IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XLV, 2003, Numero 1, Pagina 11

 

 

Alle radici del dibattito costituente europeo:
progetti, aspirazioni, sconfitte
 
DANIELA PREDA
 
 
I primi progetti di Costituzione europea risalgono alla seconda guerra mondiale e, in particolare, agli ambienti legati alla Resistenza.[1] Tra i documenti elaborati in quegli anni, i più completi sotto l’aspetto costituzionale sono il Progetto di costituzione federale europea e interna, elaborato tra l’autunno del ‘42 e l’8 settembre 1943 da Duccio Galimberti e Antonino Repaci;[2] il Projet d’une constitution fédérale pour l’Europe, formulato tra il ‘43 e il ‘44 dalla Commissione giuridica della Conferenza paneurope;[3]il Rough Draft of a Proposed Constitution for a Federation of Western Europe di W. Ivor Jennings;[4] la Draft Constitution for the United States of Europe, redatta tra il ‘41 e il ‘42 dal Comitato Costituzionale dell’Europa Union Schweitz;[5] lo Schema di Costituzione dell’Unione federale europea steso da Mario Alberto Rollier nel 1944.[6]
Furono accolti nell’indifferenza, voli pindarici di cui sorridere, mere esercitazioni accademiche di utopisti dell’età contemporanea.
Il nuovo conflitto mondiale provocò tuttavia una diffusione capillare degli ideali unitari: organizzazioni e Movimenti per l’unione fiorirono endemicamente in vari paesi europei, risoluzioni favorevoli all’unità europea vennero presentate a numerosi parlamenti e adottate da alcuni, la questione fu discussa da uomini politici e opinione pubblica.
Dopo la profonda svolta determinata dal Piano Marshall e il prudente avvio del processo di unificazione, le iniziative a favore della convocazione di una Costituente europea si fecero più audaci e, nel contempo, concrete. Emergeva una volontà diffusa di dar voce a un desiderio di unità politica che trascendeva le singole, timide, realizzazioni sul piano dell’integrazione settoriale.
Se il sentimento europeo era ormai diffuso, ci si chiedeva tuttavia quale fosse la strategia da adottare, quale il modello d’Europa a cui tendere. Era la federazione, sull’esempio americano e svizzero, oppure la confederazione, oppure ancora una cooperazione istituzionalizzata tra gli Stati, magari a partire da alcune competenze settoriali? Il problema non concerneva solo l’obiettivo, ma anche il metodo per conseguirlo. E’ vero che l’unico, riconosciuto metodo democratico di creazione di uno Stato nuovo era quello costituente. La sua applicazione risultava tuttavia quantomeno problematica nell’Europa degli Stati sovrani.
La via all’Europa scelta dai governi alle soglie degli anni Cinquanta fu il funzionalismo, la teoria dei passi lenti e graduali. L’integrazione per settori non avrebbe impedito tuttavia che l’approccio costituente si affermasse gradualmente a partire dagli ambienti europei più avanzati. Ne avrebbe anzi favorito in certo qual modo la diffusione, palesando le lacune politico-istituzionali sempre più gravi che accompagnavano l’approfondirsi dell’integrazione e il moltiplicarsi dei trasferimenti di competenze. La federazione rappresentava d’altronde anche per Monnet la tappa finale del processo di unificazione europea, che avrebbe dovuto consistere in un progressivo ampliamento di funzioni da devolvere a istituzioni di carattere sovranazionale. Il problema era: cosa avrebbe fatto scoccare la scintilla? Dove e come avviare il processo?
Il tema della Costituente era destinato a svilupparsi in stretta connessione con la nascita della Comunità. Tra l’autunno del ‘51 e l’inverno del ‘52, a mano a mano che la CECA diventava una realtà e i negoziati per la CED si avviavano alla conclusione, si affermava una forte corrente d’opinione favorevole alla creazione di una Comunità politica europea. Il processo funzionalista, per settori, appena avviato, lasciava intravedere profonde contraddizioni e nel suo approfondirsi forniva argomenti sempre più validi alla lotta per l’unità europea. Come, in special modo, costruire un esercito comune che non fosse una semplice giustapposizione di eserciti nazionali, in assenza di quello Stato federale al cui servizio esso avrebbe dovuto porsi? Come demandarne la creazione a un’Autorità specializzata, dal momento che l’unificazione dell’esercito coinvolgeva altri importanti settori della vita pubblica, quali la politica estera e il bilancio? E ancora: queste Autorità specializzate avrebbero potuto rimanere isolate, divise l’una dall’altra, prive di qualsiasi legame, senza correre il rischio di creare confusione e soprattutto di rivelarsi inefficaci? Poteva, in definitiva, la CED precedere la fondazione costituzionale di uno Stato europeo? Queste le domande che legittimamente si poneva Spinelli in un memorandum inviato a De Gasperi nell’agosto 1951.[7] Giunta a un campo così delicato come quello della difesa, l’integrazione funzionalista poneva prepotentemente sul tappeto il problema dell’unificazione politica, creando le premesse per il passaggio senza soluzione di continuità all’approccio costituzionalista.
L’iniziativa del Presidente del Consiglio italiano, Alcide De Gasperi, riusciva a far inserire nel progetto di trattato della CED un articolo — l’art. 38 — che affidava all’Assemblea provvisoria della CED il compito di elaborare un progetto di Statuto della Comunità politica europea, definendo nel contempo i principi ai quali l’Assemblea avrebbe dovuto ispirarsi nel corso dei suoi studi: «l’organisation de caractère définitif qui prendra la place de la présente organisation provisoire— recitava l’articolo — devrait avoir une structure fédérale ou confédérale. Elle devra comprendre notamment une Assemblée bicamérale et un pouvoir exécutif».[8]
Poiché i tempi si prospettavano piuttosto lunghi e il successo dell’iniziativa dipendeva molto dalla rapidità della sua esecuzione, nella primavera del ‘52, le forze favorevoli all’Europa valutarono la possibilità di anticipare la convocazione dell’Assemblea Costituente. In maggio, Spaak, che si era precedentemente concertato con Jean Monnet, proponeva che il compito di redigere il progetto di Costituzione europea previsto dall’art. 38 fosse affidato all’Assemblea della CECA (opportunamente allargata in modo da renderla coincidente con quella della CED), di cui era imminente la convocazione dal momento che le ratifiche del Piano Schuman stavano per essere ultimate. La proposta di anticipare la convocazione dell’Assemblea incontrava immediatamente autorevoli adesioni sino a sfociare in un’iniziativa governativa franco-italiana che veniva discussa e approvata, il 9 settembre, dai sei Ministri degli Esteri della CECA, riuniti a Lussemburgo. Il 10, Adenauer chiedeva formalmente all’Assemblea della CECA, nel giorno stesso del suo insediamento, che assumesse l’incarico di elaborare un progetto di Statuto della Comunità politica europea. Tre giorni più tardi, l’Assemblea accoglieva favorevolmente la richiesta dei governi e si metteva al lavoro, assumendo la denominazione di Assemblea ad hoc. Nell’arco di pochi mesi, dunque, la Costituente europea era diventata una realtà e l’Europa si trovò, seppur per un lasso di tempo estremamente breve, sulla soglia dell’Unione.
Nell’arco di pochi mesi, dunque, la Costituente era diventata una realtà. Ciò che fino a poco prima era apparso utopistico appariva ora non solo politicamente realizzabile, ma addirittura urgente. Occorreva ormai prepararsi speditamente ai nuovi compiti e, tra questi, il più arduo era certamente quello di creare un’Autorità politica sovranazionale, unendo non tredici ex-colonie britanniche o un pugno di cantoni, come nel caso dell’esperienza statunitense e svizzera, ma i grandi Stati nazionali sovrani della storia contemporanea. Così, mentre il progetto avanzava a livello governativo, i Movimenti si attivavano non solo per condurre in porto l’iniziativa, ma soprattutto per prepararsi ad affrontare le nuove sfide, proponendosi come validi ispiratori dell’azione dei governi.
Nel marzo 1952, veniva creato un Comitato di Studi per la Costituzione europea (CECE), animato da Altiero Spinelli, di cui Paul-Henri Spaak assumeva la presidenza e Fernand Dehousse la segreteria. L’obiettivo era quello di studiare i problemi posti dall’unificazione politica dell’Europa e redigere un progetto di Costituzione europea che, per la novità della questione e la brevità del tempo a disposizione, avrebbe dovuto costituire un importante supporto ai lavori dell’Assemblea costituente «ufficiale». I risultati raggiunti dal CECE, cui aveva collaborato un’équipe di esperti della Harvard University guidati da Karl Friedrich e da Robert R. Bowie,[9] furono pubblicati, sotto forma di nove risoluzioni, nel novembre 1952.[10] Nello stesso mese vennero pubblicati anche i Travaux préparatoires, che contenevano i verbali dei lavori del Comitato.[11] Lo stretto collegamento tra gli studi del CECE e i lavori dell’Assemblea ad hoc risulta evidente ove si pensi al fatto che Paul-Henri Spaak era presidente sia del CECE che dell’Assemblea ad hoc; Fernand Dehousse era segretario del CECE e relatore della sottocommissione per le Istituzioni politiche[12] dell’Assemblea ad hoc (presieduta da Paul-Henri Teitgen), oltre che membro del Groupe de Travail di questa; Lodovico Benvenuti era membro autorevole del CECE e relatore della sottocommissione delle Attribuzioni nell’Assemblea ad hoc, presieduta dall’olandese Blaisse.
L’Assemblea ad hoc si metteva immediatamente al lavoro sotto la presidenza di Paul-Henri Spaak. Sei mesi più tardi, entro il termine prescritto del 10 marzo 1953, il progetto di Statuto della Comunità politica europea era approvato all’unanimità tranne cinque astensioni. Si trattava di un testo imponente, che constava di un preambolo e di 117 articoli divisi in sei titoli — la Comunità europea (art. 1-8), le sue istituzioni (art. 9-54), le sue attribuzioni (art. 55-89), l’associazione (art. 90-93); disposizioni transitorie (art. 94-99), disposizioni generali (art. 100-117) — e due protocolli — il protocollo sui privilegi e le immunità della Comunità e quello sui legami con il Consiglio d’Europa.
Pur non avendo carattere decisamente federalista, il progetto proponeva soluzioni molto avanzate. La Comunità aveva carattere sovranazionale ed era dichiarata indissolubile, godeva di personalità giuridica e costituiva un’unica entità con la CECA e con la CED, esercitava i poteri conferitile dallo Statuto o da Atti ulteriori, in collaborazione stretta con le organizzazioni nazionali — attraverso i governi di queste — e con le organizzazioni internazionali che avessero scopi analoghi ai suoi. L’esercizio delle sue competenze era affidato a cinque istituzioni: il Parlamento, il Consiglio esecutivo europeo, il Consiglio dei ministri nazionali, la Corte, il Consiglio economico e sociale.
Il Parlamento aveva il potere di votare leggi e bilanci — oltre alla possibilità di sottoporre agli altri organi raccomandazioni e proposte — e di esercitare le funzioni di controllo conferitegli dallo Statuto. Con il Consiglio esecutivo, divideva il potere d’iniziativa in campo legislativo. Comprendeva due Camere con uguali attribuzioni: la prima Camera, o Camera dei Popoli, formata da deputati che rappresentavano la globalità dei popoli della Comunità, e la seconda Camera, o Senato, costituita da senatori che rappresentavano il popolo di ciascuno Stato. Gli uni e gli altri votavano individualmente, senza sottostare ad alcun mandato imperativo. I deputati erano eletti per cinque anni a suffragio universale e diretto. Una legge della Comunità avrebbe provveduto a fissare i principi del sistema elettorale. I senatori erano eletti, anch’essi per cinque anni, dai parlamenti nazionali, seguendo la procedura fissata dai singoli Stati membri. Quanto alla ripartizione dei seggi, sia per la Camera che per il Senato era previsto un sistema ponderato. Per la prima, venivano fissati un numero di deputati minimo — 12 — e uno massimo — 70—, una rappresentanza uguale per i tre «grandi», salvo un numero, peraltro simbolico, di 7 seggi supplementari concesso alla Francia per offrire la rappresentanza ai suoi Territori d’Oltremare, e una rappresentanza uguale per Paesi Bassi e Belgio; per il secondo, era assegnato a ciascun paese il seguente numero di membri: 21 per Francia, Germania e Italia; 10 per Paesi Bassi e Belgio; 4 per il Lussemburgo.
Il Consiglio esecutivo esercitava funzioni di governo. Il suo presidente, che rappresentava la Comunità all’estero, era eletto dal Senato a maggioranza assoluta e nominava a sua volta gli altri membri del Consiglio (non più di due della medesima nazionalità). Doveva dimettersi con tutto il Consiglio se censurato dalla Camera dei Popoli alla maggioranza di tre quinti o colpito dal voto di sfiducia del Senato. Nel secondo caso, la clausola del voto di fiducia «costruttivo» costringeva i presentatori della mozione di sfiducia a indicare contestualmente il nuovo presidente. Il Consiglio esecutivo esercitava le funzioni governative previste per l’Alta Autorità e per il Commissariato dai rispettivi trattati e tutte le funzioni governative previste dallo Statuto e dalle leggi della Comunità. Poteva prendere decisioni (obbligatorie), formulare raccomandazioni (obbligatorie quanto allo scopo, ma non ai mezzi per perseguirlo) o emettere pareri (non vincolanti).
Il Consiglio dei ministri aveva l’obiettivo d’armonizzare l’azione del Consiglio esecutivo europeo e quella dei singoli governi degli Stati membri. Era formato dai rappresentanti dei governi (uno per ogni Stato) che, a turno, per una durata di tre mesi, ne esercitavano la presidenza. Dava il proprio parere conforme a maggioranza qualificata o, nei casi più importanti, all’unanimità per tutti gli atti dell’Alta Autorità e del Commissariato previsti dai rispettivi Trattati della CECA e della CED. La Corte, unica — composta da un massimo di 15 membri scelti su una doppia lista del Consiglio esecutivo con l’approvazione del Senato, nominati per 9 anni e rieleggibili — assicurava il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dello Statuto, delle leggi comunitarie e dei regolamenti d’esecuzione e poteva anche essere investita di funzioni d’arbitrato.
Il Consiglio economico e sociale, infine, la cui composizione, competenza e funzionamento erano regolati da una legge comunitaria, esercitava funzioni consultive presso Consiglio esecutivo e Parlamento.
Alle istituzioni della Comunità erano trasferite le competenze della CECA e della CED, così come erano affidate altre competenze. In tema di relazioni internazionali, la Comunità poteva concludere trattati e accordi internazionali o aderirvi nei limiti delle competenze ad essa attribuite, inviare o ricevere ambasciatori, assicurare il coordinamento della politica estera degli Stati membri. In tema di finanze, l’Assemblea decideva di dare alla Comunità il potere d’imporre tributi ai cittadini e agli Stati membri, di acquistare e vendere beni mobili e immobili, di contrarre prestiti (previa approvazione del Parlamento). I contributi degli Stati erano fissati dal Consiglio dei ministri, all’unanimità, su proposta del Consiglio esecutivo. Le modalità per fissare basi d’imposta, tassi e condizioni di esazione delle imposte dirette dovevano essere oggetto di progetti elaborati dal Consiglio esecutivo, e sottoposti al Parlamento per l’approvazione. Il bilancio comunitario, proposto dal Consiglio esecutivo, era votato annualmente dal Parlamento. Alla Comunità era inoltre affidato il compito di realizzare progressivamente un mercato comune, cioè la libera circolazione di merci, servizi, persone, capitali. La Comunità aveva poi altri poteri: quello di assistere gli Stati membri, su richiesta di questi o di propria iniziativa, per assicurare il rispetto delle libertà democratiche; di costituirsi un proprio apparato amministrativo indipendente da quello degli Stati membri.
Il progetto di Statuto dell’Assemblea ad hoc passava da quel momento all’attenzione dei governi. Ma il destino della Comunità politica — che non poteva non risentire delle altalenanti vicende della CED — diventava nebuloso. Dopo mesi di tergiversazioni e numerose conferenze al Vertice (a Strasburgo, il 9 marzo; a Parigi, il 12 maggio; ancora a Parigi, il 22 giugno; a Baden Baden il 7 agosto), i ministri rimettevano il progetto a una Conferenza di esperti (Roma, 22 settembre - 9 ottobre), i quali non avevano né la competenza né il potere per redigere una Costituzione europea. Lo Statuto veniva largamente rimaneggiato e perdeva via via i suoi caratteri federali. All’Aja, il 20 novembre, i ministri, ormai consapevoli dell’impossibilità di ottenere risultati in un contesto storico che non spingeva più con urgenza verso l’unificazione, ma nel contempo desiderosi di non troncare bruscamente i lavori intrapresi e di non assumersi la responsabilità di un fallimento, decidevano di rinviare a una Commissione l’ulteriore approfondimento delle questioni relative alla Comunità politica. Mancava il coraggio di chiudere definitivamente con la Comunità politica. Le riunioni della Commissione si trascinavano stancamente finché, a fine giugno, si faceva strada l’idea di aggiornare i lavori «con la massima prudenza e senza rumore», semplicemente non fissando alcuna data per la ripresa delle discussioni dopo la pausa estiva. Con la caduta della CED, anche il progetto di Statuto della Comunità politica venne abbandonato sine die.
Al di là del suo insuccesso, tuttavia, è ragionevole affermare che nell’esperienza costituzionale della Comunità politica europea, innestatasi sul progetto funzionalista della CED, per la prima volta nel processo di unificazione europea le due parallele strategie di avvicinamento all’obiettivo dell’unità europea — funzionalismo e costituzionalismo — hanno trovato un punto d’incontro e di fusione e che proprio in virtù di questo fatto si sono creati i presupposti per quello che può essere definito il primo tentativo di creare uno Stato federale europeo.
 
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Nell’agosto del ‘54, il processo di unificazione subì una brusca frenata. Ma le aspettative e i bisogni concreti che avevano fatto da scenario all’avvio della costruzione comunitaria non vennero meno. I governi non avrebbero potuto rimanere a lungo sordi a questi richiami. Ciò contribuiva di fatto al «rilancio europeo» avviato a Messina nel giugno del ‘55. Non sarebbe spiegabile la rapidità con cui, il 25 marzo 1957, i governi apponevano la firma ai Trattati di Roma e, il 1° gennaio del ‘58, questi entravano in vigore se non si facesse riferimento all’esperienza della Comunità politica. Molti degli obiettivi che il trattato istitutivo della CEE indicava, auspicandone la realizzazione in un periodo transitorio di 12 anni, erano già stati proposti e studiati dall’Assemblea ad hoc e dalle successive conferenze dei sostituti dei ministri: la riduzione progressiva dei dazi doganali e dei contingenti all’importazione sino allo loro definitiva abolizione; la fissazione di una tariffa doganale esterna comune a tutti gli Stati membri; l’attuazione della libera circolazione di merci, capitali, persone; l’armonizzazione delle politiche economiche e sociali. Mentre, tuttavia, il progetto d’integrazione economica elaborato dall’Assemblea ad hoc costituiva un aspetto di un più generale disegno politico, con Messina il primo veniva completamente isolato e unito al secondo esclusivamente in una prospettiva storica.[13] In altri termini, se negli anni 1952-1954 integrazione in senso orizzontale e in senso verticale erano procedute parallelamente, a partire dal cosiddetto «rilancio europeo» il momento della convergenza poteva dirsi definitivamente chiuso, il rafforzamento politico veniva accantonato e la tendenza all’ampliamento delle competenze diventava predominante. Si privilegiava l’approccio funzionalista, nell’ipotesi che esso potesse condurre gradualmente, come ultima tappa, all’integrazione politica. L’istituzione degli organi sovranazionali era prevista non come meta prefissata né come premessa assiomatica, bensì come un’esigenza alla quale i governi dei sei paesi erano decisi a dare soddisfazione in quanto il meccanismo del Mercato comune lo avesse richiesto.
Il ritorno al potere di De Gaulle in Francia, nel maggio del ‘58, provocò l’emergere di un’altra strategia per la costruzione europea, di carattere strettamente confederale.[14] I primi successi del Mercato comune e la volontà europea di autonomia dagli Stati Uniti nel nuovo contesto della coesistenza competitiva ponevano il problema di estendere le competenze della Comunità alla politica estera e alla difesa. De Gaulle pensava che l’integrazione economica potesse essere inquadrata in un più ampio progetto politico, in cui gli Stati nazionali assumessero peso e responsabilità. Il 5 settembre 1960, nel corso di una conferenza stampa, egli lanciava il progetto di una vera e propria confederazione con incontri istituzionalizzati dei Capi di governo e un segretariato per predisporne le decisioni. Preconizzava anche un referendum popolare e prendeva l’iniziativa di convocare un Vertice dei Capi di Stato e di governo e dei Ministri degli Esteri della Comunità che a Parigi (10-11 febbraio 1961) e a Bad Godesberg (18 luglio) accettava il principio dell’unione politica, affidando a una Commissione presieduta da Christian Fouchet il compito di redigere una bozza di statuto. Un primo progetto di trattato che scaturì da questi lavori fu reso noto il 2 novembre 1961.[15] Le aspre critiche cui il progetto fu immediatamente sottoposto preludevano al suo fallimento. Dopo alcuni rimaneggiamenti, il 18 gennaio del ‘62, la Commissione presentava un secondo Piano Fouchet, non incontrando il consenso dei cinque partner della Francia, che presentarono a loro volta un controprogetto e una serie di nuovi piani (piano Segni 17 aprile 1962, piano Spaak 9 settembre 1963, piano Schroeder 4 novembre 1963, piano Saragat 29 novembre 1963).
Gli aspetti politici dell’integrazione erano destinati a esser messi da parte, anche nella loro forma intergovernativa, nell’illusione (ben esemplificata peraltro, a metà anni Sessanta, dalla figura e dall’azione del Presidente della Commissione europea, Walter Hallstein) che l’integrazione economica potesse fatalmente generare l’unificazione politica.
L’insuccesso dei tentativi di Unione economica e monetaria all’inizio degli anni Settanta giocò certamente un ruolo non irrilevante nel convincere il nuovo Presidente francese, Valéry Giscard d’Estaing, che occorreva percorrere altre strade. Da ciò la dichiarazione del Vertice di Parigi del 9-10 dicembre 1974, che richiedeva l’elezione a suffragio universale diretto del Parlamento europeo a partire dal 1978, riconoscendo il principio che questo dovesse essere associato alla costruzione dell’Unione europea. Questo impegno si accompagnava a due decisioni: rafforzare la cooperazione politica mediante la istituzionalizzazione degli incontri al Vertice (che presero il nome di Consiglio europeo) e la limitazione della prassi dell’unanimità nelle decisioni del Consiglio; affidare al premier belga Leo Tindemans l’incarico di elaborare entro il 1975 un Rapporto di sintesi sull’Unione europea, consultando «i governi e gli ambienti rappresentativi dell’opinione pubblica nella Comunità».[16] Per la prima volta si apriva un dibattito sull’Unione europea, con il coinvolgimento delle forze politiche e sociali.
Presentato al Consiglio europeo il 29 dicembre 1975, il Rapporto Tindemans era reso noto al pubblico il 6 gennaio dell’anno successivo. Esso non riusciva in alcun modo ad affrontare con incisività il tema dell’integrazione politica né tantomeno a rilanciare il processo costituente. Pur riconoscendo che l’elezione diretta del Parlamento europeo avrebbe comportato un rafforzamento dei poteri della Comunità, il Rapporto evitava infatti di prendere posizione sulle competenze — in particolar modo legislative — del Parlamento, limitandosi ad auspicare l’adozione di piccoli passi in un contesto generale contrassegnato da estrema prudenza.
Tra i timidi passi compiuti dai governi per uscire dalla crisi, tuttavia, passi che si muovevano per lo più nell’ambito del tradizionale approccio intergovernativo, l’elezione diretta del Parlamento europeo, la cui rilevanza appariva ad alcuni trascurabile dal momento che si trattava di eleggere un Parlamento privo di potere, sembrava a molti lo strumento adeguato per uscire dall’impasse. Un Parlamento eletto, infatti, godendo di quella legittimità che solo il voto può dare, avrebbe forse potuto permettersi di osare, proporre azioni nuove ed audaci. L’idea che il Parlamento eletto potesse accelerare la spinta all’Unione era diffusa sia tra i Movimenti sia tra gli uomini di governo. Willy Brandt, nel suo intervento al congresso organizzato a Bruxelles dal Movimento europeo nel 1976, invitava il Parlamento europeo a uscire allo scoperto, impegnandosi in una prova di forza dal momento che i governi non avrebbero presumibilmente servito l’Europa su un piatto d’argento. «Il Parlamento — affermava — deve essere ‘la voce dell’Europa’. (…) Esso dovrà dunque considerarsi come una assemblea costituente permanente dell’Europa».[17]
Proprio il Parlamento, sotto la spinta ancora una volta di Altiero Spinelli, avrebbe promosso iniziative di grande rilevanza per il processo di costruzione comunitaria, diventando in qualche modo il punto d’incontro di una possibile convergenza tra governi e Movimenti. Nonostante il sostanziale fallimento dell’iniziativa Tindemans, una volta eletto, il PE dimostrò immediatamente una certa vivacità, sfruttando a pieno i limitati poteri che gli erano conferiti: respingendo a fortissima maggioranza il bilancio comunitario, nel dicembre del ‘79; esprimendo regolarmente i propri pareri sulle proposte di regolamento e sulle direttive che la Commissione presentava al Consiglio; affrontando le grandi problematiche della politica comunitaria e internazionale; avanzando proposte sul funzionamento delle istituzioni della Comunità. Queste azioni erano però tutte destinate a rivelarsi inutili, non riuscendo a modificare la situazione dal punto di vista istituzionale e dimostrando apertamente la subalternità del Parlamento europeo rispetto agli altri organi comunitari.
Il punto focale erano le istituzioni. Di fronte alla necessità per l’Europa di affrontare unitariamente problemi quali sicurezza e difesa, libertà del commercio internazionale, stabilità monetaria, rapporti Nord-Sud, esisteva una realtà istituzionale povera, inadeguata, che si sostanziava di iniziative prese di volta in volta da questo o quel paese membro che riteneva di esprimere l’atteggiamento comune di tutti oppure di accordi intergovernativi faticosamente raggiunti nell’ambito della cooperazione politica e monetaria. Continuava a mancare alla Comunità un’adeguata ed efficace capacità d’azione e ciò perché inadeguato e inefficace — in quanto non sorretto dal consenso democratico — era il suo sistema decisionale. Al problema della trasformazione democratica della Comunità rispondeva una nuova iniziativa di Spinelli e dei Movimenti per l’unità europea.
Mentre anche l’iniziativa governativa di «rilancio» comunitario promossa dai ministri tedesco e italiano Genscher e Colombo si rivelava niente più che un’illusione,[18] i chiari limiti istituzionali che paralizzavano la Comunità, non permettendo al Parlamento di svolgere il suo ruolo di controllo, confermavano in Altiero Spinelli l’idea di lanciare un appello ai parlamentari europei per un’iniziativa costituente, cui egli accennava per la prima volta il 21 maggio 1980 in un importante intervento a Strasburgo. Il 25 giugno, come noto, dando immediatamente seguito alla prima intuizione, inviava ai colleghi una lettera in cui, proponendo di lottare fianco a fianco per riformare le istituzioni comunitarie, dava il via all’azione che avrebbe condotto, nel giro di pochi mesi, alla costituzione ufficiale a Strasburgo del «Club del Coccodrillo». A questa sarebbero presto seguite, a catena, l’istituzione presso il Parlamento europeo, nel giugno 1982, di una commissione per gli Affari istituzionali incaricata di elaborare riforme ai trattati, sotto la presidenza di Mauro Ferri e con Spinelli nel ruolo di relatore;[19] l’elaborazione in questa sede di un progetto di Trattato che istituiva l’Unione europea; l’approvazione del progetto, a grande maggioranza, da parte del Parlamento europeo nel corso della seduta del 14 febbraio 1984.
Il progetto del Parlamento europeo trasformava il Consiglio europeo in presidenza collegiale dell’Unione e la Commissione della Comunità in un vero esecutivo politico, manteneva un ruolo legislativo e di bilancio per il Consiglio dell’Unione, ma definendolo e limitandolo, dava al PE un vero potere legislativo e di bilancio, che esso condivideva con il Consiglio. Esso attribuiva all’Unione la pienezza delle competenze economiche e il potere di costruire gradualmente l’unione monetaria; prevedeva la gestione confederale della politica estera e di quella della sicurezza europea finché un nuovo trattato non ne avesse devoluto la piena competenza all’Unione. Il progetto riconosceva quindi l’esistenza di una sfera di problemi che avrebbero dovuto essere trattati dal Consiglio europeo con il metodo della cooperazione, ma, da un lato, vietava al metodo intergovernativo di invadere il campo dell’azione comune e, da un altro lato, apriva un varco che rendeva possibile il passaggio dalla cooperazione all’azione comune.
Dopo l’approvazione del PE si metteva di nuovo in moto un meccanismo destinato ben presto a snaturare il progetto. Nel giugno 1984, al Consiglio europeo di Fontainebleau, i Capi di governo decidevano di nominare un comitato di loro rappresentanti personali incaricato di elaborare proposte per migliorare il funzionamento istituzionale della Comunità in vista della realizzazione dell’Unione europea, alla cui presidenza veniva nominato l’irlandese James Dooge. Il Rapporto del comitato Dooge, presentato al Consiglio europeo di Bruxelles nel marzo 1985, proponeva di convocare una conferenza intergovernativa incaricata di elaborare un progetto di trattato di Unione europea «ispirato» al progetto del PE. Quest’ultimo veniva così di fatto accantonato. Al Consiglio di Milano, nel giugno 1985, i Capi di stato e di governo decidevano di convocare una conferenza di rappresentanti dei governi della Comunità per elaborare proposte di modifica dei trattati istitutivi volte a migliorare il funzionamento istituzionale, a realizzare il mercato interno e a integrare la cooperazione politica nell’ambito delle attività comunitarie. Il PE non era neanche ammesso a collaborare ai lavori dei governi, così come era avvenuto per l’Assemblea ad hoc nel corso degli studi del progetto di Statuto della CPE.
La Conferenza, come è noto, si chiudeva in occasione del Consiglio europeo di Lussemburgo, del 2-3 dicembre 1985, che dava vita all’Atto Unico europeo, che a sua volta rilanciava la prospettiva dell’Unione economica e dell’Unione monetaria. Con l’AUE, le competenze della Commissione venivano allargate e nel contempo veniva recepito il principio di sussidiarietà; veniva inoltre sostituito in certe materie il principio dell’armonizzazione con il principio del riconoscimento reciproco; gli elementi portanti dello sviluppo verso l’Unione economico-monetaria — lo SME e l’ECU — e le quattro politiche fondamentali (politica sociale, politica regionale, politica di ricerca e sviluppo tecnologico, politica ambientale) acquistavano dignità normativa e pattizia; l’art. 30, titolo terzo, istituzionalizzava la cooperazione europea in materia di politica estera, codificando il complesso di procedure informali praticate nei rapporti tra gli Stati membri con tutta una serie di meccanismi a ciò funzionali. Al vertice della cooperazione politica, l’art. 2 poneva un nuovo organo, il Consiglio europeo, un organo politico al massimo livello (Capi di stato e di governo), sovranazionale, creato sul campo — come s’è detto — nella prassi degli anni Settanta, a cui partecipava anche un membro della Commissione. La presidenza delle Comunità europee assumeva anche la presidenza della cooperazione politica e la responsabilità per la gestione della stessa. I Ministri degli Esteri degli Stati membri e un membro della Commissione si riunivano una volta all’anno, ma potevano occuparsi di CPE anche nel quadro del Consiglio delle CE. L’AUE prevedeva inoltre la costituzione di un Comitato politico (composto dai direttori politici dei ministeri degli esteri) e di un gruppo di corrispondenti europei. Detto Comitato — le cui somiglianze con i progetti Fouchet mi sembrano evidenti — aveva il compito di dare impulso alla CPE e di preparare le discussioni fra i ministri.[20] Con l’AUE, sia la Commissione che il PE venivano associati alla Cooperazione politica europea che, tuttavia, restava prevalentemente gestita dal Consiglio europeo. L’Atto Unico europeo non precisava nulla riguardo agli obiettivi della CPE, che rimaneva una cooperazione di carattere intergovernativo. Nella prassi, questa si realizzava nella forma di posizioni comuni adottate nelle conferenze e all’interno delle organizzazioni internazionali, ma rischiava di essere paralizzata ogniqualvolta gli Stati manifestassero opinioni diverse sui singoli problemi. Prendeva quindi corpo un sistema misto, insieme d’integrazione e di cooperazione.
 
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Nel gennaio 1986, commentando davanti al Parlamento le decisioni dei governi, Spinelli affermava: «Onorevoli colleghi, quando votammo il progetto di Trattato per l’Unione, vi ho ricordato l’apologo hemingwayano del vecchio pescatore che cattura il più gran pesce della sua vita, lo vede divorare dai pescecani e arriva al porto con la sola lisca del pesce. Anche noi siamo ormai arrivati al porto ed anche a noi, del gran pesce, resta solo la lisca. Il Parlamento non deve per questo motivo né rassegnarsi né rinunziare. Dobbiamo prepararci ad uscire ancora una volta e presto in mare aperto, predisponendo i migliori mezzi per catturare il pesce e per proteggerlo dai pescecani».[21]
Amareggiato dai risultati della Conferenza di Lussemburgo, ma non rassegnato, all’inizio del febbraio 1986[22] Spinelli esponeva di fronte alla Commissione istituzionale le linee fondamentali di una nuova strategia per realizzare l’Unione europea, seppur inizialmente limitata ai settori dell’economia e della moneta, al centro della quale era posta l’esigenza di riconoscere al Parlamento europeo il diritto-dovere di svolgere il ruolo di Assemblea Costituente per l’Unione europea. Dopo aver duramente polemizzato contro il metodo delle conferenze intergovernative assolutamente inadatto a proporre l’ancorché minimo progresso sulla via della costruzione europea, Spinelli indicava in quattro tappe la nuova strategia: il Parlamento europeo avrebbe dovuto redigere un testo di mandato costituente da affidare al Parlamento stesso in vista delle elezioni del 1989; lo avrebbe poi trasmesso ai governi al fine di sottoporlo a referendum consultivo nei singoli paesi; se i referendum avessero avuto successo, i governi si sarebbero impegnati a sottoporre la Costituzione direttamente alla ratifica dei loro Stati; nel giugno 1989 sarebbe stata eletta l’Assemblea Costituente.[23]
La nuova azione veniva di fatto sostenuta dalla conversione al costituzionalismo di Jacques Delors, una conversione che proprio nell’AUE affondava le proprie radici.[24] Uomo di fiducia di Delors, destinato a presiedere il Comitato Delors, era Tommaso Padoa-Schioppa.
Scomparso Spinelli nel maggio 1986, l’iniziativa costituente veniva ripresa, seppur con minor determinazione, dal popolare belga Fernand Herman. Mi sembra non privo di significato sottolineare il fatto che Herman — rappresentante autorevole del PPE e membro dell’Intergruppo federalista per l’Unione europea[25] — fosse stato membro, tra il 1981 e il 1982, della Commissione per le Istituzioni creata dal Movimento europeo per appoggiare l’iniziativa di Spinelli e del Club del Coccodrillo.[26] La Commissione, composta da 26 membri,[27] aveva iniziato i lavori il 30 aprile 1981, sotto la presidenza di Martin Bangemann, e subito si era rivelata una preziosa interlocutrice della Commissione istituzionale del Parlamento europeo. Ad essa il Consiglio federale del Movimento europeo, presieduto in quegli anni da Giuseppe Petrilli, aveva affidato il compito di contribuire attivamente ai lavori istituzionali europei in corso. L’esperienza nella Commissione istituzionale del Movimento europeo e il sodalizio che, parallelamente a questa, si istituì con Altiero Spinelli, delle cui idee federaliste divenne un vivace sostenitore, avevano condotto Herman a sostenere attivamente Spinelli nella Commissione istituzionale e a partecipare alla manifestazione federalista di Milano, il 29 giugno 1985, con un nutrito gruppo di suoi elettori. Chiamato a far parte del Comitato Dooge, Herman aveva poi difeso con caparbietà, ma senza successo, assieme a Mauro Ferri, Maurice Faure e al tedesco Rifkind, il progetto del Parlamento europeo.
Divenuto relatore all’interno della Commissione istituzionale del PE al posto di Spinelli, già nel marzo 1986 Herman si pronunziava apertamente a favore del Piano del suo predecessore e illustrava la strategia per affidare il mandato costituente all’Assemblea europea, suggerendo il testo di una risoluzione, che il Parlamento approvava nella seduta plenaria del 14 aprile, da sottoporsi ai Parlamenti nazionali perché l’adottassero in occasione della ratifica dell’AUE. La mozione Herman impegnava i governi a mettere in atto tutte le disposizioni necessarie al fine di far progredire la Comunità verso l’Unione europea, associando il PE ai lavori di riforma delle istituzioni.[28] Nella riunione del 29 ottobre 1986, la Commissione istituzionale del Parlamento europeo approvava all’unanimità un documento di lavoro presentato da Herman, in cui erano riportati i tratti essenziali della strategia costituente già tracciata dal Piano Spinelli. In particolare, nonostante le riserve espresse da alcuni membri della Commissione (Nord,[29] Seeler,[30] Sutra), venivano riproposte tre idee di fondo: il progetto di Unione europea doveva essere elaborato dal Parlamento europeo eletto nell’89; doveva essere poi sottoposto alla ratifica delle autorità nazionali competenti; sarebbe infine entrato in vigore anche in mancanza dell’unanimità delle ratifiche.[31] Il documento ignorava però i suggerimenti di Spinelli relativi al coinvolgimento diretto dei cittadini europei, attraverso l’organizzazione di referendum nazionali consultivi o di orientamento. Herman cioè trascurava proprio quegli elementi di novità che avrebbero forse permesso di rilanciare il progetto costituente. Ripresentando le grandi linee del progetto Spinelli, che era fallito, sembrava non prender atto della sconfitta ed era quindi destinato a sua volta all’insuccesso. Il nuovo orientamento fu invece recepito in Italia, dove il Movimento federalista europeo chiedeva al Senato di ratificare l’AUE alla condizione di convocare contestualmente un referendum consultivo sull’Unione europea. Lo scopo, secondo le indicazioni del Piano Spinelli, era quello di conferire al Parlamento europeo eletto nel 1989 un mandato costituente. Il «referendum d’indirizzo» si svolse in Italia in concomitanza con il voto europeo del 18 giugno 1989 ed ebbe il merito, tra l’altro, di «quantificare» la diffusione dell’europeismo nel nostro paese: l’88 % degli italiani votò infatti favorevolmente.[32] Anche il Belgio, su sollecitazione di Ludo Diericks, avviava una iniziativa analoga, senza tuttavia avere il tempo di portarla a compimento.
La situazione alla fine degli anni Ottanta era peraltro profondamente mutata. L’Europa era stata plasmata da fatti che l’avevano resa più solida: trent’anni di mercato comune, una tumultuosa crescita economica che aveva cancellato le lacerazioni sociali, eurosocialismo ed eurocomunismo, fallimento della cooperazione intergovernativa di fronte allo shock petrolifero, elezione diretta del Parlamento europeo, Sistema monetario europeo, Trattato d’Unione elaborato dal Parlamento europeo. La fine del bipolarismo, i grandi cambiamenti causati dal crollo del comunismo nei paesi centro-orientali modificavano ulteriormente i dati del problema, spingendo gli europei a trovare, di fronte alla sfida dell’allargamento, nuove forme di unione politica.
Come lo SME aveva posto rimedio alla fluttuazione sul terreno monetario, così l’Atto Unico europeo, nonostante i suoi limiti, rilanciava la prospettiva dell’Unione economica che a sua volta, tuttavia, non era possibile senza moneta e consenso democratico.
Ne era convinto Delors, il quale pensava che il Trattato di Maastricht significasse riaprire il cammino costituente. La moneta era infatti un elemento fondante della sovranità e su di essa si poteva basare un nuovo rilancio dell’integrazione politica, come sull’esercito si era innestato, negli anni Cinquanta, il primo tentativo di creare uno Stato europeo.
Ancora una volta, dunque, si creavano i presupposti perché le due strategie di avvicinamento alla meta trovassero un punto d’incontro, arrivando a un’azione comune, secondo un metodo che potremmo definire «gradualismo costituzionale»: ogni passo condotto sulla strada dell’integrazione deve essere accompagnato da adeguati atti di costruzione,[33] da un aumento dei poteri democratici di controllo e, dunque, dalla graduale costruzione della statualità.


[1] I progetti di costituzione, sia a carattere federale che a carattere confederale furono in quegli anni numerosissimi. Oltre a quelli menzionati nel testo, occorre ricordare, tra gli altri, il progetto di Ronald W.J. Mackay, «The Constitution of the United States of Europe», in Peace Aims and the New Order, Londra, Michael Joseph Ltd, 1941; quello di Abraham Weinfeld, nel suo Towards a United States of Europe. Proposals for a Basic Structure, Washington D.C., American Council on Public Affairs, 1942; quello di Leon Van Vassenhove, in L’Europe helvétique. Étude sur les possibilités d’adapter à l’Europe les institutions de la Confédération suisse, Neuchâtel, Ed. de la Baconnière, 1943 ; quello di Hans-Dieter Salinger, in Die Wiedergeburt von Europa, diffuso in lingua tedesca sotto lo pseudonimo di Hades e poi pubblicato in olandese (Leiden, Brill, 1945). Questi numerosissimi e oggi quasi introvabili progetti sono stati raccolti da Andrea Chiti-Batelli, L’Unione politica europea, Roma, Senato della Repubblica, 1978, in particolare nella ricca documentazione di tre ponderosi volumi allegati al testo, Progetti di costituzione per una Unione europea.
[2] Il Progetto di costituzione federale europea e interna (1942-1943) di Duccio Galimberti (Tancredi) e Antonino Repaci è pubblicato in A. Repaci, Duccio Galimberti e la Resistenza italiana, Torino, Bottega d’Erasmo, 1971.
[3] Projet d’une constitution fédérale pour l’Europe, New York, 25 maggio 1944. Il progetto fu elaborato, al fine di servire un giorno come «base de discussion à l’Assemblée Constituante Européenne élue par les peuples de notre continent», dalla Commissione giuridica della Conferenza paneuropea, riunita a New York sotto la presidenza dell’ex-Ministro degli Esteri e della Giustizia spagnolo — Fernando de los Rios — e dal Centre d’Étude pour une Fédération européenne d’après-guerre dell’Università di New York diretto da Arnold J. Zurcher e da Richard Coudenhove-Kalergi. La prima formulazione del progetto era inglese: Draft Costitution of the United States of Europe issued by the PanEuropa Conference and the Research Seminar for European Federation of New York University, New York, 25 marzo 1944. Il testo, oltre che nel volume di Chiti-Batelli citato, è stato pubblicato in Arnold J. Zurcher, The Struggle to United Europe 1940-1958, New York, New York University Press, 1958, pp. 213-223 (trad. it. La lotta per l’Europa unita 1940-1958, Roma, Opere Nuove, 1964).
[4] Il Rough Draft of a Proposed Constitution for a Federation of Western Europe di W. Ivor Jennings fu elaborato sulla base della «Draft Costitution» formulata da A.L. Goodhart et Kenneth C. Wheare e del «Memorandum on the protection of civil liberties», dello stesso Jennings, presentati nel 1940 al Constitutional Research Committee del Federal Union Research Institute. Costituito nel marzo 1940, il Constitutional Research Committee era composto da William Beveridge, Lionel Curtis, A.L. Goodhart, Patrick Ransome, J. Chamberlain, F. Gahan, W. Ivor Jennings, Kenneth C. Wheare. Fu pubblicato per la prima volta nel volume di Jennings, A Federation for Western Europe, Cambridge, Cambridge University Press, 1940 e poi ripreso in Towards the United States of Europe. Studies in the Making of the European Constitution, a cura di Patrick Ransome. Londra-New York, Lothian Foundation Press, 1991, pp. 136-157.
[5] Il progetto fu pubblicato per la prima volta nella rivista dell’Europa Union, Europa, vol. XV, n. 7, Basilea, luglio 1948, pp. 3-5 ed è stato poi riprodotto in versione inglese in Walter Lipgens (a cura di), Documents on the History of European lntegration, vol. 1, Continental Plans for European Union 1939-1945, Berlino-New York, De Gruyter, 1985, pp. 770-779. Nell’elaborazione del progetto, che si basava sui Principi direttivi definiti nel novembre 1939 e votati dall’assemblea annuale dei delegati il 4 febbraio 1940 a Berna, si distinsero Wilhelm Hoegner e H.G. Ritzel. Il Preambolo dei Principi direttivi era di Adolf Gasser, mentre la parte costituzionale è attribuita a Hans Bauer e, in secondo luogo, al Comitato d’azione da lui diretto. Cfr. Il federalismo europeo organizzato in Svizzera 1943-1945, tesi di laurea di Francesca Pozzoli, Università di Pavia, 1995.
[6] Mario Alberto Rollier, «Schema di Costituzione dell’Unione federale europea», in Edgardo Monroe (pseudonimo di Rollier), Stati Uniti d’Europa, «Quaderni dell’Italia Libera», s.l., Partito d’Azione, 1944, pp. 58-65, e in Rollier, Stati Uniti d’Europa, Milano, Editoriale Domus, 1950, pp. 69-82.
[7] Promemoria sul Rapporto provvisorio presentato nel luglio 1951 dalla Conferenza per l’organizzazione di una Comunità europea della difesa, in appendice a Mario Albertini, «La fondazione dello Stato europeo», in Il Federalista, XIX (1977), n. 1. Il promemoria è stato in seguito ripubblicato in appendice al volume Luigi V. Majocchi - Francesco Rossolillo, Il Parlamento europeo, Napoli, Guanda, 1979, pp. 193-216.
[8] Projet de Traité de la CED, 14 febbraio 1952, in carte Ivan Matteo Lombardo, ora depositate presso gli Archivi storici delle Comunità europee, Firenze.
[9] Gli esperti della Harvard University fornirono prezioso materiale comparativo e studi analitici sul funzionamento dei sistemi federali nel mondo, successivamente raccolti nel volume Studi sul federalismo, a cura di Robert R. Bowie e Carl J. Friedrich, Milano, Ed. di Comunità. 1959.
[10] Brochure n. 1 del Comité d’Études, Bruxelles, novembre 1952 (trad. it. Risoluzioni del Comitato di Studi per la Costituzione europea, a cura di Guido Lucatello, Padova, Cedam, 1954, con note e introduzione di Altiero Spinelli).
[11] Projet de Statut de la Communauté politique européenne. Travaux préparatoires, Bruxelles, novembre 1952 (trad. it. Per una Costituzione federale dell’Europa. Lavori preparatori del Comitato di Studi presieduto da P.H. Spaak 1952-1953, a cura di Daniela Preda, Padova, Cedam, 1996).
[12] Nella sottocommissione per le Istituzioni politiche era inserito quale membro anche un altro componente del CECE, il tedesco Max Becker.
[13] Sul «metodo» adottato a Messina si veda Messina quarant’anni dopo. L’attualità del Metodo in vista della Conferenza intergovernativa del 1986, a cura di Luigi V. Majocchi, Bari, Cacucci, 1996.
[14] Per il Generale, infatti, l’Europa era formata da nazioni indistruttibili, di cui sarebbe stato vano negare l’esistenza e la forza.
[15] Esso era finalizzato a «stabilire un’unione di Stati» ed era composto da un preambolo e da un dispositivo. Quest’ultimo prevedeva un’unione indissolubile, fondata sul rispetto della personalità dei popoli e degli Stati membri e l’uguaglianza di diritti e doveri. Gli obiettivi del trattato erano la cooperazione in materia di politica estera (sulle questioni di interesse comune), scienza e cultura, difesa. Gli organi proposti erano tre: Consiglio, Assemblea parlamentare, Commissione politica. Il termine Consiglio designava due gruppi diversi: esso era infatti costituito sia dai Capi di Stato e di governo dei paesi CEE sia dai Ministri degli Esteri. L’Assemblea parlamentare era praticamente immutata rispetto a quella prevista dai Trattati di Roma, a cui era fatto esplicito riferimento. L’organo più originale era costituito dalla Commissione politica europea, composta da alti funzionari appartenenti all’amministrazione degli Affari esteri di ogni paese. Mancava la Corte di Giustizia, e ciò appare quantomeno ragionevole dal momento che non si voleva mettere in gioco la sovranità degli Stati. Il Consiglio deliberava sulle questioni all’ordine del giorno, prendeva decisioni all’unanimità che dovevano essere rispettate obbligatoriamente dagli Stati partecipanti alla loro adozione, adottava annualmente il bilancio dell’Unione, era competente in materia di revisione del trattato. L’Assemblea parlamentare europea deliberava su materie relative agli obiettivi dell’Unione e poteva essere invitata a formulare pareri su richiesta del Consiglio. La Commissione politica assisteva il Consiglio, preparava le sue deliberazioni e le eseguiva, assicurando anche l’esecuzione del bilancio. Gli Stati avevano il dovere di collaborare con le istituzioni dell’Unione e di procurarle risorse. L’iniziativa della revisione apparteneva solo agli Stati membri.
[16] Si veda il comunicato finale del Vertice europeo tenutosi a Parigi, 9-10 dicembre 1974, in Comunità europee, XXI (1975), n. 1, pp. 16-18.
[17] Discorso di Brandt al Congresso dell’Europa organizzato dal Movimento europeo, Bruxelles, 5-7 febbraio 1976, in L’Unità europea, III (1976), n. 25, pp. 9-12.
[18] L’iniziativa del Ministro degli Esteri tedesco Hans Dietrich Genscher e dell’italiano Emilio Colombo, che mirava ad avviare una riforma della Comunità (e che sarebbe sfociata nella dichiarazione solenne sull’Unione europea adottata dal Consiglio europeo di Stoccarda nel giugno 1983) si limitava di fatto a proporre di estendere a nuovi campi il metodo di cooperazione intergovernativa, restringere ulteriormente l’autonomia della Commissione, mantenere un Parlamento privo di poteri reali.
[19] Tra i membri della Commissione istituzionale figurava l’italiano Ortensio Zecchino.
[20] Un’ulteriore realizzazione consistette nella costituzione di un segretariato per la CPE, che si occupava solo di politica estera e che prefigurava l’attuale Unità PESC nel quadro del segretariato generale.
[21] Si tratta dell’ultimo discorso pronunciato da Altiero Spinelli al Parlamento europeo, il 16 gennaio 1986. Esso è riprodotto in Altiero Spinelli, Discorsi al Parlamento europeo 1976-1986, a cura di Pier Virgilio Dastoli, Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 368-373. Il brano citato trovasi a p. 373.
[22] Il documento di lavoro era stato inviato da Spinelli ai membri della Commissione istituzionale del PE il 24 gennaio 1986.
[23] Cfr. Luigi V. Majocchi, La difficile costruzione dell’unità europea, Milano, Jaca Book, 1996, pp. 209-222.
[24] Delors aveva calcolato che, per realizzare l’AUE, sarebbero occorse circa 350 direttive. Dovendo sottostare alla spada di Damocle dell’unanimità dei consensi, era dunque prevedibile che l’AUE non potesse aver modo di realizzarsi se non si fosse provveduto per tempo alle necessarie riforme istituzionali.
[25] L’intergruppo federalista al Parlamento europeo, erede del Club del Coccodrillo creato a Strasburgo da Spinelli nel luglio 1980, venne creato, «con lo scopo di rafforzare e rendere permanenti i legami e l’impegno di tutti gli innovatori del Parlamento europeo», nel 1986. Cfr. «La Dichiarazione di intenti dell’Intergruppo federalista al Parlamento europeo», in L’Unità europea, XIII (1986), n. 153 (novembre).
[26] La stessa cosa può dirsi del socialista spagnolo Carlos Bru Puron che, impegnato da anni nell’azione federalista in Spagna, aveva fatto parte con Herman, all’inizio degli anni Ottanta, della Commissione istituzionale del Movimento europeo, e lo affiancava ora nella Commissione istituzionale del Parlamento europeo.
[27] Oltre a Fernand Herman, facevano parte della Commissione: Pierre Bordeaux-Groult, Erwin Guldner del Consiglio francese (OFME); Etienne Boumans, Paula Degroote del Consiglio belga; Carlos Bru-Puron, del Consiglio spagnolo; Anthony Callus, del Consiglio maltese; I. Camunas (MLEU); I.L. Cougnon della Fédération internationale des Maisons d’Europe; Pascal Fontaine del PPE; Jean-Pierre Gouzy dell’Association des journalistes européens; M. Grabitz del Consiglio tedesco; Sean Healy, Neville Keery del Consiglio irlandese; José Macedo Pereira, Carlos de Pitta e Cunha del Consiglio portoghese; Luigi V. Majocchi e Giampiero Orsello del Consiglio italiano; H.J. Mettler e Alois Riklin del Consiglio svizzero; John Pinder e Derek Prag del Consiglio britannico; Giancarlo Piombino in rappresentanza del Consiglio dei Comuni d’Europa; Ivo Samkalden del Consiglio olandese; Wolfgang Wessels dell’Institut für Europäische Politik; A. Westerhof in rappresentanza dell’Association européenne des Enseignants; l’austriaco Max Wratschgo.
[28] La mozione affermava testualmente che occorreva riservare agli organi propri della Comunità il ruolo che i principi democratici ad essa assegnavano, in particolare la partecipazione «a pieno titolo alla preparazione e all’adozione dell’atto costitutivo dell’Unione europea». «Approvata dal PE il 14 aprile la mozione Herman», in L’Unità europea, XIII (1986), n. 146 (aprile).
[29] Nord aveva proposto di attendere la verifica dell’Atto Unico per richiamare i governi alle loro responsabilità ed avviare un nuovo negoziato politico-diplomatico.
[30] Seeler, con il sostegno al di fuori del Parlamento europeo soprattutto di Europa Union, aveva sostenuto l’ipotesi che il Parlamento in vigore modificasse il progetto del febbraio 1984, tenendo conto delle obiezioni avanzate da parlamenti e governi nazionali, e lo sottoponesse, una volta modificato, alle legittime autorità nazionali.
[31] Accordi provvisori avrebbero regolato i rapporti con gli Stati membri della Comunità che non fossero entrati a far parte dell’Unione.
[32] Il referendum accoglieva il testo di una proposta di legge d’iniziativa popolare avanzata dal MFE. Questo il testo su cui gli italiani furono chiamati al voto: «Ritenete voi che si debba procedere alla trasformazione delle Comunità europee in una effettiva Unione dotata di un governo responsabile di fronte al Parlamento, affidando allo stesso Parlamento europeo il compito di redigere un progetto di costituzione da sottoporre direttamente alla ratifica degli organi competenti degli Stati membri della Comunità?». Cfr. il supplemento a L’Unità europea, XV (1988), n. 169.
[33] Per atti di costruzione, Albertini intende quegli atti innovativi intesi a creare nuove forme di statualità europea che, proprio per il loro carattere rivoluzionario, sono estranei al processo politico normale e sono appannaggio delle avanguardie. Cfr. Mario Albertini, «La stratégie de la lutte pour l’Europe», in Le Fédéraliste, VII (1965), n. 3-4. Nella storia dell’integrazione europea, questi atti sono da ascriversi ai movimenti federalisti sorti sulle ceneri della seconda guerra mondiale e a singole, illuminate, personalità (Monnet).

 

 

 

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