IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XXXV, 1993, Numero 1, Pagina 9

 

 

Micronazionalismo e federalismo*
 
GUIDO MONTANI
 
 
L’ordine europeo e mondiale dopo la guerra fredda. La fine della guerra fredda ha aperto una fase di instabilità e di incertezza negli equilibri mondiali. L’URSS non è riuscita a completare il processo di democratizzazione avviato da Gorbaciov: dopo il fallito colpo di Stato dell’agosto ‘91, il progetto di una rinnovata unione è naufragato contro le pretese nazionalistiche delle repubbliche. Gli USA sono rimasti la sola superpotenza, ma è ormai evidente la loro incapacità di reggere il peso del governo degli affari mondiali: anche per questo, la politica estera statunitense oscilla in continuazione tra velleitarie ambizioni egemoniche e vaghi progetti di un nuovo ordine internazionale. L’Europa occidentale, sulla spinta di questi drammatici avvenimenti che mettono a dura prova le istituzioni comunitarie, nate durante la guerra fredda sotto la comoda ala protettrice statunitense, ha cercato di imprimere un moto di accelerazione al progetto di Unione politica. Ma il piano predisposto dai governi europei a Maastricht, seppure decisivo per quanto riguarda l’unificazione monetaria, prevede tappe troppo diluite nel tempo per la costruzione dell’Unione politica. Così l’Europa rimane priva di capacità d’azione nei confronti dei drammatici avvenimenti che stanno oggi dilaniando i Balcani. Il pericolo è che l’incendio dilaghi. Le stesse malefiche cause che hanno scatenato gli odi etnici nei Balcani e nel Caucaso, potrebbero domani accendere altri più pericolosi focolai in ogni angolo del mondo. In Asia, in Africa e in America (Quebec), esistono da anni situazioni di tensione tra differenti etnie che potrebbero esplodere con conseguenze catastrofiche, se il disordine europeo dovesse aggravarsi.
La natura di questo fenomeno, le sue cause ed i suoi possibili rimedi restano per il momento controversi. Alcuni hanno salutato le lotte per l’indipendenza della Lituania, della Slovenia, della Croazia, del Nagorno Karabach, della Slovacchia come una vera e propria affermazione della democrazia (l’autodeterminazione dei popoli). Il giudizio deve in verità essere molto più prudente e articolato. E’ vero che questi problemi sono sorti nel corso del processo di democratizzazione dell’impero sovietico, ma essi sono più prossimi, nelle cause e negli effetti, all’ideologia del nazionalismo che non a quella della democrazia. L’atroce realtà dei campi di concentramento per profughi nella ex Jugoslavia ricorda troppo da vicino l’esperienza del nazismo per non sollevare qualche ragionevole dubbio.
 
Integrazione e disgregazione. La storia contemporanea diventa del tutto incomprensibile se escludiamo dal nostro orizzonte la crescente interdipendenza economica, sociale e politica tra tutti i popoli del mondo. La stessa disgregazione dell’URSS, paradossalmente, può essere compresa in questa prospettiva, perché la distensione è divenuta possibile solo quando la corsa agli armamenti tra le due superpotenze aveva perso ogni giustificazione razionale a causa della certa autodistruzione che avrebbe causato un eventuale conflitto nucleare. E’ comunque in Europa occidentale che il processo di unificazione economica e politica è maggiormente avanzato. I paesi della Comunità hanno ormai deciso di mettere in comune la sovranità monetaria e, parzialmente, la politica estera e la sicurezza. Si tratta di una decisione che comporta il trasferimento della sovranità degli Stati nazionali al livello europeo e che apre, se condotta sino al suo punto di non ritorno, una fase del tutto nuova della politica internazionale. Diventa infatti possibile unificare politicamente l’Europa occidentale e quella orientale, ponendo così l’Europa stessa in una posizione di primo piano nella ormai indispensabile lotta per la riforma democratica dell’ONU, casa comune di tutto il genere umano.
Questo orientamento cruciale della politica europea, tuttavia, è oggi seriamente minacciato dalla tendenza opposta verso la disgregazione degli Stati e, in prospettiva, dell’intero continente europeo. Il processo di democratizzazione dell’impero sovietico si è, infatti, arrestato a causa della disgregazione dell’URSS in Repubbliche sovrane, ciascuna con l’ambizione di creare nel tempo più breve possibile un proprio esercito ed una propria moneta nazionale. La Jugoslavia ha seguito su scala minore questo pessimo esempio, senza riuscire a porre un argine ragionevole alle pretese territoriali delle varie etnie. Il risultato è stata una guerra civile combattuta con tutta la ferocia di cui il razzismo è capace. Ogni comunità etnica pretende di costruire il proprio Stato nazionale, sopprimendo fisicamente od espellendo al di là delle frontiere qualsiasi elemento «impuro» che possa infettare la razza eletta.
 
L’Unione europea come nuovo modello di comunità politica. Gli Stati nazionali del passato si sono formati affermando il principio della comunità politica chiusa entro i confini nazionali: esercito nazionale e moneta nazionale (inclusi i dazi doganali) hanno rappresentato i mezzi materiali di questa politica. La frontiera, per ciascun individuo, comporta l’impossibilità di avere rapporti personali con stranieri senza l’autorizzazione esplicita del governo nazionale. La moneta e l’esercito sono gli strumenti che di fatto dividono una comunità politica dall’altra e garantiscono il massimo potere su ciascun cittadino alla classe politica che si definisce «nazionale». L’ubbidienza passiva, in questa forma di Stato, diventa una virtù civica e ciascuno deve accettare il supremo sacrificio della vita per difendere i sacrosanti confini.
La Federazione europea in costruzione introduce nelle relazioni internazionali un principio del tutto nuovo nei rapporti inter-individuali: gli Europei appartengono ad una comunità politica aperta all’interdipendenza mondiale. La nazione perde, nell’Unione europea, il monopolio della cittadinanza. I cittadini europei sono nel medesimo tempo inglesi, italiani, tirolesi, ecc. L’identità culturale del cittadino europeo non sarà definita da alcun potere politico. La cittadinanza europea prefigura ed anticipa alcuni aspetti del cosmopolitismo. L’Europa non ha confini naturali da difendere. Nasce come federazione aperta all’ingresso di tutti i popoli che accetteranno i fondamentali principi di libertà e di democrazia alla base della Costituzione europea.
 
Nazionalismo e micronazionalismo. Le frontiere in Europa rappresentano le sanguinose ferite impresse dal nazionalismo nella viva carne del popolo europeo. La storia europea non è solo storia del nazionalismo, ma è certo che il nazionalismo in Europa ha condizionato profondamente la stessa concezione della politica, nonostante le aspirazioni cosmopolitiche del liberalismo, della democrazia e del socialismo. Il nazionalismo ottocentesco è consistito nell’ideologia dell’unità di Stato e nazione, in una fase della storia in cui l’economia si stava progressivamente liberando dai fardelli feudali, sotto l’impulso delle nuove dinamiche forze del libero mercato e dell’industria. L’economia moderna non si sarebbe mai sviluppata entro i ristretti confini del feudo. Il nazionalismo ha così favorito l’integrazione del popolo nello Stato su vasti spazi nazionali, sia nei grandi Stati monarchici, come l’Inghilterra, la Spagna e la Francia, in cui il potere politico era già riuscito a unificare ampi territori, sia in paesi come l’Italia e la Germania, che attraverso il processo di unificazione nazionale riuscirono a creare le premesse per il loro sviluppo economico ed il loro ingresso nel concerto delle grandi potenze.
Questa eredità del passato domina ancora prepotentemente il mondo contemporaneo. Il principio dello Stato nazionale sovrano governa la politica internazionale che è fondata sull’equilibrio delle potenze: gli unici soggetti attivi della politica mondiale sono gli Stati nazionali. E’ vero, tuttavia, che oggi il principio della sovranità assoluta è di fatto attenuato dal fenomeno dell’interdipendenza globale, che costringe gli Stati sovrani a cooperare per meglio garantire il loro benessere. La nascita e il proliferare delle numerose organizzazioni internazionali esistenti non si spiegherebbe altrimenti. Esse non sono il frutto della buona volontà o dell’internazionalismo dei governi: al contrario, i governi accettano i vincoli della cooperazione come il male minore, perché l’isolamento equivale spesso all’impoverimento e all’emarginazione dai frutti del progresso economico-sociale.
Il micronazionalismo è dunque un fenomeno nuovo rispetto al nazionalismo tradizionale. Esso non si accompagna all’integrazione di vasti spazi e popolazioni, ma pretende di disintegrare gli Stati esistenti, di creare piccole comunità etniche, virtualmente pure entro i loro confini territoriali, adottando gli strumenti della violenza e della discriminazione propri degli Stati nazionali classici, come l’esercito e la moneta. E’ l’illusione dell’indipendenza in un mondo interdipendente. E’ il nazionalismo su piccola scala.
 
L’ideologia della disgregazione. Sebbene il fenomeno del micronazionalismo si sia manifestato con veemenza in relazione alla crisi dell’impero sovietico, esso affonda le sue radici più in profondità nella crisi delle ideologie politiche tradizionali, che non sanno più proporre un’idea di Stato accettabile dal cittadino moderno. Si tratta di una crisi che investe Occidente ed Oriente nella medesima misura, anche se con manifestazioni differenti. Lo Stato, come lo ha concepito il pensiero politico del passato, ha saputo unire i cittadini con istituzioni comuni. La libertà, l’eguaglianza e la giustizia non sono doni spontanei della natura, ma i frutti di istituzioni collettive. Oggi, nell’epoca dell’interdipendenza globale, è in crisi l’idea di Stato come comunità politica in grado di garantire la solidarietà e l’indipendenza di differenti etnie, nazioni e regioni.
E’, tuttavia, la disgregazione dell’URSS che ha sollevato la pesante coltre, predisposta con cura dai due imperi nel corso della guerra fredda, sotto cui sonnecchiavano le dirompenti forze del micronazionalismo. La classe politica al potere in URSS, una volta iniziato il disgelo, si è mostrata incapace di formare nuovi partiti democratici, in grado di prospettare ai cittadini seri programmi di riforma dello Stato ispirati ai grandi valori della tradizione liberale, democratica e socialista. Prima del colpo di Stato dell’agosto ‘91, il processo di riforma della vita politica dell’URSS era giunto alle soglie di una radicale trasformazione del PCUS in partito socialdemocratico e della stessa URSS in una Unione democratica di Stati. Anche la Jugoslavia, in questa fase, era riuscita ad avviare un processo di democratizzazione, sebbene con differenti gradi di avanzamento e di intensità tra le differenti Repubbliche. La Cecoslovacchia, infine, oggi altrettanto assediata dalla febbre micronazionalistica, aveva addirittura già realizzato una forma di governo democratica e semi-federale.
In tutti questi casi, il germe del micronazionalismo ha attecchito con sorprendente rapidità, portando alla disgregazione la precedente forma statuale, a causa della necessità della classe politica al potere di trovare una legittimità alternativa al regime comunista ormai colpito da una crisi irreversibile. La formula più semplice, più a portata di mano, è stata quella del nazionalismo, vale a dire l’idea primitiva e rozza della purezza etnica o di sangue. La formazione di autentici partiti politici che si richiamassero ai valori del liberalismo, della democrazia e del socialismo avrebbe richiesto un lavoro di educazione e di selezione di una nuova classe politica che la drammatica crisi del regime leninista rendeva estremamente difficile. E’ stato molto più facile ed efficace lanciare un appello patriottico prospettando il mito dell’indipendenza nazionale. Ed in effetti tutti gli attuali capi delle ex Repubbliche sovietiche (Russia inclusa) sono ex capi del PCUS travestiti da salvatori della patria. Un quadro non molto dissimile si potrebbe dipingere per i paesi baltici, per la Jugoslavia e per la Cecoslovacchia, paesi in cui, data la loro posizione marginale nell’impero, il dissenso al comunismo era già riuscito a portare al potere una parte delle forze democratiche, ma in cui leaders provinciali e demagogici hanno dovuto fare appello ai gretti sentimenti del nazionalismo per consolidare il loro potere.
Il micronazionalismo è l’ideologia che ha consentito ad una classe politica locale, minacciata dal processo di trasformazione democratica in corso su larga scala, di ottenere il consenso popolare necessario al mantenimento del proprio potere attraverso la procedura pseudo-democratica del referendum (l’imbroglio democratico è evidente: lo stesso popolo che pochi mesi prima aveva detto Sì al referendum sul mantenimento dell’Unione, ha poi detto Sì ai vari referendum nazionali per smembrare l’Unione).
Le potenzialità distruttive del micronazionalismo non si fermano tuttavia ai confini dell’ex-impero sovietico. In Europa occidentale, dove esistono Stati nazionali con governi democratici ormai sperimentati e dove il processo di unificazione politica dell’Europa è ormai giunto ad uno stadio avanzatissimo, il micronazionalismo si sta lentamente infiltrando nei meandri della politica europea. I movimenti per le autonomie regionali, che si fanno portavoci delle aspirazioni reali e legittime delle comunità locali, in questa fase drammatica di riorganizzazione dell’ ordine europeo, rischiano di lasciarsi ammaliare dagli illusori obiettivi e dagli erronei metodi di lotta del micronazionalismo.
 
Regionalismo e micronazionalismo. Gli Stati nazionali in Europa si sono formati e consolidati, nel corso dei secoli XVIII e XIX, attraverso un processo di centralizzazione del potere, di progressivo superamento delle feudalità locali e di soffocamento delle culture regionali. Le caratteristiche fondamentali dello Stato nazionale moderno sono in effetti la burocrazia accentratrice e la sua pretesa di fondarsi su una specifica ed esclusiva identità culturale (l’italianità, ecc.). Questa ideologia politica esclude che vi siano culture «minori», diverse da quella assurta ad importanza nazionale, che possano avanzare la pretesa di porsi sullo stesso piano della cultura dominante: per questo nascono contrasti perduranti nei secoli, che sfociano spesso nella violenza, come se si trattasse di scegliere tra modi di vita incompatibili. Si possono ricordare gli esempi dei Catalani e dei Baschi in Spagna, dei Bretoni e degli Occitani in Francia, dei Sud-tirolesi in Italia, degli Irlandesi e degli Scozzesi in Gran Bretagna, dei Fiamminghi e dei Valloni in Belgio, ecc.
Il processo di unificazione europea mette in discussione gli Stati nazionali sia per quanto riguarda la loro pretesa esclusiva di regolare i rapporti internazionali, sia nei confronti delle comunità locali, che vedono finalmente giunto il momento di conquistare una piena autonomia politica ed amministrativa. In effetti, il processo di unificazione europea obbliga i governi nazionali a cedere poteri verso l’alto, al governo europeo (moneta e sicurezza), e verso il basso, agli enti locali territoriali (specialmente in materia impositiva e di gestione dei maggiori servizi sociali, per i quali è probabile che le comunità locali, più sensibili ai bisogni dei cittadini, risultino più efficienti del livello nazionale).
E’ naturale che nel corso di questo processo le comunità locali – città e regioni, principalmente – tentino con sempre maggiore insistenza di far sentire la loro voce e di rivendicare maggiori poteri. Questa aspirazione è legittima e si accorda con i principi del federalismo moderno, che, a differenza del federalismo classico americano, non si articola solo su due livelli di governo, ma si propone di coordinare i vari livelli di governo, dal più piccolo borgo al governo mondiale – ciò significa realizzare l’idea della comunità politica aperta, articolata nel villaggio, nella città, nel comprensorio, nella regione, ecc., sino all’intero genere umano. Con il federalismo diventa perfettamente concepibile e non contraddittoria, l’appartenenza simultanea del cittadino a più comunità territoriali. Ciò diventa possibile perché, nello Stato federale, i rapporti tra le differenti comunità territoriali non dipendono più dalla relativa potenza militare od economica, ma sono regolati da una comune costituzione democratica. Con il federalismo i popoli potranno finalmente affermare la loro nazionalità come fatto culturale spontaneo, senza il ricorso alla violenza degli eserciti per difendersi da minacce esterne o per imporsi ai propri cittadini.
E’ tuttavia evidente che la lotta delle comunità locali per affermare la loro autonomia non può essere condotta con i metodi del micronazionalismo (la violenza, il terrorismo, ecc.), né si possono proporre gli stessi obiettivi (la sovranità monetaria e militare) se l’autonomia deve essere compatibile con l’interdipendenza. La lotta per il federalismo europeo e per il federalismo locale possono progredire solo di pari passo, perché la realizzazione di un’Europa federale è necessaria per eliminare del tutto i soffocanti poteri accentratori dello Stato nazionale.
In questa fase della storia, la moneta e la sicurezza devono divenire competenze del governo europeo, in attesa che maturino le condizioni politiche per affidare definitivamente la loro gestione al governo mondiale. Le comunità locali che pretendono di affermare la loro autonomia attraverso gli strumenti della sovranità armata, in verità non vogliono realizzare il federalismo, ma disgregare lo Stato distruggendo l’idea di solidarietà tra cittadini e tra differenti comunità territoriali. Con questa politica si esclude così di fatto anche l’Unione europea dagli ideali politici perseguibili. Non è federalista chi vuole nuove frontiere. La frontiera è discriminazione e violenza.
 
Il micronazionalismo contro la democrazia. Nell’epoca dell’interdipendenza globale, la democrazia all’interno di ogni singolo paese si afferma e prospera solo se partecipa al processo di costruzione della democrazia internazionale. In effetti, la disgregazione dell’URSS – avvenuta nel momento in cui USA e URSS avevano posto le premesse per una riforma democratica del sistema delle Nazioni Unite – ha imposto una battuta d’arresto al progetto in discussione di riforma dell’ordine internazionale.
L’istituzione di nuovi – in alcuni casi piccolissimi – Stati sovrani moltiplica ed aggrava il problema delle minoranze etniche in Europa. La creazione di una Lituania sovrana ha immediatamente posto il problema delle minoranze russe e polacche. In Slovacchia, mentre avanzano le pretese alla sovranità, si minacciano i diritti della minoranza ungherese. In Jugoslavia si può infine constatare quasi quotidianamente a quali crimini contro l’umanità può condurre la nefasta ideologia della purezza etnica.
Ogni singolo mini-Stato sovrano sarà costretto ad imporre forti limitazioni ai diritti civili dei cittadini. L’indipendenza monetaria sarà una finzione, perché nessuna moneta nazionale può essere oggi indipendente nei confronti dei grandi colossi economici (persino la Germania ha ammesso la necessità e i vantaggi derivanti dall’Unione monetaria europea). Sul piano militare – in una fase in cui anche le superpotenze hanno riconosciuto la necessità della cooperazione e del disarmo controllato per evitare i pericoli di una catastrofe nucleare – è evidente che nessuna micro-nazione può sperare di far svolgere al proprio esercito funzioni diverse da quelle di polizia interna e di guardia di frontiera. Infine, sarà molto difficile per ogni micro-nazione partecipare ai frutti della cooperazione economica internazionale, perché la difesa della sovranità monetaria (che significa controllo dei cambi, protezione doganale, ecc.) rappresenterà un grave impedimento ad una piena partecipazione al mercato mondiale. In breve, è molto probabile che i leaders politici che hanno favorito la conquista della sovranità del loro paese non abbiano altra scelta al di fuori dell’instaurazione di regimi apparentemente aperti alle procedure democratiche, ma sostanzialmente fondati sull’impostura e sulla demagogia, perché solo mantenendo i cittadini nell’ignoranza degli enormi costi di una assurda sovranità potranno conservare il loro potere.
 
Il micronazionalismo contro l’unità europea. Vi sono due vie che portano il micronazionalismo ad ostacolare il processo di unificazione europea.
Alcuni sostengono che, come la conquista della sovranità nazionale e dell’indipendenza per i grandi Stati nazionali storici ha preceduto la fase di integrazione e di unificazione, così le nuove nazioni devono oggi affermare il loro diritto all’autodeterminazione prima di potersi avviare verso l’unificazione con gli altri Europei. Questo grossolano parallelismo tra ciò che è avvenuto nel corso dei secoli XVIII e XIX e ciò che sta accadendo alle soglie del 2000 ignora completamente il fatto che il processo di unificazione europea e, sebbene ancora in embrione, quello di unificazione mondiale sono già in corso; che la storia del mondo ha già posto in crisi gli Stati nazionali esistenti, compresi quelli di maggiori dimensioni (come la Germania, gli USA, ecc.) e che pertanto la via più ragionevole per entrare a far parte di questa grande avventura del genere umano verso la sua unità politica, non è affatto quella di provocare nuove secessioni, discriminazioni, odi e guerre, ma piuttosto di lottare per affermare la democrazia nel proprio paese, per contribuire, attraverso la cooperazione pacifica con altri popoli, al superamento di anacronistiche frontiere. La vita democratica si rafforza e si alimenta attraverso la partecipazione consapevole al progresso mondiale, alla emancipazione del genere umano dalle piaghe della miseria, della guerra e del razzismo. Chi provoca divisioni, chi semina odi, chi si isola dal mondo in verità vuole difendere solo posizioni di potere e meschini privilegi, nascondendo queste basse ambizioni con la pomposa retorica della sovranità nazionale.
La seconda via attraverso cui il micronazionalismo minaccia la costruzione dell’unità europea consiste in una particolare interpretazione che viene data al popolare slogan: «Europa delle Regioni». E’ evidente, per le ragioni che sono state ricordate, che la costruzione dell’unità europea favorisce lo sviluppo delle autonomie locali. Ma alcuni pretendono che le regioni abbiano una posizione privilegiata nel contesto europeo, sia nei confronti delle comunità territoriali minori (ad esempio i comuni, che in questo disegno sarebbero considerati degli enti inferiori rispetto al livello regionale) sia nei confronti degli Stati nazionali, che al limite potrebbero venir smembrati per lasciar posto a nuove realtà regionali (eventualmente a delle macroregioni, come la Padania, l’Occitania, la Baviera, ecc.). Questo proposta di ordine europeo si fonda di nuovo sull’ideologia del micronazionalismo e di fatto rappresenta un vero e proprio sabotaggio del progetto di unificazione europea, perché una Unione europea che si fondi su centinaia di regioni diventerebbe o un impero (se finiranno col prevalere le esigenze del governo centrale nei confronti dei piccoli poteri locali) o una zona di libero scambio, se l’arroganza dei poteri locali finirà col prevalere sulle esigenze di unità.
 
L’Unione europea contro il micronazionalismo. Il mondo degli Stati sovrani sino ad ora si è rivelato incapace di combattere adeguatamente contro il micronazionalismo. La spiegazione è semplice. Il micronazionalismo si appella ai principi di sovranità e di autodeterminazione sui quali si fonda anche l’ordine degli Stati sovrani esistenti. Di fatto, l’ordine mondiale internazionale contemporaneo, incluse le maggiori organizzazioni internazionali, come l’ONU, sono impotenti nei confronti dei misfatti del micronazionalismo.
Solo l’Europa della Comunità, sino ad ora, sebbene insufficientemente, ha tentato di contrastare questa tendenza alla disgregazione mediante il processo opposto del conferimento della sovranità monetaria e, in parte, della sicurezza, a un organismo sovranazionale. Tuttavia, il processo è ancora in corso e tarda a produrre risultati tangibili nel mondo circostante, assediato dal tarlo corrosivo del micronazionalismo. Si tratta, tuttavia, di percorrere con ancora maggiore determinazione la via verso l’Unione, giungendo sino alla realizzazione di una efficace Costituzione federale europea, che renda espliciti ai popoli di tutto il mondo i principi sui quali è possibile basare la convivenza di nazioni libere e disarmate. La Costituzione europea, in particolare, dovrebbe includere un articolo, simile all’ art. IV, Sez. 3, della Costituzione degli Stati Uniti d’America, in cui viene vietato lo smembramento degli Stati che fanno parte dell’Unione e la riunione di due o più Stati senza il consenso del Congresso.
Ciò potrà risolvere solo parzialmente il problema. In verità l’Unione europea deve cominciare ad assumersi la responsabilità dell’avvenire degli Stati dell’Europa centrale ed orientale, che aspirano ad entrare nella Comunità, ma che trovano difficoltà nel portare a compimento il processo democratico senza cedere alle lusinghe del micronazionalismo. Nei confronti di questi paesi, la Comunità dovrebbe avere il coraggio di dichiarare sin d’ora che è aperta ad una loro adesione, concordando le tappe e le necessarie misure transitorie per consentire al loro sistema economico di reggere la concorrenza del mercato interno europeo, ma mettendoli in guardia da eventuali smembramenti. La Federazione europea potrà funzionare con tanto maggiore efficacia quanto più ridotte saranno le sproporzioni tra gli Stati che ne fanno parte. Non è pensabile che Stati come la Germania unificata e la Slovenia o la Lituania abbiano i medesimi poteri di governo dell’Unione. Una soluzione potrebbe consistere nell’ assegnare uno speciale status di «territorio» (la cui popolazione sarà rappresentata nel Parlamento europeo ma non nel Senato degli Stati) ai paesi più piccoli, in attesa che si proceda a più vaste aggregazioni all’interno dell’Unione. In alternativa, si potrebbe introdurre un sistema di voto ponderato sulla base della popolazione all’interno del Senato degli Stati, come avviene nel Bundesrat.
 
Unione europea e regionalismo. L’Europa, dopo Maastricht, è ormai entrata in una fase costituente in cui diventa importante definire con chiarezza il modello istituzionale entro cui regolare i rapporti tra Unione europea, Stati nazionali, regioni ed enti territoriali minori. In linea di principio, se escludiamo le competenze in materia di moneta e di difesa, non sembra che esistano ragioni plausibili per assegnare competenze specifiche a questo od a quel livello di governo.
E’ vero, ad esempio, che gli Stati nazionali dovranno cedere competenze verso l’alto (il governo europeo) e verso il basso (le regioni e gli enti territoriali minori), ma ciò non significa affatto che il livello nazionale debba venir svuotato completamente di funzioni. Se consideriamo uno degli aspetti più importanti della crisi degli Stati nazionali europei, vale a dire la crisi dello Stato del benessere, si può constatare facilmente che non esiste una ricetta semplice ed a senso unico. Lo Stato del benessere è il risultato delle lotte sociali che, a partire dal secolo scorso, hanno contribuito ad introdurre nella vita collettiva l’idea della solidarietà tra i cittadini. E questa riforma radicale della vita associata si è realizzata storicamente all’interno dei vecchi Stati nazionali. Oggi, in molti paesi europei (Italia, Spagna, Francia, ecc.) si sostiene giustamente che al livello regionale (o comunale) alcune funzioni tipiche dello Stato sociale potrebbero essere svolte molto più efficacemente, come ad esempio l’assistenza sanitaria, l’assistenza agli anziani, ecc. Ciò non significa, tuttavia, che tutte le funzioni dello Stato del benessere debbano essere attribuite al livello locale. I fondi di pensione, creati con prelievi sui salari e sugli stipendi, sono probabilmente gestibili più efficacemente al livello nazionale, piuttosto che locale, e sarebbe certamente assurdo proporre di creare un mega-sistema pensionistico europeo. In altri casi, come per i sussidi alla disoccupazione, sarebbe invece opportuno che ai fondi nazionali si affiancasse un fondo europeo, per costituire un sistema automatico di trasferimenti di reddito dalle regioni più ricche dell’Europa alle regioni più povere e in crisi.
Questi pochi esempi servono forse a giustificare la tesi che in Europa è opportuno costruire un sistema di Stato federale a più livelli (e non solo due, come negli USA) al fine di consentire ad ogni comunità territoriale di partecipare alla definizione di tutte le politiche, nessuna esclusa. Per consentire questa forma di partecipazione è indispensabile che ogni livello di governo abbia poteri effettivi, ma non esclusivi (ciò significa coordinati con il livello inferiore e superiore di governo) in materia di bilancio e di legislazione.
Per realizzare questa forma di coordinamento tra differenti livelli di governo è necessario che, in ogni comunità territoriale, a fianco della consueta assemblea legislativa (il parlamento) si affianchi il Senato, in cui sono rappresentati gli enti territoriali minori. Ad esempio, la regione deve divenire in questa prospettiva uno «Stato federale», nel senso che a fianco del parlamento regionale deve venir istituito con poteri di codecisione il Senato delle province (o dei dipartimenti, dei distretti, ecc. a seconda delle tradizioni locali). Al parlamento nazionale si deve affiancare il Senato delle regioni. Al Parlamento europeo si deve affiancare il Senato degli Stati nazionali (l’attuale Consiglio dei Ministri opportunamente riformato).
Questo modello costituzionale consentirebbe ad ogni governo di coordinare le proprie politiche con i livelli superiori di governo e con quelli inferiori. Ciò significa che le regioni potrebbero partecipare al processo legislativo europeo attraverso i poteri che avrebbero nel Senato nazionale (come fanno attualmente i Länder nel Bundesrat), che deve discutere ed approvare i trattati e le direttive comunitarie. Sarebbe invece un errore pretendere che le regioni abbiano una rappresentanza diretta nelle istituzioni europee (ad esempio nel Consiglio-Senato) alla pari degli Stati nazionali. Sarebbe una forma di sopruso e di imperialismo non tanto nei confronti dei governi nazionali, ma degli enti territoriali minori, come i comuni. Il federalismo deve consentire ad ogni comunità territoriale, piccola o grande, di sentirsi egualmente partecipe e solidale con il governo dell’Unione. E ciò è impossibile se un livello di governo pretende di sopraffare le comunità minori o di voler esercitare i medesimi poteri delle comunità territoriali più vaste.


*Si tratta dell’intervento al Forum «Nazionalismo e federalismo», organizzato nel corso del IX seminario internazionale di Ventotene (settembre 1992).

 

 

 

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