito spontaneo dei progressivi passi avanti dell’integrazione.[48] Al contrario, l’ultimo passo non ha nulla di spontaneo, ma è il risultato della volontà politica di creare un nuovo potere distinto dai poteri nazionali. Sotto questo profilo, «la decisione di fondare la Federazione europea comporta il trasferimento della politica estera e militare, e di parte della politica economica e sociale, dagli Stati nazionali a uno Stato federale». E «questa decisione non può essere graduale… Per trasferire queste materie, bisogna trasferire anche la “sovranità” in questione…; ma la “sovranità”… non si può trasferire gradualmente ma solo di colpo».[49]
L’ultima considerazione riguarda le condizioni sulla base delle quali è pensabile la decisione di fondare la Federazione europea. È evidente che, senza la crisi storica degli Stati nazionali europei (l’eclissi della loro sovranità), che risale alla prima guerra mondiale ed è giunta alle estreme conseguenze con il crollo del sistema europeo degli Stati dopo la seconda guerra mondiale, «non ci sarebbero stati né i tentativi di unità europea dopo la prima guerra mondiale, né il processo di integrazione del secondo dopoguerra».[50] Tuttavia la crisi storica è una condizione necessaria ma non sufficiente per portare a compimento il processo di unificazione. Fino a che la situazione di potere esistente rende possibile una gestione, sia pure provvisoria e insufficiente, dei problemi comuni in uno spazio di interdipendenza, prevale quella che Albertini ha definito «convergenza delle ragion di Stato», che dà vita alla collaborazione, ma mantiene lo status quo. Solo la presenza di una grave crisi del potere nazionale, ossia l’impossibilità di dare risposte ai problemi del benessere e della sicurezza dei cittadini, è la condizione che mette in gioco drammaticamente un quadro di potere ormai inadeguato. Se la crisi non è sul tappeto, non è percepibile o percepita né dall’opinione pubblica né dai governi perché gli strumenti della collaborazione che sono stati attivati temporaneamente funzionano, la rinuncia al potere nazionale, alla sovranità, non è all’ordine del giorno.
Tutto ciò ha evidenti implicazioni strategiche, sulla base della considerazione che «l’occasione strategica si accerta e non si sceglie»[51] e che al di fuori di uno spazio politico realistico non è pensabile la mobilitazione e l’impiego delle forze per dare battaglia e lanciare la sfida finale.
A partire da queste premesse, lo scopo della strategia dei federalisti è quello di forzare i poteri nazionali a compiere il salto decisivo della rinuncia alla sovranità assoluta in quei campi (la politica estera e militare, e la politica economica e fiscale) che costituiscono il fulcro della statualità.
Il Movimento federalista europeo ha sperimentato sostanzialmente due tipi di strategia legati alle possibilità offerte dalle fasi del processo di unificazione europea. Nelle Tesi presentate al XIV Congresso nazionale del MFE, tenutosi a Roma nel 1989, Albertini li analizza attraverso alcune riflessioni su Altiero Spinelli e Jean Monnet. Dopo aver preso in considerazione la situazione dell’Europa all’indomani della seconda guerra mondiale, Albertini indica due modi in cui poteva essere colmato il vuoto di potere che si era creato: «con un governo europeo di carattere federale, o con un processo verso questo sbocco federale come mezzo concreto per far convergere la politica degli Stati… La prima soluzione, quella per la quale si è battuto Altiero Spinelli, pone la federazione all’inizio, nel senso che la concepisce come il traguardo di una lotta di carattere costituzionale, e non come l’esito di un processo graduale di costruzione dell’Europa… La seconda soluzione… è quella perseguita da Jean Monnet. Per disporre di una terminologia con la quale designarle, si può parlare di un federalismo debole di Monnet, nei confronti di un federalismo forte di Spinelli. L’espressione si giustifica osservando che la strategia di Monnet, nella misura in cui colloca il potere federale alla fine di un processo graduale, e non prevede un governo europeo come motore di questo processo, può essere condotta solo con un meccanismo intergovernativo (come quello effettivamente creato da Monnet, la Comunità)…
Il vantaggio della strategia di Monnet è che può impegnare le forze attive delle nazioni senza porre la pregiudiziale costituzionale. Resta così pienamente sfruttata la politica europea degli Stati nella sua espressione normale, cioè quando gli obiettivi europei sul tappeto non richiedono un trasferimento di poteri sovrani… Lo svantaggio di questa strategia sta nel fatto… che è una strategia per tenere l’unità europea sul campo, ma non per portarla a compimento. In effetti è nulla… quando gli obiettivi europei sono tali da richiedere un trasferimento di poteri sovrani all’Europa.
Basta rovesciare questa analisi per stabilire quali siano i vantaggi e gli svantaggi della strategia di Spinelli. I vantaggi derivano dal fatto che con il potere federale all’inizio sarebbe stata la democrazia europea a determinare modi, forme e tempi dell’unificazione europea. Lo svantaggio sta nella estrema difficoltà di convocare una Costituente all’inizio del processo, con i partiti ancora strettamente legati ai poteri nazionali. Va in ogni modo ricordata una considerazione decisiva. Quando gli obiettivi europei non sono perseguibili senza un trasferimento di poteri sovrani, e quindi si tratta dei casi nei quali si può vincere la battaglia per l’Europa, la sola strategia valida è quella di Spinelli».[52] Nella strategia di Spinelli obiettivo strategico e obiettivo politico (la Federazione europea) coincidono; nella strategia che si richiama a Monnet l’obiettivo strategico è un espediente in vista del raggiungimento dell’obiettivo politico.
La strategia costituente — che pone l’obiettivo della federazione come obiettivo diretto, sulla base della considerazione che il potere non si può trasferire dalle nazioni all’Europa per gradi — mira al riconoscimento del potere costituente del popolo europeo rivendicando una Assemblea costituente. Essa ha caratterizzato le battaglie dei federalisti dalla fine degli anni ‘40 alla metà circa degli anni ‘60, battaglie che all’inizio miravano a sfruttare il clima postbellico, ossia l’estrema debolezza degli Stati europei, e che in seguito, nella radicalità che sono andate assumendo attraverso la contestazione degli Stati nazionali definiti «illegittimi», sono state la reazione alla bruciante sconfitta della CED e alla successiva politica europea dei governi che avallava la teoria funzionalista. Il successo di questa politica in termini di sviluppo economico dopo la creazione del Mercato comune, grazie al quale gli Stati avevano riacquistato in apparenza un certo grado di stabilità, portarono Albertini a ripensare la linea strategica: il gradualismo costituzionale ha rappresentato la svolta degli ultimi anni del periodo transitorio del Mercato comune (fine anni ‘60) ed ha accompagnato il lungo percorso che ha avuto come sbocco la moneta europea.
La nuova linea strategica prendeva lo spunto da un passo del Memorandum del 28 aprile 1950 nel quale Jean Monnet illustrava la natura del disegno strategico della CECA. Dopo aver constatato che in ogni settore del fronte politico, non si incontravano che delle impasse, Monnet proseguiva: «Da una situazione simile si può uscire in un solo modo: con una azione concreta e risoluta su un punto limitato, ma decisivo, che provochi un cambiamento fondamentale su questo punto e modifichi progressivamente i termini stessi dell’insieme dei problemi». Da questa affermazione Albertini trasse l’indicazione strategica della necessità di operazioni graduali come espedienti che potessero spingere la classe politica, se la situazione presentava qualche punto scivoloso, su un piano inclinato che portasse dalle nazioni all’Europa, sulla base dell’esame dei problemi che rendessero «possibile la decisione relativa al trasferimento del potere: in sostanza problemi di “borsa” e di “spada”».[53] Il concetto di piano inclinato, spiegava Albertini, è «un paradigma che si usa sia per molti fatti storici, nella loro individuale irripetibilità, come per molti fatti della vita comune: il paradigma… del piede in fallo. Se metto un piede in fallo la conclusione viene da sé, che io lo voglia o no. È una cosa che può capitare a tutti, che si verifica spesso a livello storico, e che non dipende da alcun determinismo generale. L’idea del piede in fallo implica solo che certe conclusioni, che costituiscono un risultato, sono già acquisite a un punto nel quale non si pensava, non si voleva affatto, o non si voleva ancora, il risultato».[54]
Quando si innesca questo meccanismo, l’azione dei leader nazionali tende ad andare al di là dei limiti confederali, e diventa, consapevolmente o no, azione europea. «È un caso ricorrente che si verifica quando le soluzioni nazionali risultano impossibili. In questi casi i leader nazionali agiscono come leader europei… Il fatto è ampiamente noto, ma la sua natura non può essere pienamente compresa fino a che non si ammette che in questi casi si attiva una vera e propria leadership europea di carattere occasionale. Si tratta naturalmente di una leadership che si manifesta in un contesto definito e non dalle istituzioni, ma da una situazione di fatto (grandi paure, grandi problemi, forza nell’unità, debolezza nella divisione), e che funziona come un mezzo traente nei confronti della classe politica nella sua generalità (che può così agire in modo europeo pur restando nei campi della lotta nazionale)».[55]
La leadership europea occasionale, così definita, può essere dunque considerata la risposta al problema se esiste il potere di fare l’Europa. Considerando questo potere staticamente, si può affermare che esso non esiste in quanto, in un processo di unificazione di Stati, questi mantengono la sovranità fino a che non sia stata portata a compimento l’unificazione, e, per portarla a compimento, sarebbe necessaria una difficile decisione simultanea da parte di tutti. Con la leadership occasionale, tuttavia, il potere di fare l’Europa può incominciare a manifestarsi, almeno potenzialmente, se l’iniziativa di uno o più governi riesce ad ottenere il consenso degli altri. Il concetto di leadership occasionale è dunque l’elemento dinamico che, in una situazione di potere tendenzialmente cristallizzata (Stati sovrani divisi) può dar vita ad un processo che spinge i detentori dei vecchi poteri verso la decisione di creare il nuovo potere sovranazionale. Nel momento della decisione scompaiono dall’orizzonte tutte quelle soluzioni unitarie compatibili con il mantenimento della sovranità e si può manifestare in tutta la sua forza la volontà costituente.[56]
Identificare il ruolo dei governi e il meccanismo che può mettere in moto la loro volontà di compiere il salto federale non significa però né che questo ruolo venga effettivamente esercitato, né che basti, perché sia esercitato, l’obiettiva necessità di unione. Facendo un parallelo con l’unificazione italiana, Albertini scriveva: «Si trattava di un problema semplice e terribile… Semplice, perché era semplice capire che l’Italia era divisa dagli Stati regionali, e che poteva unirla solo uno Stato italiano. Terribile, perché era terribile per la classe dirigente capire una politica — la politica dell’unità d’Italia — che comportava la messa in pericolo, la riduzione o addirittura la distruzione delle proprie posizioni di potere. I moderati seppero — dopo lunghe esitazioni — fare questa politica. Ma furono indubbiamente aiutati dalla frusta mazziniana, dall’azione di una piccola classe rivoluzionaria che si basava più sulle forze morali e culturali che su una situazione di potere. Qualche cosa di simile vale per l’unità europea. Essa è frenata dal fatto che l’ostacolo sta proprio dove dovrebbe esserci il motore: nell’ambito della classe politica. Il problema sarà quindi risolto solo se i federalisti sapranno maneggiare… la frusta federalista».[57]
Strategicamente, i federalisti hanno due compiti fondamentali: l’uno è un compito di iniziativa nei confronti dei governi e delle forze politiche al fine o di indicare obiettivi strategici intermedi che emergono dalle situazioni di fatto, o di perseguire l’obiettivo dello Stato europeo quando la manifesta precarietà della situazione di potere, che può sfociare in una grave crisi, rende pensabile e possibile il manifestarsi del massimo di responsabilità storica e politica da parte dei detentori del potere nazionale. L’altro compito è quello di coagulare attorno all’obiettivo strategico o attorno all’obiettivo politico i cittadini, che Albertini definisce «popolo europeo in formazione», per dare voce al consenso verso l’unità esercitando il ruolo di guida.[58] In ogni fase strategica si tratta dunque di impostare un’azione efficace ed autonoma che metta in moto i comportamenti effettivi degli uomini.
A tal fine vanno inquadrati politicamente l’europeismo organizzato (i Movimenti), l’europeismo organizzabile, cioè «il riflesso dell’eclissi delle sovranità nazionali sui cittadini più consapevoli», e l’europeismo diffuso, «cioè il riflesso dell’unità europea di fatto su tutti gli individui», per creare una «bilancia tra la politica confederale dei governi e l’obiettivo federale degli europei organizzati, tra i miti dell’integrazione e l’idea degli Stati Uniti d’Europa, tra la deformazione nazionalista… della realtà e la presa di coscienza dell’opposizione federalismo-nazionalismo».[59]
Se infatti il nuovo Stato europeo prenderà corpo solo se i governi rinunceranno irrevocabilmente alla loro sovranità attraverso un Patto di unione, questo passo deve essere promosso e sancito attraverso la manifestazione della volontà del popolo sovrano, ossia attraverso la negazione del consenso esclusivo ai poteri nazionali e l’espressione del consenso alla nascita del nuovo potere europeo.
Porre l’accento sul popolo non significa attribuire ad esso la capacità e il ruolo di un Movimento politico organizzato, pienamente consapevole della natura della lotta politica necessaria per raggiungere l’obiettivo federale, e libero dai condizionamenti del quadro di potere nazionale. Significa invece essere consapevoli che il trasferimento della sovranità non è un fatto puramente istituzionale e che questa costruzione istituzionale «prende vita e senso da un atto di volontà che ha il suo soggetto ultimo nel popolo e che ha come contenuto un modo diverso di stare insieme».[60] Chi afferma che la Federazione europea è un progetto irrealizzabile perché non esiste un popolo europeo, un demos europeo, come condizione della nascita dello Stato europeo, in realtà non tiene conto della considerazione che «un nuovo popolo nasce nel momento in cui prende coscienza della necessità della nascita di un nuovo Stato, e che un nuovo Stato nasce per il solo fatto di questa presa di coscienza».[61] Il concetto di popolo europeo in formazione, riflesso del lungo processo di integrazione, che diventerà «popolo europeo» in senso proprio con la creazione dello Stato europeo, permette di visualizzare la possibilità, se le circostanze lo consentiranno, che si formi la volontà comune di creare lo Stato europeo: «popolo europeo e Stato europeo nasceranno quindi insieme».[62]
 
L’organizzazione e i militanti.
 
Per un Movimento politico l’identificazione di una strategia adeguata è la premessa indispensabile per un’azione efficace, ma altrettanto adeguati devono essere i soggetti che la conducono e la loro organizzazione. Per questo i problemi organizzativi e la formazione dei militanti sono stati al centro delle preoccupazioni di Albertini fin dai primi momenti della sua militanza federalista.[63]
Tuttavia egli dedicò il massimo dell’impegno su questo fronte solo dopo la caduta della CED. Prima di questa sconfitta il Movimento federalista europeo aveva caratteristiche del tutto diverse da quelle che è andato assumendo nel periodo successivo. I suoi iscritti erano decine di migliaia e la maggior parte di essi apparteneva a partiti politici nazionali. Esso era il riflesso della grande tensione europeistica che ha dominato la classe politica del dopoguerra (alimentata anche dalle posizioni americane a favore degli Stati Uniti d’Europa), tensione che ha permesso al MFE di diventare un punto di riferimento per i partiti e un «suggeritore» ascoltato dei governanti.
Dopo questa fase e, come vedremo, l’impostazione di una nuova strategia (il Congresso del popolo europeo) era necessario ripensare l’organizzazione. La radicale opposizione allo Stato nazionale che ha accompagnato questa strategia allontanava necessariamente dal MFE la grande massa dei notabili e della classe politica, nella quale l’europeismo era strettamente condizionato dal quadro di potere nazionale. Il Movimento andava dunque, per così dire, ricostruito su nuove basi attraverso il reclutamento di nuove forze fortemente motivate e la formazione di quadri autonomi nel pensiero e nell’azione.[64]
«Fare l’Europa è difficile… Tentare di farla significa porsi, con coraggio e con modestia, al crocevia di tutte le crisi politiche ed economiche degli ultimi quarant’anni di vita politica ed economica dell’Europa. L’Europa è una alternativa alla crisi ideologica del comunismo, alla passività del socialismo, alla stagnazione della vita politica nazionale. Militante è chi sente questa vocazione, e la nobiltà del suo compito per il quale egli, pioniere di una piccola organizzazione, deve sentirsi una alternativa a tutto quanto oggi occupa la scena. Perché un federalista o è così o non è nulla». E in quanto tale egli deve saper imporsi nel proprio ambiente, «conquistarsi un pezzo piccolo, ma effettivo, di potere», facendo «coincidere la nascita di una organizzazione con la nascita di autentiche leadership locali».[65] E qualche anno dopo ribadiva e ampliava questi concetti, precisando che «non si può riprendere con una direzione basata su un leader che trova la strada e seguaci che la percorrono. Un capo di questo genere è necessario solo quando il potere è in vista, non certo quando è lontano, quando si tratta di far nascere una forza e servono compagni, non dei seguaci. Per creare una forza bisogna suscitare energie morali e intellettuali. Occorrono persone autonome in grado di fare da sé, di fare cose nuove… Ciò di cui abbiamo bisogno è una direzione che sia l’esperienza collettiva di tutti questi contributi autonomi».[66]
La premessa per la formazione di questi quadri autonomi era la capacità di sradicare dal proprio inconscio la coscienza nazionale, il punto di vista nazionale alimentato dai continui stimoli del quadro politico-sociale esistente: «I militanti si formano nella lotta, non in cenacoli di studio. Tuttavia non si nasce militanti, e non si è buoni militanti, senza un carattere politico ben definito», che si può acquisire attraverso lo studio e la discussione. «Può sembrare strano che per compiere una impresa politica si debba mettere in piedi, dentro una organizzazione di lotta, una organizzazione di studio che avrà regole e strutture più simili a quelle delle scuole di pensiero che a quelle delle associazioni politiche. Eppure in tutte le imprese rivoluzionarie qualcosa di questo genere è sempre esistito, perché il compito più difficile del rivoluzionario è proprio quello di usare bene la ragione per dirigere la lotta verso un obiettivo nuovo in un mondo dove le abitudini, i pensieri fatti, i luoghi comuni indirizzano gli uomini verso i vecchi obiettivi».[67] E così l’avanguardia federalista diventa «la coscienza teorico-pratica del carattere europeo dell’alternativa politica di fondo. Come coscienza specificamente teorica, essa si fonda sulla teoria del federalismo e sulla demistificazione della nazione… Come coscienza specificamente pratica, l’avanguardia federalista implica l’opposizione di comunità, che si distingue dalle comuni opposizioni di governo o regime per il fatto che, invece di rifiutare questo o quel governo o regime, rifiuta la comunità nazionale come comunità politica esclusiva. Solo a questo punto la scelta per la Federazione europea abbandona il limbo delle buone intenzioni per diventare una volontà concreta, un vero e proprio atteggiamento politico, ossia un rapporto quotidiano col potere».[68]
L’autonomia intellettuale dei singoli, e l’autonomia dell’organizzazione, possono tuttavia essere garantite solo se ci si sgancia anche concretamente dalla logica del sistema. «Il rivoluzionario… non può e non deve avere un ruolo nel sistema. Stare all’interno del sistema significa accettarne la logica, cioè non mettere in questione i fondamenti, svolgere più o meno correttamente le mansioni che sono connesse al proprio ruolo, cercare il consenso di coloro che hanno una posizione politica e sociale elevata, dire ciò che costoro desiderano sentirsi dire… rinunziando alla prerogativa di dire la verità».[69] «C’è la garanzia di una posizione dove l’interesse coincide col dovere (Hamilton)… Chi ha posizioni precostituite dipendenti dall’attuale equilibrio politico ed economico… ha l’interesse contro il dovere»:[70] solo una «devozione esclusiva» sta alla base delle grandi imprese.[71]
E per chiudere il cerchio non si può prescindere dall’aspetto materiale che può condizionare l’autonomia di una organizzazione: il suo rapporto con uno degli strumenti più efficaci per corrompere individui e gruppi, il denaro. L’autofinanziamento da parte dei militanti è un principio irrinunciabile nella definizione dei termini reali di una vera autonomia, che per essere tale deve essere morale, intellettuale, politica e finanziaria.
Evidentemente un’organizzazione non può essere fatta di soli militanti in senso stretto; tuttavia solo se nel MFE c’è un gruppo preparato, un nucleo duro con una devozione esclusiva, è possibile affrontare il compito della fondazione di un nuovo Stato. Questo compito non può prescindere dall’entrata in campo dei governi e dei cittadini, ma gli uni e gli altri sono condizionati dal quadro nazionale e, nei loro confronti, è necessario il costante lavoro del militante, in grado di esercitare con determinazione «l’arte del pilota», cioè di indicare, ad ogni crocevia, la strada giusta.
 
Le fasi strategiche della lotta per l’unificazione europea.
 
1. Il Patto di Unione federale e la CED.
 
Nel 1949 l’Unione europea dei federalisti (UEF) accolse la proposta del MFE di lanciare una campagna per un Patto di unione federale, che l’Assemblea consultiva del Consiglio d’Europa avrebbe dovuto redigere e sottoporre per la ratifica agli Stati membri. In particolare in Italia essa coinvolse la classe politica ai massimi livelli e sfociò nella firma della «Petizione per un Patto di Unione federale», al Teatro Sistina di Roma, da parte del Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi e del ministro degli esteri Carlo Sforza, alla presenza del Presidente della Repubblica Luigi Einaudi. Questa campagna fu condotta in una situazione di disfacimento e di grave crisi di potere degli Stati nazionali, sulla cui debolezza si poteva far leva per spingerli a lasciarsi alle spalle una secolare storia di guerre e di distruzioni per unirsi in una federazione. Il Patto federale non vide la luce, e ciò non fece che accentuare i problemi della gestione del dopoguerra, il principale dei quali era quello della sovranità della Germania, e in particolare dell’esercito tedesco. Il progetto della Comunità europea di difesa (CED) fu la risposta dei governi e la battaglia per la Comunità politica europea fu la reazione dei federalisti.
I federalisti dovettero contare sulla politica estera degli Stati nazionali, e in ciò consistette, nelle parole di Albertini, il «paradosso della CED»: «Nella politica della CED coincisero una politica tradizionale ed una politica federalista. La diplomazia dovette affrontare un difficile problema. Il federalismo indicò la soluzione. La soluzione fu federalista, lo strumento d’esecuzione lo Stato nazionale».[72]
In realtà, scriveva Albertini, «se, dietro la facciata europea, si vanno a cercare le vere motivazioni delle azioni politiche che hanno sostenuto la CED nei diversi paesi, si riscontra che queste azioni erano condotte in Francia per impedire il riarmo tedesco, in Germania per ricuperare la sola forma di sovranità che era allora possibile, in Italia per difendere il governo di centro».[73] Tuttavia i federalisti, consapevoli di ciò, e critici nei confronti della CED come istituzione, la appoggiarono come «politica», poiché era in sostanza una politica costituente: «ci avrebbe dato, come del resto riconobbero in Francia proprio i 58 socialisti contrari, lo Stato europeo a Sei… Non si torna indietro… quando ci si è disfatti dell’esercito nazionale Tutte le forze democratiche avrebbero dovuto definirsi nei confronti di una situazione aperta soltanto allo sbocco federalista».[74]
La battaglia fu persa, e, caduta la CED, era necessario mettere in discussione l’alleanza fra politica tradizionale e politica federalista. Questa alleanza era basata su una situazione reale, la crisi dello Stato sovrano, che indusse le avanguardie più consapevoli dei detentori del potere nazionale a spingersi fino alla soglia della cessione della sovranità. Il fallimento dell’operazione riportò l’occasionale dinamica europea nell’alveo della politica nazionale: l’avversario, lo Stato nazionale, era di nuovo in sella. A partire da questa constatazione si trattava di pensare sia a una nuova strategia, sia al rafforzamento del MFE: se la congiuntura politica mise temporaneamente fuori gioco i federalisti, non erano tuttavia scomparse le contraddizioni della vita nazionale ed esse, se la diagnosi federalista era esatta, sarebbero fatalmente riemerse.
 
2. Il Congresso del popolo europeo.
 
Con la ratifica dell’Ueo e il ritorno della Germania alla sovranità era ormai chiaro che la ricostruzione dell’Europa stava procedendo in termini nazionali e sulla base del mantenimento della sovranità assoluta degli Stati: i federalisti si assunsero il compito di creare le condizioni per forzare i governi nazionali a rinunciare alla sovranità attraverso la rivendicazione popolare di una Assemblea costituente, la cui convocazione sarebbe potuta avvenire solo con la creazione di una forza politica sovranazionale che lo volesse fermamente e fosse abbastanza forte per imporla ai governi nazionali. Questa forza politica sarebbe stato il Congresso del popolo europeo (CPE),[75] attraverso il quale far crescere la volontà popolare europea fino a raggiungere la vittoria, strappando agli Stati la concessione della Costituente.
«Non si tratta di un programma massimalistico», scriveva Albertini in un articolo sul significato del Congresso di Parigi dell’Unione europea dei federalisti del gennaio 1955, che lanciò l’idea del CPE. «Si tratta di portare la battaglia su un terreno dove si possa vincere. Lo stesso Schuman, che fece al Congresso un coraggioso discorso d’apertura, disse che la azione europea non dovrà basarsi sui parlamenti nazionali, ma sui due termini opinione pubblica-governi. Nei parlamenti nazionali si cristallizzano le situazioni nazionali. Nei governi anche più. Ma è da essi che l’opinione pubblica deve ottenere il primo passo, perché essi hanno il potere dell’iniziativa».[76]
«Il voto del CPE — scriveva Albertini per illustrare il significato e i fini della campagna — non crea un potere parlamentare, ma vale piuttosto come una protesta, una rivendicazione del diritto elettorale europeo… Il significato politico generale di questo piano di lavoro a lunga scadenza è in sostanza il seguente: tendere verso l’egemonia dell’europeismo diffuso. Oggi l’europeismo è politicamente una forza zero… Ma con le elezioni primarie si può rovesciare questa situazione… Come oggi chi ha reazioni liberali, socialiste, sindacali e via dicendo le riferisce immediatamente al tal partito o sindacato, così domani chi avrà reazioni europee le riferirà al CPE e non più agli “europeisti” dei partiti nazionali. Quando ciò sarà fatto, l’europeismo sarà una forza politica. Si tratterà allora di usare bene questa forza, e di impiegarla decisamente quando giungeranno situazioni di crisi di potere. In queste situazioni le scelte diventano forti, le masse si destano dal loro torpore abituale ed acquistano il potere di scegliere. Allora il CPE potrà dare la battaglia decisiva».[77]
Queste posizioni radicali erano inevitabili. Essendosi chiuso un ciclo politico in cui la debolezza dell’Europa era gravissima ed era vicina la memoria delle tragiche conseguenze della divisione tra gli europei, risultava ormai difficile pensare che i governanti avrebbero perseguito a breve termine la federazione, e quindi l’autodistruzione delle proprie posizioni di potere: i federalisti dovevano imboccare la via dell’autonomia, della formazione dei quadri, della ricerca del consenso, elaborando una politica di opposizione di regime e di comunità.[78]
Nel frattempo, sul fronte europeo, i governi si avviarono nella direzione della semplice integrazione economica creando il Mercato comune, e i federalisti imboccarono la via della denuncia dell’imperante illusione funzionalista attraverso una forte contestazione delle Comunità europee, contro la speranza di una loro evoluzione spontanea in senso federale. «Evoluzione, scriveva Albertini, significa passaggio (graduale) da uno status x ad uno status y. Orbene, non si può parlare… di passaggio (graduale) del potere di tali pseudocomunità da uno status nazionale (confederale), ad uno status europeo (federale) per il semplice fatto che tali pseudocomunità non hanno potere, e quindi non possono passare dall’averne uno all’averne un altro, e non se ne può parlare nemmeno indirettamente perché esse sono subordinate al potere e non lo subordinano, quindi non possono farlo procedere da uno status nazionale ad uno status europeo. In qualunque modo mutino, le pseudocomunità restano sempre nel campo nazionale. Rispetto a quello europeo esse sono per così dire, asintotiche: si può pensare che lo avvicinino sempre, non si può pensare che possano raggiungerlo…
Chi voglia raggiungere la federazione non potrà essere, pertanto, favorevole alle pseudocomunità. Dovrà essere, allora, indifferente o ostile? Il mio parere è che debba essere ostile. Mi limiterò ad illustrare un punto: per unire l’Europa ci vuole un trasferimento di sovranità dagli Stati alla federazione, il che si può ottenere soltanto se un numero sufficiente di individui, schierati in campo europeo, si indirizzano contro i poteri nazionali per distruggerli (in buona parte) mentre fondano, in tale campo europeo, un potere politico (costituente). Si tratta di una lotta rivoluzionaria molto difficile… che richiede una forza di ragione non comune».[79]
Tale posizione, del tutto controcorrente, poneva non pochi problemi ai federalisti: da una parte c’era la necessità di portare a consapevolezza e di organizzare l’europeismo diffuso, cioè il sentimento pro-europeo dei cittadini, e, dall’altra, quella di denunciare la politica europeista dei governi, che di fatto procrastinava il raggiungimento dell’obiettivo federale, ma entro il cui alveo veniva incanalato quell’europeismo diffuso su cui si doveva far leva, e che avrebbe dovuto essere il quadro dell’azione del CPE.
Questa rigorosa scelta di campo era tuttavia necessaria. Essa non fu senza conseguenze e produsse lacerazioni e divisioni all’interno dei Movimenti federalisti. All’inizio la campagna del CPE non fu accettata dall’Unione europea dei federalisti (che era allora una «internazionale» di Movimenti nazionali autonomi); i suoi sostenitori tentarono di svolgerla indipendentemente dalle organizzazioni esistenti e costituirono il Congresso del popolo europeo come organizzazione autonoma. Ma il tentativo di estendere le elezioni dei delegati al Congresso ad una parte sufficiente del territorio dell’Europa occidentale fallì, il CPE «andò alla deriva come una nave senza bussola» (solo dove erano presenti gruppi forti e decisi, in pratica solo nell’Italia del Nord e a Lione, si riuscì a organizzare le pubbliche elezioni) e infine entrò in agonia.
La crisi del CPE, che divenne crisi del Movimento, diede inizio, a partire dal 1960, a un periodo travagliato che sfociò, da una parte, nella contrapposizione a Spinelli e nell’assunzione della leadership del MFE da parte di Albertini, e, dall’altra, sul fronte dell’azione, nel lancio del Censimento volontario del popolo federale europeo.
«L’impresa è stata molto dura e faticosa», scriveva Albertini. «Si doveva rimettere in causa tutto ciò che era stato pensato e fatto dal 1955 al 1960, e ricominciare affrontando intellettualmente un campo molto più vasto, mentre la forza del federalismo si stava riducendo sino a rendere infinitesime le possibilità d’azione. Abbandonata la comoda posizione di secondo (culturale) di Spinelli, ho dovuto combatterlo di fronte e apertamente, e tenere la posizione quasi contro tutti mentre mi si accusava di cedimento, di gollismo, di sabotaggio dell’autonomia federalista. A cominciare da due o tre giovani amici, pian piano ho intrecciato le fila, tenendo fermo l’essenziale: una visione del corso storico, una visione del processo politico e del nostro posto in esso, l’opposizione di regime e di comunità e infine, a grado a grado che ciò si precisava e ridiventava possibile, l’impegno concreto di affrontare i problemi che il MFE deve risolvere [cioè] il rilancio di una azione nel quadro europeo (una azione, non il sogno di una azione come i progetti visionari di grande rilancio del CPE, che non ci permettono di far nulla perché, non essendo hic et nunc possibile, non mettono in azione il fronte federalista), e il dibattito politico sulle questioni di fondo: la posizione dei federalisti nel corso storico e nel processo politico.
Spinelli non aveva alcuna risposta a questo problema di conoscenza e di azione. Per questo ha cercato appoggi esterni negli USA e nelle sinistre nazionali. Ma così ha sacrificato l’autonomia, ha compiuto una deviazione nazionale e ha perso la sua base».[80]
Albertini si trovò di fronte a un dilemma, morale oltre che politico: «Solo da poco tempo vedo con lucidità, sino alle ultime conseguenze politiche, che Spinelli non sa guidare questa fase della lotta federalista… Questo fatto è grave, grave perché si fatica a pensarlo umanamente: è il fondatore; ed è grave politicamente perché egli, in ogni modo, occupa la scena e combatterlo o diminuirlo sarebbe un danno per il federalismo. Qui sta un intoppo durissimo: se lo lasciamo alla testa della lotta, egli la devia, se lo priviamo del primato, nessuno lo può sostituire, perché nessuno ha l’autorità di farlo».[81]
Ma già un anno dopo il dado era tratto: «…in sostanza tutto dipende dal fatto se è vero o no che la politica di Spinelli porta alla liquidazione del MFE. Io penso in questo modo ormai da molto tempo, e non ne ho fatto un mistero… È vero che potrei… essere in torto, anche se prima di decidermi ad agire ci ho pensato mille volte. Ma le cose continuavano a peggiorare, sinché il non intervenire mi sembrò una colpa. D’altra parte non abbiamo altra misura all’infuori della nostra coscienza. E il fatto che ci si può sbagliare non ci solleva dalla responsabilità della scelta: si sceglie sempre, e si sceglie tanto con l’azione quanto con l’omissione». La leadership di Spinelli «è un problema che non si risolve solo con i sentimenti: il rispetto, la gratitudine, l’amicizia. In questo caso si prefigurerebbe col giudizio di valore l’accertamento del fatto, mentre si tratta proprio di accertarlo per poter stabilire le sue conseguenze politiche. Chi è Spinelli? Un uomo con molto fiuto per le situazioni che presentano in modo compiuto o quasi l’aspetto politico, ma privo di interesse per quelle che lo presentano soltanto in modo embrionale. Un uomo abile nella manipolazione degli equilibri in atto, del tutto fuori posto se si tratta di preparare quelli futuri. Il fatto che tra il 1948 e il 1954 ci fu una situazione tale da rendere possibile, con la conoscenza e la manipolazione dell’equilibrio in atto, e a patto che qualche uomo politico fuori dal gioco normale fosse capace di prendere l’iniziativa giusta al momento giusto, l’unificazione federale dell’Europa, ebbe per Spinelli il carattere del destino. Spinelli seppe prendere questa iniziativa. Egli portò così per la prima volta nella storia europea il federalismo sul piano politico… e lasciò così una traccia nella storia del dopoguerra.
Ma il ciclo politico cominciato nel 1954 ha, rispetto al problema europeo, un carattere opposto a quello del ciclo che nel 1954 si chiuse. Non c’è più la possibilità di coincidenze virtuali tra l’unificazione federale dell’Europa e la politica dei partiti e dei governi. Non si tratta più, perciò, di intervenire dall’esterno con l’iniziativa federalista nell’equilibrio in atto. Si tratta invece di occuparsi proprio degli aspetti politici embrionali della situazione, allo scopo di far nascere una forza nuova, e di modificare con questa forza l’equilibrio per ottenere ciò che, con l’equilibrio normale, non si può più ottenere. Da allora è cominciata la vita difficile di Spinelli. La sua personalità e il suo compito non coincidevano più. Egli seppe indicare il cammino nuovo, ma non poté percorrerlo perché non era il suo cammino. È stato fermo, e ogni volta che ha tentato di muoversi, di agire, deviava in senso nazionale… E da allora noi siamo rimasti sulla soglia. Bisogna capire che ci staremo sempre se non avremo il coraggio di passargli avanti… Il federalismo deve fare in questo ciclo cose che Spinelli non può fare, che sarebbe inutile chiedergli. Proprio perché è un uomo compiuto — con un posto suo tra coloro che hanno davvero fatto qualcosa nella dimensione della storia — Spinelli è l’uomo di certe cose, non di tutte le cose. E dal punto di vista umano — la vita non è un idillio — credo che ci sia un solo modo vero di essergli fedele: combatterlo».[82]
«Passare avanti» a Spinelli significava «trovare qualche punto fermo per fondare una possibilità organizzativa reale. In particolare: a) una concezione di come si sta muovendo il mondo (non i governi, che sono effetti piuttosto che cause), b) una azione che sia un punto di partenza dall’oggi, dal nazionale, verso l’europeo, e che lo sia per ogni città, anche dove i federalisti non esistono ancora».[83]
Questa azione sarà il Censimento volontario del popolo federale europeo, una raccolta sistematica di firme, al fine di «schedare» i cittadini europei favorevoli all’unità europea, fino a raggiungere la maggioranza.
 
3. Il Censimento volontario del popolo federale europeo.
 
Il contrasto con Spinelli emerse nella riunione del MFE sovranazionale[84] e del Comitato permanente del CPE tenutasi a Parigi il 30 settembre e il 1° ottobre 1961 per preparare il Congresso di Lione (9-11 febbraio 1962), ed ebbe una ricaduta politico-organizzativa nel marzo 1962, con la costituzione ufficiale, a Milano, della corrente di Autonomia federalista. Mentre si assisteva al progressivo disimpegno di Spinelli[85] essa, guidata da Albertini, iniziò una intensa attività: la prima riunione a livello europeo si tenne a Basilea il 29 aprile 1962 e nella seconda (30 settembre) venne approvata la nuova azione-quadro del Censimento. Al Comitato centrale di ottobre questa azione venne proposta al MFE sovranazionale in contrapposizione al progetto di rilancio del CPE.
Questo momento di crisi e il passaggio ad un’altra prospettiva strategica e di azione sono analizzati da Albertini in una serie di scritti riuniti nel saggio La crisi di orientamento politico del federalismo europeo. «Né il Congresso del popolo europeo, vi si legge, né il Movimento federalista europeo unificato supernazionale hanno dato i frutti sperati. Comincio con qualche osservazione sul CPE. Si poteva pensarlo: a) come un mezzo di contatto tra i federalisti come classe politica nuova, europea, e le loro città (io diedi sempre questa interpretazione…), b) come una formula suscitatrice di energie politiche. L’esperienza ha confermato che il CPE è la prima, non la seconda cosa… È facile, del resto, spiegare questi fatti: a) il CPE porta al Congresso europeo delegati plebiscitati, non delegati scelti da assemblee sulla base delle loro posizioni politiche; b) di conseguenza non seleziona quadri direttivi responsabili, ma ammassa delegati-spettatori, cui può piacere questo o quell’attore, ma che non ascoltano Rapporti e proposte di mozioni come indicazioni politiche la cui scelta, dipendente da ciascuno di loro, imponga effettivamente all’organizzazione una linea politica; c) per questa ragione il CPE fallisce come organo di scelta di una politica e come organo propulsore di reclutamento e selezione di uomini…
Qualche considerazione sul MFE. Non è diventato europeo… Rispetto al passato ci sono cose cadute (le vecchie organizzazioni nazionali “sovrane”), non ancora una efficace sostituzione europea. Le Commissioni nazionali tendono a mantenere l’iniziativa politica nel campo nazionale… Dopo queste premesse, si può arrivare al cuore del problema. Siamo di fronte al fine politico più difficile: la fondazione di uno Stato nuovo su un’area nuova. Persa l’occasione tedesca del dopoguerra, per affrontarlo dobbiamo impiegare il mezzo più difficile: un Movimento politico da fondare ex novo. Se non ci eleviamo a queste altezze le nostre prese di posizione politiche diventano puro verbalismo… Non siamo certo di fronte al problema di mantenere, o organizzare quel che c’è; ma di fronte a quello di far coincidere i comportamenti politici superiori — moralmente e culturalmente — con la lotta per l’Europa».[86]
Tutto ciò implicava una grande concentrazione sul fronte culturale: «Dobbiamo considerare preminente il lavoro culturale. Ci vuole una dottrina per mostrare quale sia il nostro nemico e perché esso sia da abbattere. Una dottrina permanente. Senza dottrina si possono fare colpi di mano, politiche carbonare, imprese a breve termine, ma non imprese a lungo termine che devono tenere sul campo per molto tempo molti uomini senza casse per pagarli o ricompensarli e senza la prospettiva del successo vicino… Sinché la gente pensa che il male è il capitalismo, il totalitarismo comunista, l’anticristo, la reazione naturale — la ricevibilità di parole d’ordine — sarà dei socialisti, dei democratici, dei cristiani… Ci vuole una teoria soddisfacente dello Stato nazionale, un fondamento solido per la nostra pretesa di dichiararlo illegittimo, di rifiutare il lealismo… La svolta dal regime degli Stati nazionali a quello federale è impossibile senza una profonda negazione del nazionalismo (= Stato nazionale) in tutti i campi dove esso ha esteso la sua influenza… Bisogna mettere in piedi una opposizione di regime, ed una opposizione di regime si fonda soltanto su una profonda negazione — che per il suo carattere, per il fatto stesso che nega una situazione di potere che ha prodotto una cultura, non può che avere carattere culturale — su una profonda negazione del regime esistente. Bisogna davvero dimostrare che la nazione è un idolo. Non basta dirlo. Bisogna dirlo in modo tale che i migliori, e poi gli altri, si convincano che è un idolo, che non va servito. Sino a che non ci si giunga la nostra opposizione resta velleitaria, noi “non stiamo per noi medesimi”, la nostra forza è zero».[87]
Questo grande sforzo di fondazione e diffusione della cultura politica federalista — al fine di mettere in luce «lo svuotamento delle ideologie politiche tradizionali» e di indicare nel federalismo «la vera risposta per raggiungere i valori etico-politici che la nuova situazione mondiale ed europea fa sorgere nella coscienza degli uomini»[88] — fu il supporto indispensabile per una azione-quadro, un’azione in grado di creare un quadro europeo di lotta politica fondato sull’alternativa federazione-Stati nazionali.
«Nella situazione presente — scriveva Albertini nell’illustrare ufficialmente la campagna del Censimento volontario del popolo federale europeo — i cittadini europei, mentre possono contribuire alla formazione delle rispettive politiche nazionali attraverso i partiti, non possono né dichiararsi per l’Europa, né prendere posizione sui problemi che la riguardano. Bisogna pertanto rendere possibile sia l’adesione di tutti gli europei all’Europa che la somma di queste adesioni con una azione-quadro alla portata di tutti ed uguale dappertutto. Bisogna inoltre dare agli europei, che hanno aderito, la possibilità di prendere di volta in volta posizione sui problemi politici, economici e sociali dell’Europa».[89] Ciò avrebbe fatto agire gli europei al di sopra dei confini nazionali, «introducendo nella loro testa, a grado a grado che li inquadra[va], a) l’idea che essi costituiscono il popolo federale europeo, b) l’idea che spetta a loro, in quanto membri di questo popolo, il diritto democratico di decidere quale forma debba assumere l’unità europea (l’esercizio del potere costituente)».[90]
Questa campagna doveva puntare su un grande numero di adesioni, il cui ordine di grandezza fosse sufficiente per fame un fenomeno pubblico, ossia per creare «un quadro pubblico europeo di natura psicologica per evitare che la popolazione continu[asse] a pensare ai governi e ai partiti nazionali come ai protagonisti esclusivi dell’unificazione europea».[91] E lo sbocco di un tale processo avrebbe dovuto essere un «moto globale di opinione pubblica» per «porre con fermezza i governi di fronte alla necessità di convocare l’Assemblea costituente», prevedendo anche la disobbedienza civile non violenta.[92]
Mentre Autonomia federalista procedeva su questa via decidendo, dopo alcuni rinvii, di iniziare l’azione il 1° novembre del 1963 in Francia, Italia e Germania, veniva svolto un intenso lavorio per convincere il MFE ad approvare il Censimento come azione ufficiale. «Il MFE, scriveva Albertini, ormai fa la politica del Fronte, ossia tenta di prendere la guida delle forze democratiche europee. La minoranza… tenta, da parte sua, di fare la stessa cosa col Censimento… Il Fronte, così come ora si presenta, non può svilupparsi, dunque non è la soluzione efficace, ma il tentativo è giusto».[93] Sulla base di ciò Albertini cercò un accordo e fece una proposta: «Il Censimento può inquadrare la popolazione. Il Fronte può parlare alla popolazione. Per inquadrare la popolazione bisogna darle la possibilità di esprimersi. In mancanza del voto, che costituisce il mezzo normale di espressione della popolazione, a livello europeo non si può fare che una specie di censimento. D’altra parte, per mantenere e incanalare politicamente questo legame con la popolazione, bisogna raggruppare i quadri favorevoli all’Europa man mano che si manifestano — di qui la necessità di un raggruppamento flessibile — e prendere con essi delle posizioni politiche. Questo è il Fronte… Se il MFE riconosce… la complementarietà tra Fronte e Censimento, con opportune garanzie che si tratta di cercare, [Autonomia federalista] non può far altro che sciogliersi».[94]
L’operazione fu condotta in porto con successo: durante il Comitato centrale del 31 maggio 1965 il Censimento venne sancito come azione ufficiale del MFE e la corrente di Autonomia federalista si sciolse.
 
4. L’elezione diretta del Parlamento europeo.
 
Il tentativo di mobilitazione dei cittadini attraverso il CPE e il Censimento si scontrò con il progressivo successo del Mercato comune. «Il MFE sapeva che l’integrazione economica da sola non avrebbe condotto automaticamente l’Europa all’unità politica. Sapeva che la stessa unità economica, senza quella politica, non sarebbe giunta a definitivo compimento, perché, a un certo stadio del suo sviluppo, avrebbe posto fatalmente dei problemi di politica economica praticamente insolubili senza un potere europeo. E cercò con ogni mezzo di far capire queste verità evidenti. Ma non venne ascoltato, e tanto meno seguito: il costante progresso del Mercato comune faceva pensare ai più che si stesse ormai marciando regolarmente verso l’Europa. Per il MFE si trattava di saper attendere».[95]
Si trattava cioè di identificare un punto d’appoggio sufficiente, legato a qualche elemento della situazione politica, per rilanciare l’azione dei federalisti. Ciò che era in vista, e poteva essere sfruttato strategicamente, era la ormai prossima fine del periodo transitorio del Mercato comune. Giunti a questo punto gli Stati si sarebbero trovati di fronte a un crocevia: a) per continuare a sfruttare i vantaggi dell’integrazione economica dovevano porsi il problema dell’Unione economico-monetaria, b) per superare la contraddizione, che i governi per primi quotidianamente sperimentavano, fra dimensione dei problemi da affrontare e dimensione dei centri di decisione, dovevano affrontare il problema delle istituzioni e del loro controllo democratico. Questi due fronti, insieme, sarebbero diventati per i federalisti la piattaforma del rilancio europeo sulla base della svolta strategica che, come abbiamo visto, fu definita gradualismo costituzionale.
A partire dalla considerazione che l’Europa era ormai diventata una realtà economica, con una complessa amministrazione, Albertini focalizzò l’attenzione sul fatto che a fianco della nuova imponente realtà europea c’era un Parlamento europeo ancora privo di base elettorale: «Se si chiede che venga eletto, si chiede una cosa che tutti, salvo i nemici dell’Europa, trovano giusta. Si tratta di sfruttare questo sentimento… [I] partiti, pur riconoscendo il principio della democrazia europea, non fanno nulla per realizzarla. Ma non potranno restare inerti se il MFE li obbligherà, con una campagna tenace e paziente, a rispondere.
Naturalmente non si tratta solo di chiedere l’elezione diretta del Parlamento europeo, ma di sviluppare una azione lunga e difficile al termine della quale si possa averla, o rivendicarla. In pratica, si tratta di identificare di volta in volta degli obiettivi effettivamente perseguibili sulla via del fatto elettorale europeo, in modo da provocare delle decisioni concrete, e non solo dei discorsi domenicali. Il grande spartiacque, per il momento, è dato dal fatto che de Gaulle può impedire l’elezione europea ma non può impedire l’elezione diretta unilaterale negli altri paesi… Su questa base si può iniziare una lotta…».[96]
E la proposta concreta fu di iniziare in Italia una campagna per l’elezione unilaterale diretta dei rappresentanti italiani al Parlamento europeo, associando progressivamente alla campagna italiana i leader dell’opposizione francese a de Gaulle e personalità di altri paesi per creare una sorta di reazione a catena. Se non si fosse ottenuta l’elezione unilaterale, il piano di riserva era la mobilitazione di «una forza sufficiente per rivendicare, con un Congresso eletto direttamente dalla popolazione col metodo delle elezioni primarie lo stesso giorno, in un numero sufficiente di città europee, la democrazia europea».[97] A tal fine avrebbero dovuto essere sfruttate tutte le azioni del MFE, dal Fronte al Censimento, all’Azione frontiere ecc., con la mobilitazione diretta dell’opinione pubblica e con la creazione di un raggruppamento di personalità politiche, culturali e sindacali.
Sul significato e sulle potenzialità dell’elezione diretta del Parlamento europeo Albertini scriveva: «Tutti i grandi problemi politici ed economici impongono ormai il riferimento all’Europa, ma… lasciano pensare l’Europa nei termini evasivi dell’ottica nazionale (collaborazione, confederazione, Comunità senza trasformazione federale). Il fatto elettorale europeo, invece, impone il riferimento al trasferimento del potere all’Europa e lo realizza. Basta tener presente che la prima elezione europea obbligherà i partiti a schierarsi a livello europeo e a battersi per il consenso europeo… Una volta spostata la lotta politica dai quadri nazionali a quello europeo, gli ostacoli sostanziali che ci separano dalla democrazia europea risulterebbero superati. Tutti gli altri obiettivi, ivi compresi la Costituzione e la Costituente, non sarebbero che i temi di ciò che, nella strategia militare, si chiama sfruttamento del successo».[98]
Ci vollero più di dieci anni per arrivare alla prima elezione europea, che, se non ha innescato il processo di trasferimento del potere dalle nazioni all’Europa, ha però permesso ai federalisti di tenere sul campo il problema europeo denunciando la contraddizione fra il voto europeo e la mancanza di uno Stato europeo e di coinvolgere lo stesso Parlamento europeo in alcune fasi delle loro battaglie politiche, fino al progetto di Trattato di Altiero Spinelli, che, proprio all’interno del Parlamento europeo e con il suo appoggio, è riuscito a far avanzare ulteriormente il processo di unificazione ponendo con chiarezza il problema del trasferimento di alcuni poteri cruciali dalle nazioni all’Europa.
 
5. La moneta.
 
Nei primi anni ‘70 si dovette affrontare una grave crisi politica ed economica a livello mondiale legata a un crescente disordine nel settore monetario e in quello delle materie prime, alla base del quale stava l’indebolimento della leadership americana. Appariva dunque quanto mai urgente dare una spinta propulsiva al processo di unificazione europea al fine di far entrare in gioco l’Europa, o perlomeno di iniziare un cammino concreto che permettesse di prefigurare un cambiamento nella situazione mondiale di potere, orientandola verso un «multipolarismo egualitario».
Mentre era ancora in atto la battaglia per ottenere l’elezione europea, i federalisti aprirono un altro fronte strategico, identificando come «punto scivoloso» sul piano inclinato dalle nazioni all’Europa la moneta, ossia uno dei fattori che rendevano possibile la decisione di trasferire il potere a livello europeo. Sulla base del nuovo principio gradualistico dello sfruttamento della politica europea dei governi, che, con la Conferenza dell’Aja del 1969, avevano riconosciuto la necessità dell’unione monetaria, il MFE si incamminò verso la rivendicazione della moneta unica.
Si trattava di agire per trasformare un problema concreto, posto da una integrazione economica sempre più stretta e da una situazione internazionale sempre più caotica, in un problema politico, di collegare cioè il fatto monetario alla questione della sovranità e quindi dello Stato.
«È comune ammissione — scriveva Albertini — che i problemi monetari vanno affrontati anche da un punto di vista politico. Ma non è comune l’esame degli aspetti politici di fondo dei problemi monetari… Naturalmente ciò si ripercuote sui risultati delle analisi. Prendere atto di esigenze di conoscenza che si manifestano nell’esame di un problema senza portarle a compimento non consente di giungere a conclusioni positive, confina la riflessione nello stato che Hegel chiama della “cattiva infinità”. Alla radice della “cattiva infinità”… sta la mancanza di una teoria completa ed adeguata degli aspetti politici (aspetti di potere) della moneta».[99]
A partire dall’analisi di Lionel Robbins, che mette in evidenza proprio questi aspetti, Albertini spinse il suo ragionamento fino a dimostrare che «l’operazione indicata dall’espressione “unificazione monetaria europea” non si presenta più come un problema con molte soluzioni (in realtà tutte illusorie meno una), ma acquista il carattere di un problema definito, con una sola soluzione. Il fine economico è quello di trasformare un gruppo di monete nazionali, con limitate e subordinate possibilità internazionali, in una moneta “nazionale” (europea) che copra tutta l’area in questione. Si tratta dunque dimettere in opera il mezzo politico: una volontà pubblica, costituzionalmente definita, sulla stessa area. Ciò equivale a dire che non si può progettare l’unificazione monetaria europea senza progettare la creazione di uno Stato federale europeo».[100]
In sostanza il problema monetario era uno dei «punti scivolosi» che, attivando le leadership nazionali nel quadro dell’azione normale della classe politica (che in quanto tale non prende in esame la creazione della sovranità europea), rendeva possibile, una volta che l’obiettivo fosse sul campo, l’emergere di una leadership occasionale europea che poteva trascinare con sé le leadership nazionali.
Dopo aver ottenuto l’elezione diretta del Parlamento europeo nel dicembre del 1975, la battaglia dei federalisti si concentrò sulla moneta unica che, sulla base delle precedenti considerazioni, acquistava un rilievo strategico. La battaglia è stata lunga. Dapprima i federalisti sostennero la creazione del Sistema monetario europeo, che essi consideravano una tappa intermedia in grado di arginare la deriva monetaria provocata dalla fluttuazione generalizzata dei cambi. Poi, una volta raggiunto questo obiettivo, si batterono per la trasformazione dello SME in una Unione monetaria vera e propria.[101]
Nel corso del Consiglio europeo di Roma dell’ottobre 1990 vennero finalmente prese decisioni in materia di Unione economico-monetaria tali da far pensare che si sarebbe arrivati ad una vera moneta europea attraverso l’elaborazione e la ratifica di un trattato contenente il programma della sua realizzazione.[102] Pur denunciando i rischi legati ai tempi lunghi previsti dai governi, Albertini sottolineò l’importanza della ratifica di un trattato con un programma preciso e con scadenze definite: «In questione è la forza (politica, economica e sociale) che ha sostenuto sinora il cammino della Comunità: è l’orientamento delle aspettative. È in questo modo che sinora l’unificazione è avanzata. Le energie europee… possono entrare in campo quando la Comunità, precisando bene i punti di arrivo, gli obiettivi intermedi, le date ecc., imposta programmi che risultano credibili e che mobilitano sempre più forze a mano a mano che, avvicinandosi l’obiettivo finale, diventano ancora più credibili, e si impongono anche alle forze avverse o inerti. Naturalmente più l’obiettivo è importante, più è grande la forza che entra in campo».[103]
Sulla base di queste considerazioni e del fatto che il 1° gennaio 1993 sarebbe entrato in vigore il mercato unico, il MFE chiese ai governi di anticipare la creazione della moneta europea per evitare che il contesto nel quale si era manifestata la volontà politica di realizzarla potesse mutare facendo svanire il progetto. Si trattava cioè 1) di accelerare l’acquisizione dell’obiettivo strategico (la moneta) per passare alla fase dello sfruttamento del successo al fine di creare nuovi equilibri istituzionali e 2) «di rendere sempre più inclinato il piano sdrucciolevole sul quale si trovavano i governi chiedendo incessantemente, irrevocabilmente, l’attribuzione di un mandato costituente al Parlamento europeo almeno per quanto riguarda[va] la creazione della forma democratica e istituzionale con la quale gestire le competenze già trasferite — o in corso di trasferimento — all’Europa»,[104] aprendo così la via al completamento dell’opera costituzionale.
L’accelerazione richiesta dai federalisti per la creazione della moneta entro il 1994 non è avvenuta, né, una volta raggiunto l’obiettivo con la nascita dell’euro, esso è stato in grado di attivare, come si era sperato, un effettivo processo costituente per la fondazione di uno Stato federale europeo, sulla base della contraddizione fra la presenza di un’unica moneta su un’area pluristatale e la mancanza di un governo democratico sulla stessa area in grado di sfruttarne fino in fondo le potenzialità.
Ciò non è che l’ulteriore conferma della difficoltà dell’impresa europea, fortemente condizionata dall’inerzia dei poteri nazionali, che sono strumento dell’avanzamento dell’integrazione, ma nello stesso tempo ostacolo al compimento del cammino laddove è in gioco la sovranità.
 
Federazione europea e Federazione mondiale.
 
L’impegno politico dei federalisti per la creazione della Federazione europea acquista un senso compiuto solo se proiettato verso l’unificazione federale del mondo. È questa la differenza tra federalisti ed europeisti. Il riferimento alla Federazione mondiale è un dato irrinunciabile della linea teorica e sta sempre sullo sfondo delle analisi che definiscono la linea politica.
A partire dall’esame della situazione internazionale a cavallo degli anni ‘80 Albertini pose un accento particolare sulla necessità di proiettare «il pensiero e la volontà» anche al di là della battaglia strategica per la Federazione europea. Con lo sguardo rivolto verso un futuro lontano egli delineò un quadro mondiale proiettato nella direzione del superamento della divisione attraverso le iniziative e le organizzazioni unitarie in molte aree del mondo e, con tutti i suoi limiti, ma anche le sue potenzialità, attraverso l’ONU.
Sottolineando che l’aumento sempre più accelerato dell’interdipendenza spinge verso la collaborazione tra tutti i paesi «per lo sviluppo equilibrato del mercato mondiale e la soluzione dei problemi internazionali con il metodo del negoziato», egli concludeva che «questa ricerca comune del progresso politico, economico e sociale [era] concepibile solo se con l’inizio della marcia verso il governo mondiale, e la formazione di questo nuovo punto di riferimento per la pubblica opinione e la cultura, [avrebbe acquistato] peso, nella bilancia mondiale delle aspettative… la prospettiva di un mondo unito».[105]
La ricaduta concreta di queste riflessioni furono la ripresa dei contatti e della collaborazione con i federalisti mondiali, l’adesione al World Federalist Movement e la decisione, nel 1984, di pubblicare la rivista Il Federalista anche in inglese.
Qualche anno dopo, l’era Gorbaciov sembrò aprire una via verso «la prospettiva di un mondo unito». Albertini credette nelle possibilità aperte dai nuovi rapporti fra le superpotenze, pur non mancando di manifestare una realistica cautela nei confronti di un germe ancora molto incerto. Il rovesciamento, teorizzato da Gorbaciov, del principio su cui da sempre era basata la politica di tutti gli Stati — «perseguire l’aumento della loro forza e la diminuzione di quella altrui» — sulla base del concetto di sicurezza reciproca — «pensare alla sicurezza altrui quando si provvede alla propria» — conteneva in effetti delle enormi potenzialità, rendendo pensabile una via del tutto nuova nei rapporti internazionali. Pur essendo consapevoli del limite di questo progetto che le due superpotenze non erano ancora in grado di superare — «quello costituito dal mantenimento di una difesa nazionale come presidio supremo della loro sovranità assoluta ed esclusiva»[106] — compito dei federalisti era quello di tenere sul campo e rafforzare le aspettative create dalla cosiddetta «Nuova Era», appoggiando ogni iniziativa da parte dei maggiori leader orientata verso l’obiettivo ultimo del governo mondiale.
Il contesto politico globale basato sui nuovi rapporti USA-URSS è stato ben presto travolto dalla disgregazione dell’Unione Sovietica, facendo venir meno il ruolo trainante della leadership bipolare basata su nuovi principi di collaborazione. Si trattava di prenderne atto, nella consapevolezza che comunque la chiusura di questo varco nulla toglieva alla enorme importanza della battaglia per la Federazione europea, che era e rimane l’unico fronte strategico maturo per influenzare a breve termine il quadro di potere mondiale, contribuendo a modificarne i rapporti di forza, e per aprire la via all’affermazione del federalismo.
Se la battaglia dei federalisti ha come fine quello di affidare gradualmente il governo del mondo a un numero crescente di popoli e uomini e, al limite, a tutti gli uomini, lo Stato federale europeo può innescare questo processo e nell’attuale fase storica, come ci ha insegnato Mario Albertini, è il punto di riferimento obbligato per calare nella realtà la rivoluzione federalista.


* Si tratta dell’Introduzione a: Mario Albertini, Tutti gli scritti (Bologna, Il Mulino, 2006), di cui finora sono stati pubblicati tre volumi relativi agli anni 1946-1961.
[1] Saranno qui tratteggiati a grandi linee, soprattutto attraverso le stesse parole di Albertini, i temi teorici e strategici più importanti che egli ha affrontato, e le tappe che hanno segnato le principali battaglie politiche per l’unità dell’Europa, che lo hanno visto costantemente in prima linea, sulla base della considerazione che solo l’approccio diretto ai testi che si snoderanno nel corso della progressiva pubblicazione di tutti gli scritti potrà dare al lettore la misura della loro pregnanza e della loro efficacia. Per quanto riguarda i ruoli istituzionali che egli ha assunto nel Movimento federalista europeo e nell’Unione europea dei federalisti nelle varie fasi della sua militanza politica e per quanto riguarda ulteriori notizie sulla vita, si rimanda alla Nota biografica.
[2] Purtroppo, se si escludono la politica e l’idea di corso della storia (ai quali Albertini ha dedicato due brevi ma illuminanti saggi pubblicati in quest’opera), gli altri temi non sono mai stati elaborati in forma scritta e non è perciò possibile dar conto della profondità del suo pensiero, che meriterebbe comunque di essere ricostruito, a partire dalle registrazioni delle lezioni universitarie e delle conferenze, in altra sede.
Devo solo aggiungere, in questa nota, che negli anni ‘80 e ‘90 lo stesso Albertini considerava ormai insoddisfacenti gli scritti sulla politica e sul corso della storia, che avrebbero dovuto essere completati e integrati, insieme alla concezione materialistica della storia, all’ideologia e alla ragion di Stato, in una teoria generale, vale a dire in un «canone di interpretazione della storia e dell’azione politica» perfettamente conchiuso. Albertini ha pensato più volte, ed ha anche cercato, di mettere in cantiere questo progetto, ma l’impegno quotidiano nella lotta per la Federazione europea non glielo ha consentito.
[3] Mario Albertini, «Conclusioni d’una esperienza politica», in La Provincia pavese, 1 novembre 1946.
[4] È con una Tesi di laurea su Croce, di cui è stato relatore Giulio Preti, che Albertini si è laureato nel 1951. Per tutti i testi inediti citati nell’Introduzione si rinvia a questo e ai successivi volumi, dove sono pubblicati in ordine cronologico.
[5] Mario Albertini, «L’amore dell’Italia nell’Europa», in Lo Stato moderno, IV (20 settembre - 5 ottobre 1947), n. 18-19.
[6] In una lettera ad Ugoberto Alfassio Grimaldi del 19 dicembre 1953 Albertini si autodefinisce «per etichetta e per l’azione d’ogni giorno, un arrabbiato ed attivo federalista».
[7] In questa fase si può dire che prevalesse in lui il Don Chisciotte che c’è in ogni uomo che si confronta con il mondo. «Se non si è Don Chisciotte — si legge in una lettera ad Andrea Chiti-Batelli del 4 agosto 1964 — non si diventa Lenin. Don Chisciotte lo siamo tutti e lo portiamo dentro. Ma Don Chisciotte va bene finché si resta inquieti, finché non ci se ne compiace. Don Chisciotte è un momento della ricerca di idee realizzabili e dei mezzi effettivi per realizzarle, quello nel quale non si conoscono ancora né i fini né i mezzi, ma non si cede; di qui la sua inquietudine».
[8] Mario Albertini, Perché sono europeo, dattiloscritto senza data, probabilmente del 1958.
[9] Ibidem.
[10] Mario Albertini, «L’invito al dialogo di Norberto Bobbio», in Il Mercurio, II (8 ottobre 1955), n. 71.
[11] Ibidem.
[12] Mario Albertini, «I principi d’azione del Manifesto di Ventotene», Introduzione a: Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Il Manifesto di Ventotene, Napoli, Guida, 1982, p. 6. Ripubblicato in Mario Albertini, Nazionalismo e federalismo, Bologna, Il Mulino, 1999.
[13] Mario Albertini, Il federalismo, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 280, nota 5 (riedizione di Il federalismo e lo Stato federale. Antologia e definizione, Milano, Giuffrè, 1963).
[14] Ibidem.
[15] Ibidem.
[16] Ibidem.
[17] Mario Albertini, Lo Stato nazionale, Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 16-17 (edizione originale del 1958).
[18] Ibidem, pp. 40-41.
[19] Mario Albertini, «La nazione, il feticcio ideologico del nostro tempo», in Il Federalista, II (1960), n. 3, pp. 173-175. Ripubblicato in Mario Albertini, Nazionalismo e federalismo, cit.
[20] Mario Albertini, «Il Risorgimento e l’unità europea», in Lo Stato nazionale, cit., p. 190 (edizione originale del 1961).
[21] Ibidem, p. 189.
[22] Ibidem.
[23] Mario Albertini, «Introduzione» a Immanuel Kant, La pace, la ragione e la storia, Bologna, Il Mulino, 1985, p. 7.
[24] Ibidem, p. 8.
[25] Mario Albertini, Il federalismo (1993), cit., p. 9. In una recensione del libro di Alexandre Marc, Dialectique du déchaînement. Fondements philosophiques du fédéralisme — in Le Fédéraliste, V (1963), n. 3, — Albertini scrive: «lo ho l’impressione di star ripercorrendo, per una sorta di via in su dalle cose alle idee, un cammino che Marc ha percorso per la via in giù, dalle idee alle cose… Il mio pensiero si profila spesso dinanzi a me proprio come l’immagine rovesciata del suo. Può esserci un fondo di vero in questa immaginazione. Marc era europeo e federalista quando il volto dell’Europa era ancora sfigurato dal nazionalismo giunto al suo culmine, quando il successo del potere più accentrato della vita moderna sembrava aver ridotto definitivamente il federalismo a un’ombra senza corpo. In realtà, il fascismo era un’ombra senza corpo. Esso non fu che il tentativo forsennato di sbarrare la strada al federalismo che avanzava. Ma chi se ne accorgeva allora? E — bisognerebbe aggiungere — quanti lo sanno oggi? Per pensare così sin da allora, per intravedere tra i lampi della tempesta il sereno, era necessaria una fortissima concentrazione ideale, era necessario vivere le cose solo nel pensiero. Solo con gli occhi della mente si poteva fissare lo sguardo sull’opposto del fascismo, sul federalismo. Se ciò è vero, Marc non poteva cominciare che da dove ha cominciato, da una riflessione globale di carattere metafisico». La versione italiana è stata rinvenuta dattiloscritta.
[26] Mario Albertini, «Il federalismo», in Il Federalista, XIII (2000), n. 2, p. 92. L’originale inedito è del 1962.
[27] Ibidem, p. 98.
[28] Mario Albertini, Il federalismo (1993), cit., p. 282, nota 6. La particolare sensibilità di Albertini per i problemi delle comunità cittadine e della gestione comunitaria del territorio è testimoniata dal suo impegno nell’associazione Italia Nostra in qualità di Presidente della sezione pavese dal 1965 al 1971 e, dal dicembre 1972, di Vicepresidente nazionale. Va anche ricordato l’importante saggio su «La crisi dell’ordine urbano e il pensiero di Jane Jacobs» (Pavia, Il Federalista, 1984), ripubblicato in Il Federalista, XLVII (2005), n. 3.
[29] Mario Albertini, «L’utopia di Olivetti», in Mario Albertini, Nazionalismo e federalismo, cit., p. 111. L’edizione originale, in francese, è stata pubblicata in Le Fédéraliste, VII (1965), n. 2.
[30] Ibidem, p. 112.
[31] «In uno Stato federale, alla divisione tra governo federale e Stati federati corrisponde una divisione nella classe politica, nell’apparato elettorale, negli interessi sociali, …nei gruppi in cui questi interessi si organizzano. Ciò dà luogo a un equilibrio di poteri molto più saldo e ben ancorato nella società, che permette la coesistenza della libertà e dell’esecutivo unitario». Mario Albertini, «Il federalismo» (1962), cit., p. 106. L’equilibrio tra i poteri appare soprattutto evidente nel ruolo che in una federazione è assegnato al potere giudiziario (il più debole dei tre poteri), ruolo di ago della bilancia effettivo ed efficace, dato che dietro ogni decisione giudiziaria, nelle materie di carattere costituzionale, sono schierati o il governo federale o uno o più Stati federati.
Naturalmente, come vedremo, ciò vale nella misura in cui la situazione internazionale lo permette e, al limite, varrà pienamente per la Federazione mondiale.
[32] Il rapporto fra i vari livelli di governo per quanto riguarda la formazione della volontà generale è stato prefigurato da Albertini in un modello appena abbozzato di sistema elettorale: «…la formazione della volontà pubblica dovrebbe avvenire mediante un sistema elettorale proporzionale a cascata, cioè con elezioni successive e coordinate dal livello locale a quelli intermedi a quello generale, in modo che ogni gruppo umano prenda coscienza dei suoi problemi mentre dà forma alla sua volontà, e poi inserisca successivamente, con l’elezione sempre più allargata, questa conoscenza e questa volontà nella conoscenza generale e nella volontà generale… Ciò che è necessario è che a livello di elezioni di quartiere si dibattano i problemi del quartiere, a livello di elezione cittadina si dibattano i problemi della città, ma sulla base della conoscenza di quelli del quartiere, e così via a tutti gli altri livelli». Mario Albertini, «Discorso ai giovani federalisti», in Il Federalista, XX (1978), n. 2, p. 59.
[33] Mario Albertini, «Introduzione» a Immanuel Kant, La pace, la ragione e la storia, cit., p. 12.
[34] Mario Albertini, «Le ragioni del federalismo europeo» (1954), in Il Federalista, XXIII (1981), n. 2, pp. 121-122.
[35] Ibidem, p. 122.
[36] Mario Albertini, Il federalismo (1993), cit., p. 294, nota 6.
[37] Ibidem, pp. 285-286.
[38] «Tra il 1787 e il 1788, gli americani furono costretti a decidere del loro destino, perché la storia li mise di fronte ad una scelta assoluta. Di fronte a loro stava un nemico ben più insidioso degli stessi inglesi, perché era un nemico invisibile: la disgregazione dell’Unione. Non era in gioco ciò che viene normalmente chiamato politica, ma addirittura la possibilità di determinare, creando istituzioni vitali, la politica fondamentale di un popolo, dalla quale dipende se ciò che riceve usualmente il nome di politica, cioè la vicenda nel tempo del governo e dell’opposizione, debba svolgersi in chiave di progresso, e quindi di vita espansiva per gli uomini, oppure in chiave di stagnazione, quindi di vita decadente e subordinata» (Mario Albertini, «La federazione», in La politica e altri saggi, Milano, Giuffrè, 1963, pp. 51-52. Ripubblicato in Mario Albertini, Nazionalismo e federalismo, cit.).
[39] Mario Albertini, «Le radici storiche e culturali del federalismo europeo», in Mario Albertini, Andrea Chiti-Batelli, Giuseppe Petrilli, Storia del federalismo europeo, Torino, ERI, 1973, p. 79. Ripubblicato in Mario Albertini, Nazionalismo e federalismo, cit.
[40] Ibidem, pp. 79-81.
[41] Mario Albertini, «La strategia della lotta per l’Europa», in Giornale del Censimento, II (1966), n. 1-2. Ripubblicato in Mario Albertini, Una rivoluzione pacifica. Dalle nazioni all’Europa, Bologna, Il Mulino, 1999. La centralità della strategia in ogni battaglia politica, e soprattutto in una battaglia che voglia mutare l’ordine esistente, è stata spesso sottolineata da Albertini, che ha denunciato più volte l’inconsistenza e l’inefficacia di rivendicazioni, proclami o solenni affermazioni di principio che vogliono portare alla ribalta un fine senza occuparsi dei mezzi per raggiungerlo. Riguardo alla battaglia per la Federazione europea, presentare i vantaggi possibili della sua creazione, scriveva Albertini, non basta «per trasformare una idea in idea-forza… Non basta dire che una cosa è buona perché gli uomini la facciano. La cosa da affrontare è un’altra. Bisogna fare una analisi del moto delle forze reali, e vedere se è possibile organizzarne una parte in una lotta europea. Il problema non si riduce ad una analisi dei fini» (Lettera ad Andrea Chiti-Batelli del 30 novembre 1961).
[42] Mario Albertini, «A proposito del federalismo integrale di Proudhon», in L’integrazione europea e altri saggi, Pavia, Il Federalista, 1965, p. 134, nota 2. Nella stessa nota Albertini esamina il nesso fra la politica e il mutamento sociale: «La società muta con il cambiamento del comportamento di tutti i suoi membri. Si tratta di cambiamenti in cui ciascuno introduce un elemento nuovo, ma nel quale si riflette, per quanto riguarda la particolarità della sua azione, l’insieme delle particolarità delle azioni degli altri. Anche la politica è un anello di questa catena. Tant’è che mentre è certo che essa è una azione di pochi su molti, è anche vero che questi pochi si conformano più di ogni altro alle aspettative dei molti sui quali agiscono: nel senso dei loro vizi se si tratta di demagoghi, nel senso delle loro virtù se si tratta di autentici uomini di Stato. In effetti, come sa la saggezza popolare, e come sa chi ha vera esperienza della politica, non si acquista potere se non nella misura in cui si piega la propria condotta ai bisogni e alle aspirazioni degli altri», ossia della società. Naturalmente quest’ultima affermazione, per quanto riguarda la lotta per creare un nuovo quadro di potere in Europa è necessaria ma non sufficiente: il politico rivoluzionario ha il compito di introdurre il nuovo, e dunque di prendere atto della realtà, ma anche, a partire da questa, di superarla.
[43] Mario Albertini, «Il federalismo» (1962), cit., p. 110.
[44] Mario Albertini, «La strategia della lotta per l’Europa», cit.
[45] Francesco Rossolillo, «Note sulla coscienza rivoluzionaria», in Il Politico, 1970, n. 2, p. 323.
[46] Mario Albertini, «Quale Europa», in Giornale del Censimento, I (dicembre 1965), n. 5.
[47] Mario Albertini, «La crisi di orientamento politico del federalismo europeo», in Il Federalista, III (1961), n. 4, p. 227. Ripubblicato in Mario Albertini, Una rivoluzione pacifica, cit.
[48] Il giudizio sulla concezione «evoluzionistica» del processo di unificazione europea — la quale si distingue dalla concezione strategica gradualistica, che, come vedremo, sarà sviluppata nella seconda metà degli anni ‘60 — è precisato in alcuni scritti di Albertini del 1961. Dopo aver negato che le Comunità (che egli definisce pseudocomunità) possano evolvere fino a diventare organi del governo federale, distinguendo il piano strategico dal piano storico, così prosegue: «Naturalmente questo discorso vale solo sinché si considera l’azione volontaria. In un quadro più ampio, dove compaiano anche fattori extra-volontari (le determinazioni storiche), le pseudocomunità, come ogni mezzo confederale, sono il segno che il processo politico, economico-istituzionale ecc. tende a fuoruscire dai confini degli Stati, ed in questo senso si può dire che si tratta di tappe in un processo dal nazionale all’europeo. Ma in questo contesto la rappresentazione è dialettica, e l’evoluzione si svolge come scontro e soluzione di posizioni diverse, nell’ipotesi la confederale e la federale» (cfr. «Una lettera di Merlini a proposito di ‘Quattro banalità…’», in Il Federalista, III, 1961, n. 3, p. 192, nota 3). I singoli governi europei, a causa di ciò che Albertini chiama «eclissi di fatto delle sovranità nazionali», non sono più in grado di fare le scelte politiche fondamentali relative al destino dei loro cittadini, e ciò dà luogo a una unità europea di fatto, non irreversibile, che si manifesta nelle sue sovrastrutture giuridiche: le Comunità europee. Ma sarebbe un grave errore lasciarsi condizionare dal mito dell’integrazione europea, «una falsa idea di movimento che maschera l’immobilità», che scambia «l’effetto — la politica confederale dei governi — per la causa, e la causa — l’unità europea di fatto — per l’effetto» (cfr. «Rapporto presentato al IX Congresso Mfe», in Informations de Le Fédéraliste, gennaio 1962, e, in francese, in Le Fédéraliste, IV, 1962, n. 1, p. 61).
[49] Mario Albertini, «La strategia della lotta per l’Europa», cit.
[50] Mario Albertini, «Il significato politico del disegno di legge», Supplemento al n. 2 di Le Fédéraliste, XI (1969), p. 119. Ripubblicato in Mario Albertini, Una rivoluzione pacifica, cit.
[51] Mario Albertini, «L’aspetto strategico della nostra lotta», in L’Unità europea, marzo 1991. Ripubblicato in Mario Albertini, Una rivoluzione pacifica, cit.
[52] In MFE, Atti del XIV Congresso, Roma, 2-5 marzo 1989, pp. 17-18.
[53] Mario Albertini, «L’organizzazione e il nuovo modo di fare politica», in Una rivoluzione pacifica, cit., p. 464.
[54] Mario Albertini, «Una discussione sulla possibilità di fondare la Federazione europea», in Giornale del Censimento, II (settembre-ottobre 1966), n. 9-10. In questo stesso testo Albertini distingue il concetto di piano inclinato da quello dell’ineluttabilità dell’integrazione europea, che si può solo sostenere come tendenza storica se si crede: «a) che il modo di produrre sia il fenomeno storico primario, al quale si collegano le dimensioni e il carattere degli altri fatti sociali, b) che il modo di produrre stia acquistando, e imponendo in tutti i settori della vita sociale, una dimensione molto più larga di quella delle nazioni tradizionali». Ma riconoscere ciò non significa «assegnare tempi o modi storici allo svolgimento della tendenza», né serve a giudicare situazioni particolari in funzione strategica.
[55] Mario Albertini, «La Comunità europea, evoluzione federale o involuzione diplomatica?», in Il Federalista, XXI (1979), n. 3, p. 173. Ripubblicato in Mario Albertini, Una rivoluzione pacifica, cit.
[56] Il concetto di leadership occasionale nella fase finale del processo di unificazione, quella della decisione di creare lo Stato europeo, è stato in realtà applicato, teoricamente e praticamente, anche a fasi intermedie del processo, in cui l’obiettivo strategico, sulla base del gradualismo costituzionale, era solo una tappa. A questo proposito è illuminante il testo del Rapporto di Francesco Rossolillo, sul Piano Spinelli di riforma della Comunità, alla prima Commissione del Congresso UEF tenutosi a Milano nel dicembre 1982, in cui, tra l’altro, il Consiglio dei ministri è indicato come l’ostacolo da aggirare «senza per questo evitare il passaggio obbligato dell’adesione dei governi degli Stati membri… La convinzione infatti che il progetto del Parlamento non sarebbe mai accettato dal Consiglio non implica che si debba attribuire ai governi degli Stati membri in quanto tali un atteggiamento strutturalmente contrario alla riforma istituzionale. Si può al contrario ritenere che, sottoposti a pressioni appropriate e in circostanze opportune, essi potrebbero aderire al progetto del Parlamento. Ciò che sarebbe invece utopistico pensare è che essi possano farlo contemporaneamente, all’unanimità e nell’irresponsabilità di una deliberazione segreta. Dunque, mentre è impensabile che il Consiglio si trovi d’accordo nell’approvare il progetto del Parlamento nella forma in cui esso lo elaborerà, è perfettamente possibile che si trovi un governo disposto a compiere per primo il gesto di adottarlo [leadership occasionale]. Una volta fatto il primo passo, diverrebbe più facile fare il secondo, il terzo ecc…». Così «i federalisti si troverebbero di fronte degli interlocutori ben identificati e responsabili, sui quali potrebbero fare pressione, il che non accadrebbe se del progetto fosse investito il Consiglio, che è un interlocutore inafferrabile, in seno al quale è fin troppo facile scaricare sugli altri partner la responsabilità degli insuccessi» (Francesco Rossolillo, «La strategia della lotta per la riforma istituzionale della Comunità», in Il Federalista, XXIV (1982), n. 3, pp. 212-213). Sull’efficacia della leadership europea occasionale non c’è certezza: i governi, spinti da una situazione di fatto e dall’iniziativa dei federalisti nella direzione della rinuncia alla sovranità, di fronte a questa soluzione, la vera soluzione, non necessariamente prendono la decisione di creare il nuovo potere europeo. In questo caso i federalisti devono mantenere il massimo di lucidità, denunciando e rifiutando le soluzioni di compromesso, e il massimo di autonomia, sganciandosi da coloro (la classe politica e di governo) a cui si erano uniti nel perseguimento dell’obiettivo strategico, e ricominciando a tessere la tela per una nuova iniziativa.
[57] Mario Albertini, «L’Europa degli Stati, l’Europa del Mercato comune e l’Europa del popolo federale europeo», in Le Fédéraliste, IV (1962), n. 2, p. 193. La versione italiana è stata rinvenuta dattiloscritta.
[58] Mario Albertini, Lettera ad Altiero Spinelli, 25 agosto 1956.
[59] Mario Albertini, «Rapporto presentato al IX Congresso MFE», in Informations de Le Fédéraliste, gennaio 1962. In francese in Le Fédéraliste, IV (1962), n. 1, p. 63.
[60] Francesco Rossolillo, «Appunti sulla sovranità», in Il Federalista, XLIII (2001), n. 3, p. 171.
[61] Ibidem, nota 13, p. 196. Naturalmente queste affermazioni non escludono il fatto che la nascita di uno Stato nuovo ha implicazioni di potere.
[62] Ibidem, pp. 170-171.
[63] In una lettera a Spinelli del 6 settembre 1953 si legge: «Se posso permettermi un rilievo personale, relativo ad una tesi che è il mio chiodo fisso, penso di poter dire che il quadro moderno dell’azione politica purtroppo non garantisce il successo alle esatte linee politiche, come vorrebbe una ortodossa ma astratta concezione della democrazia, ma soltanto a quelle che uniscano ad una funzionalità logica una espansiva vitalità organizzativa».
[64] Nell’ottobre 1955 Albertini divenne responsabile della Commissione centrale quadri, che fu sciolta nel maggio 1956 per mancanza di fondi. Non cessò tuttavia l’intensa attività di Albertini su questo fronte attraverso conferenze e scuole-quadri tenute in varie sezioni del MFE, soprattutto nel Nord Italia.
[65] Mario Albertini, Lettera a Gianmario Rossi, 30 agosto 1956.
[66] Mario Albertini, Lettera ad Altiero Spinelli, 7 febbraio 1957, e Lettera ad Altiero Spinelli, 21 settembre 1961.
[67] Mario Albertini, «Esame tecnico della lotta per l’Europa», in Il Federalista, I (1959), n. 2, pp. 95 e 100. Ripubblicato in Mario Albertini, Una rivoluzione pacifica, cit.
[68] Mario Albertini, «La strategia della lotta per l’Europa», cit.
[69] Francesco Rossolillo, «Il rivoluzionario», in Il Federalista, XLVII (2005), n. 1, p. 17.
[70] Mario Albertini, Lettera ad Altiero Spinelli, 7 febbraio 1957.
[71] Mario Albertini, Lettera a Bernard Lesfargues, 18 aprile 1964.
[72] Mario Albertini, «L’Europa dopo Londra», articolo inviato alla rivista Occidente il 22 novembre 1954 e non pubblicato.
[73] Mario Albertini, Lo Stato-nazione contro la democrazia, relazione a uno stage di formazione dei militanti (Stresa, 15-22 luglio 1956).
[74] Mario Albertini, Relazione al convegno di Brescia (24 ottobre 1954).
[75] Il meccanismo del CPE consisteva nell’organizzazione di elezioni primarie attraverso seggi all’aperto per la scelta dei rappresentanti del popolo europeo che si sarebbero riuniti in Congresso permanente al fine di rivendicare l’Assemblea costituente europea. La decisione definitiva sulla campagna venne presa al Comitato centrale dell’UEF del 12 maggio 1955.
[76] Mario Albertini, «Significato del V Congresso internazionale dell’Unione europea dei federalisti», in La Provincia pavese, 16 marzo 1955. Sulla base di queste considerazioni i federalisti apprestarono gli strumenti del confronto coi poteri nazionali attraverso l’elaborazione di un progetto di Trattato (il Patto federale) per la creazione degli Stati Uniti d’Europa e per la convocazione di una Costituente europea, progetto che fu elaborato da una Commissione ad hoc eletta dal Congresso del popolo europeo a Torino nel dicembre 1958.
[77] Mario Albertini, «Esame tecnico della lotta per l’Europa», cit., pp. 109-111.
[78] Mario Albertini, «Il IX Congresso del MFE, Lione, 9-11 febbraio 1962», in Le Fédéraliste, IV (1962), n. 1, p. 30, nota 1. La versione italiana è stata rinvenuta dattiloscritta.
[79] MarioAlbertini, «Una lettera di Merlini a proposito di ‘Quattro banalità…’», cit., pp. 191-192.
[80] Mario Albertini, Lettera ad Andrea Chiti-Batelli, 29 ottobre 1962. Spinelli proponeva di allearsi con «le forze del progresso democratico» e di partecipare alle elezioni politiche nazionali in tre città.
[81] Mario Albertini, Lettera a Sante Granelli, 23 febbraio 1961.
[82] Mario Albertini, Lettera a Gianni Merlini, 24 marzo 1962. Che la decisione di combattere Spinelli fosse frutto di un lucido, anche se moralmente difficile, esame della situazione, e non di una contrapposizione personale, è dimostrato dal fatto che, di fronte alla proposta fattagli da Spinelli nel 1958 di succedergli alla Segreteria del MFE, Albertini gli rispose che la sua (di Spinelli) stagione non era ancora finita: «Aver capito la tua opera, gli scriveva in una lettera del 4 agosto 1958, ed essere chiamato da te a continuarla, è cosa che segna profondamente… Ma oggi solo tu puoi continuarla; io posso e devo, affiancandoti, comprenderla e dare un contributo subordinato, anche proprio per riuscire a continuarla da solo quando venisse davvero il momento». D’altra parte, quando Spinelli ritornò ad essere un punto di riferimento per la lotta federalista, con il progetto di Trattato che riuscì a far approvare dal Parlamento europeo nel 1984, Albertini fu il primo ad appoggiare l’operazione e a riallacciare i rapporti con lui, così come, alla sua morte, ne delineò la figura, definendolo «eroe della ragione», in termini che dimostrano la grande considerazione che ebbe per lui, al di là dei contingenti contrasti politici.
[83] Mario Albertini, Lettera ad Andrea Chiti-Batelli, 5 gennaio 1962, in cui, fra l’altro, è affrontato il modo ampio il «caso Spinelli».
[84] Nel 1956 i federalisti tedeschi e olandesi si staccarono dall’Unione europea dei federalisti e diedero vita, con il Movimento La Fédération, all’Action européenne fédéraliste (AEF). Nel 1959 i federalisti italiani e francesi, con piccoli gruppi di altri paesi, diedero vita al Movimento federalista europeo sovranazionale. Scomparvero i Movimenti nazionali, l’Europa venne divisa in regioni, con tesseramento unico, e si crearono le Commissioni nazionali. Questa scissione venne superata nel 1972 con la ricostituzione dell’UEF.
[85] Al Comitato centrale di Parigi del giugno 1962 Spinelli annunciò che dal settembre non avrebbe più potuto partecipare con continuità all’azione del MFE, dimettendosi dal Bureau exécutif, e il 9 settembre si dimise da Segretario della Commissione italiana.
[86] Mario Albertini, «La crisi di orientamento», cit., pp. 233-236.
[87] Ibidem, p. 237, nota 6.
[88] Mario Albertini, «L’azione-quadro per il federalismo europeo», in Informations de Le Fédéraliste, luglio 1962 (parte di «La politique de la minorité du MFE», in Le Fédéraliste, IV, 1962, n. 3).
[89] Mario Albertini, «Presentazione ufficiale della campagna», in Autonomie fédéraliste. Informations, ottobre 1963. In francese in Le Fédéraliste, V (1963), n. 2.
[90] Mario Albertini, Rapporti del Censimento con le organizzazioni nazionali, dattiloscritto non datato, ma del 1963.
[91] Mario Albertini, Lettera ad Andrea Chiti-Batelli, 4 agosto 1964.
[92] Mario Albertini, Lettera a Dietrich Gruber, 20 aprile 1964.
[93] Mario Albertini, Lettera a Jean-Pierre Gouzy, 26 novembre 1964. Questa politica, proposta dalla mozione Rifflet al Congresso di Montreux dell’aprile 1964, mirava alla creazione di Comitati di iniziativa federalista per la formazione di un Fronte democratico europeo per una Federazione europea, composto da tutte le forze di rinnovamento democratico.
[94] Mario Albertini, Lettera a Hirsch, Marc, Desboeuf, Orban, Serafini, Rifflet, Giarini, Moriquand, Gouzy, Rossolillo, Gruber, Kinsky, Pariso, 20 aprile 1965.
[95] Mario Albertini, «Un piano d’azione a medio termine», in Federalismo europeo, I (settembre-ottobre 1967), n. 7-8. Ripubblicato in Mario Albertini, Una rivoluzione pacifica, cit.
[96] Mario Albertini, «Un piano d’azione a medio termine», cit.
[97] Ibidem.
[98] Ibidem.
[99] E così prosegue: «Il dato di fatto è questo: là dove gli economisti e gli studiosi di fenomeni monetari vedono un mezzo (la moneta) e le condotte umane in funzione delle caratteristiche economiche, date o progettabili, del mezzo, gli studiosi di politica dovrebbero vedere una relazione umana complessa, un insieme di scambi di comportamenti e di comportamenti complementari nei quali si manifesta sempre il fatto del potere… In ultima istanza, ciò significa disporre di un insieme di termini logici cruciali capaci di mettere in evidenza… gli aspetti di potere della moneta… I governi della Comunità hanno deciso ufficialmente di realizzare l’unione monetaria nel corso dei prossimi dieci anni. Si tratta dunque di risolvere anche gli aspetti politici del problema, per oscuri che siano» (Mario Albertini, «Il problema monetario e il problema politico europeo», in Studi in onore di Carlo Emilio Ferri, Milano, 1973. Ripubblicato in Mario Albertini, Una rivoluzione pacifica, cit., pp. 173-174).
[100] Ibidem, p. 182.
[101] Parallelamente alla battaglia per la moneta europea i federalisti impostarono un’azione mirante a dar vita all’Unione politica attraverso un referendum in Italia che rivendicava un governo europeo e l’attribuzione del mandato costituente al Parlamento europeo. Il referendum, ottenuto grazie ad una legge di iniziativa popolare, si tenne nel giugno del 1989, insieme alle elezioni europee, e raccolse un vastissimo consenso (a favore dell’attribuzione del mandato costituente al Parlamento europeo si espresse l’88,1% dei votanti).
[102] Mario Albertini, «Moneta europea e unione politica», in L’Unità europea, dicembre 1990. Ripubblicato in Mario Albertini, Una rivoluzione pacifica, cit.
[103] Mario Albertini, «L’ago della bilancia è la moneta», in L’Unità europea, settembre 1990. Ripubblicato in Mario Albertini, Una rivoluzione pacifica, cit.
[104] Mario Albertini, «L’aspetto strategico della nostra lotta», cit. Uno dei punti di riferimento della proposta dell’istituzione di un governo della sfera economico-monetaria era il progetto di Trattato di Spinelli approvato dal Parlamento europeo nel 1984.
[105] Mario Albertini, «Verso un governo mondiale», in Il Federalista, XXVI (1984), n. 1, p. 6. Ripubblicato in Mario Albertini, Nazionalismo e federalismo, cit.
[106] Mario Albertini, «Il problema della sicurezza nell’era nucleare», in Il Federalista, XXX (1988), n. 1, pp. 4 e 5. Ripubblicato in Mario Albertini, Nazionalismo e federalismo, cit.

 

 

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