IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XX, 1978, Numero 2-3, Pagina 51

 

 

Discorso ai giovani federalisti*
 
MARIO ALBERTINI
 
 
Se si ammette, come io credo, che ogni linea politica presenta sempre (consapevolmente o non) tre livelli: uno tattico (il modo con il quale si fa fronte ad ogni episodio, anche individualmente), uno strategico (il modo di impiego delle forze) ed uno teorico (il rapporto con il corso della storia e la natura profonda dei problemi politici e sociali), e se si ammette anche il corollario di questa concezione, secondo il quale c’è reclutamento attivo di forze nuove solo al livello teorico, si può dire che, dalla fine degli anni ‘60, i federalisti hanno privilegiato l’elemento strategico rispetto a quello teorico della loro linea perché a partire da quel periodo, esaurita la spinta dell’integrazione economica dell’Europa, e individuato nell’elezione europea il fronte vincente per realizzare l’unificazione politica, i federalisti dovettero scegliere tra l’esercizio normale della loro opposizione di governo, regime e comunità (che li confina nel settore prepolitico della politica culturale, della lotta per creare equilibri che non esistono ancora), o il ritorno, come ai tempi della C.E.D., nella sfera del potere, accettando il confronto immediato con le altre forze politiche.
Sulla base della convinzione che stesse per aprirsi la fase politica dell’integrazione europea, per i federalisti diventò prioritaria la mobilitazione sul fronte dell’elezione europea di tutte le forze disponibili. Ciò comportò un minore impegno sulla linea teorica e sul piano del reclutamento e provocò un riflusso nella politica dei quadri. Non a caso i giovani federalisti attivi, data la priorità concessa al momento strategico, sono stati quelli che si sono impegnati a fianco del M.F.E. Di fatto non vi è stata più distinzione fra l’azione della G.F.E. e quella del M.F.E. Ma in questo momento, nel quale si apre una nuova fase della lotta politica in Europa, dopo le nostre vittorie sul terreno dell’elezione europea e del rilancio del dibattito sulla moneta europea, si ripropone ancora una volta il problema del che fare, che per i federalisti, quando muta il loro rapporto con la realtà storica, è un problema di vita o di morte.
Il quesito che si pone è questo: c’è ancora una funzione dei federalisti nella sfera del potere a partire dal momento in cui, con l’elezione europea, non ci sarà più solo competizione per i poteri nazionali ma anche per il potere europeo? Una risposta assoluta non si può ancora dare perché la competizione europea potrebbe essere, all’inizio, troppo debole nei confronti della situazione degli Stati e della Comunità. Ma ciò che è certo è che si riavvicina il tempo nel quale per il M.F.E. la vita sarà ancora costituita da una politica culturale che rappresenta il punto di partenza di qualunque vita politica successiva. Per questo bisogna fare una nuova analisi dei problemi e della situazione storica, cercando di arrivare, rispetto alle altre forze politiche, più vicino alla verità, così come riuscimmo a fare, per quanto riguarda l’Italia, nel periodo tra il ‘54 e la prima metà degli anni ‘60. È in gioco, ancora una volta, la vita del M.F.E. Non va dimenticato che il M.F.E. — che non si vale dei mezzi normali del potere, il voto o la violenza — vive solo perché si dà la vita mentre chi ha un potere alle spalle vive perché consuma il potere che altri hanno creato (caso dei partiti, delle istituzioni storicamente consolidate, etc.).
 
Il senso dell’impegno dei giovani.
Per chi fa davvero politica non ci può essere distinzione di impegni e responsabilità fra giovani e meno giovani, perché quando la linea politica si esprime compiutamente è una sola e non due. Tuttavia accanto al problema della gestione della politica dell’oggi — la lotta per gli obiettivi che è possibile realizzare nel breve periodo mediante lo sfruttamento degli equilibri di forze già dati — esiste, soprattutto per un movimento come il nostro che si colloca al di fuori della vita politica tradizionale, il problema della gestione della politica del domani — la lotta politico-culturale per spostare forze dal campo del possibile a quello del necessario, allo scopo di creare i nuovi equilibri indispensabili per affrontare i problemi posti dallo sviluppo storico; problemi già riconoscibili dalla ragione, ma non ancora dalla ragione strettamente politica, cioè dal pensiero e dall’azione di coloro che gestiscono gli equilibri già formati e vedono perciò sia il corso storico, sia i problemi storico-sociali, con questa ottica limitata. È per questo legame tra la pratica e la conoscenza che i nuovi valori, anche quando sono universalmente riconosciuti come esigenze, non possono essere affermati, e dar luogo a nuove realtà sociali, se ci si limita alla politica come sfruttamento degli equilibri politici già esistenti. Se i giovani hanno una responsabilità specifica nel fare politica, questa dev’essere caratterizzata proprio da un maggiore impegno nel battersi non solo per il possibile immediato, ma anche e soprattutto per il possibile futuro. Questo è il senso da attribuire all’aspirazione della G.F.E. di tornare ad essere la sinistra del M.F.E., senso che sta diventando concreto proprio perché con la rottura degli equilibri nazionali e la progressiva formazione di nuovi equilibri europei e mondiali si è ormai aperto uno spazio per affrontare i problemi della crescita della società e della crisi dello Stato. In questo contesto il reclutamento e la formazione dei quadri tornano ad essere l’elemento prioritario per la vita del Movimento. Compito dei federalisti sarà allora ancora una volta quello di promuovere la formazione di energie nuove con il metodo già sperimentato dalla nostra opposizione: la ricerca della vera soluzione dei problemi cruciali, l’ingresso nell’equilibrio politico con la partecipazione al dibattito su questi problemi e il tentativo di schierare sulle nostre posizioni il massimo possibile di forze; e l’uscita dall’equilibrio politico — con il rifiuto del compromesso — ad ogni decisione del potere che non corrisponda ad una soluzione adeguata del problema dibattuto (dove i termini ingresso ed uscita si rapportano alla nozione di problema più che a quella di campo nel senso che si può stare dentro l’equilibrio politico per un problema nella fase del dibattito, mentre si sta fuori dall’equilibrio nei confronti di un problema che ha ricevuto una pessima soluzione).
 
La riconversione industriale e il controllo del processo storico-sociale.
Nel momento presente il dibattito politico giunge nel migliore dei casi (spesso in Italia con il P.C.I.) alla identificazione dei problemi cruciali, mai ad una conoscenza concreta di questi problemi e delle loro soluzioni effettive (si fanno valere esigenze giuste, il che è molto, ma si scambia la coscienza delle esigenze con la conoscenza delle soluzioni). Ciò è particolarmente evidente per quanto riguarda il problema sempre più pressante posto dalla necessità di riequilibrare lo sviluppo economico e di uscire dalla crisi affrontando il tema della riconversione industriale, la quale non viene mai collegata, se non astrattamente, né alla dimensione dei fenomeni che stiamo vivendo, che sono mondiali, né ai suoi contenuti che non coinvolgono i soli aspetti economici, ma mettono in discussione anche il modo di vivere, la qualità della vita nel senso largo del termine. Tuttavia, se è vero, come è vero, che la storia si pone solo i problemi che può risolvere, il fatto che la riconversione industriale sia un problema che si pone a livello politico come una questione che riguarda direttamente il potere in Europa e nel mondo, mostra che il genere umano si trova ormai sulla soglia del controllo consapevole e deliberato del processo storico-sociale a livello mondiale.
Su questa relazione tra riconversione industriale e processo storico-sociale bisogna riflettere. L’osservazione fondamentale a questo riguardo è che i singoli problemi della riconversione industriale corrispondono ai nodi e crocevia del processo storico-sociale. Ciò significa che sottoporre alla volontà umana la riconversione industriale equivale a sottoporre alla volontà umana il processo storico-sociale (la rivoluzione industriale nel Terzo mondo e quella post-industriale nelle società avanzate, ma come un unico processo avente il suo fulcro nel mercato mondiale). Va dunque ricordato — perché spesso non se ne tiene conto anche se lo si ammette a livello teorico (per esempio con Kant, e non solo con Marx) — che sinora l’evoluzione storica (evoluzione del modo di produrre), pur essendo il prodotto della somma di singoli atti di volontà, è stata sempre indipendente, in quanto tale, dalla volontà umana. In sostanza il processo storico si troverebbe sulla soglia del suo controllo perché il suo svolgimento storico (che produce anche i bisogni storico-sociali) ha generato il problema della riconversione industriale, cioè proprio il bisogno di controllare direzione, modo e localizzazione del processo produttivo (o, il che è lo stesso, il bisogno di controllare lo sviluppo delle forze produttive).
Ciò significa anche, in termini tradizionali, che se da un lato la riconversione industriale non può essere affidata alle sole forze del mercato e alla sola logica del mercato ma deve essere pianificata (anche sotto l’aspetto urbano, ecologico, ecc.), dall’altro essa — qualora sia concepita per ciò che è, la politica dello sviluppo delle forze produttive — esige la liberazione di ogni energia produttiva a livello mondiale, e perciò, nel quadro della pianificazione e della sua coordinazione mondiale (il nuovo ordine economico), un mercato mondiale il più libero possibile. Tutti i paesi industrializzati stanno affrontando il problema della riconversione industriale, cioè della direzione dello sviluppo economico. Ma poiché l’avanzamento del modo di produrre e l’accresciuta interdipendenza fra i diversi paesi e le diverse aree ha fatto sì che il quadro di riferimento dello sviluppo economico si sia allargato sempre più fino a comprendere tutto il mondo, è evidente che occorre coordinare le politiche di riconversione industriale dei diversi paesi. Tale coordinamento non può che avvenire attraverso un piano economico organizzato a livello mondiale. Ed è in questa luce che va intesa la proposta di attuare il liberalismo organizzato a livello mondiale. Nel quadro nazionale la riconversione industriale può significare solo protezionismo e corporativismo a discapito dei paesi in via di sviluppo, come del resto è già evidente nei provvedimenti adottati o richiesti — spesso dalle sinistre —in Francia, Regno Unito, Italia, etc. La prospettiva dell’unione europea consente invece di superare le tendenze degenerative di carattere protezionistico e corporativo connesse con il quadro nazionale perché pone sia il problema di rendere compatibili le proposte di riconversione industriale che si manifestano nei vari paesi europei, sia quello di rendere compatibile lo sviluppo industriale europeo con le esigenze dei paesi in via di sviluppo.
Il primo tentativo di risposta al problema di una crescita armonica dello sviluppo mondiale potrà dunque trovare la sua sede nel contributo che saprà dare la Comunità europea quando avrà acquistato una capacità d’azione adeguata; e ciò perché l’Europa, a causa del carattere stesso della sua economia, è più interessata di quanto non lo siano gli U.S.A. e l’U.R.S.S. allo sviluppo del Terzo mondo, ed anche perché essa, modificando l’equilibrio mondiale, e realizzando il primo esempio e modello di governo democratico di un insieme di nazioni, farà avanzare il mondo sulla via dell’unità rendendo possibili le prime forme embrionali di politica mondiale. Ciò detto, per non restare nel vago, e per fissare nel pensiero una rappresentazione definita della riconversione industriale come fatto storico, va anche detto che a questa rappresentazione si giunge fondendo — come in ogni conoscenza storica — la libertà e la necessità, che vanno tuttavia distinte per attribuire alla necessità quanto le spetta, e alla libertà quanto le spetta. In quanto tale l’analisi della riconversione industriale ci dice soltanto quali sono i problemi da affrontare nel contesto economico. Essa ci può anche condurre sino alla constatazione che questi problemi sono di dimensione tale da definire il corso stesso della storia, e di natura tale da esigere che esso sia ormai controllato dalla volontà umana; ma, di per sé stessa, non ci dice come devono essere risolti, e non solo perché si può controllare la produzione solo controllando la società.
Il fatto di carattere generale che va considerato è che l’analisi che ci serve per accertare quali sono i problemi mette capo proprio alla necessità e solo alla necessità (per questo il mezzo teorico più efficace, a questo riguardo, è il materialismo storico). Con esami di questo tipo noi possiamo venire a sapere che i problemi sono questi e non altri, e che gli altri, di cui pur si parla, esistono solo nell’immaginazione; cioè prendere atto della situazione nella quale ci troviamo, che non abbiamo scelto, che ci tocca accettare, che ci spinge fuori dalla realtà se non la riconosciamo. Invece, l’analisi con la quale cerchiamo la soluzione dei problemi mette capo proprio alla libertà e solo alla libertà, e perciò richiede un uso della ragione del tutto diverso da quello che si manifesta con il materialismo storico (o comunque con ogni altro modo con il quale si accerta una situazione, una necessità). In effetti c’è controllo umano se, e solo se, una situazione invece di essere semplicemente subita diventa materia di scelta non nel senso, ovviamente impossibile, che si potrebbe scegliere ciò che è già dato (la situazione) ma nel senso che si può usarla come un mezzo per un fine, il che richiede un atto libero, un atto di conoscenza e di volontà. Così necessità (mezzo non scelto) e libertà (scelta dei fini sulla base dei mezzi) si congiungono. Vorrei fare un esempio. La riconversione industriale ci mette di fronte ai primi passi della rivoluzione industriale nel Terzo mondo. La produzione industriale, d’altra parte, è un mezzo per certi fini (scolarità diffusa, un certo livello del diritto, etc.); ed è proprio mediante la realizzazione di questi fini — in quanto tali non economici, ma culturali, giuridici etc. — che la produzione (la situazione) viene controllata.
Se necessità e libertà sono congiunte, ne segue che si deve far ricorso, nell’analisi politica, sia al materialismo storico (o comunque all’accertamento storico), sia, e congiuntamente, a una concezione autonoma della libertà (la libertà di tutti, che implica e richiede la giustizia e l’eguaglianza). Con questo orientamento, dopo aver riconosciuto nella riconversione industriale il tornante storico cui è giunto il genere umano, si tratta di tener presente che i nostri problemi storici sono quelli che si trovano nel quadro della riconversione industriale (senza mai dimenticare che non ci sono altri problemi, che il resto è illusione); ma tenendo anche presente che la soluzione di questi problemi non è solo materiale, non è solo economia, ma riguarda l’intera condizione umana nel suo ambiente al presente stadio dei mezzi disponibili (grado attuale di sviluppo del modo di produzione).
Prima di chiudere questa parte bisogna ricordare che in via congetturale è perfettamente legittimo affermare che l’umanità, al punto tecnologico cui è giunta, può anche autodistruggersi. È il risvolto negativo del fatto che l’umanità si trova di fronte alla necessità di controllare il processo storico. Ciò equivale a dire che il genere umano sembra davvero giunto sulla soglia della libertà, nel senso che la sua vita (sopravvivenza) non dipenderebbe più da un processo naturale (storico-naturale) ma dalla sua stessa capacità di conoscere e di agire. A me pare che questa osservazione illumini in modo molto netto la cultura della rivoluzione scientifica, industriale e democratica, e in modo particolare il pensiero di Kant, Hegel e Marx. Ma, nei limiti del nostro esame politico, si tratta ora di esaminare, sulla base del significato della riconversione industriale, il controllo di tutti su tutti, cioè il senso che acquistano la partecipazione e la libertà degli individui nelle istituzioni, fermo restando il fatto che si tratta della partecipazione di forze produttive definite ad un processo definito, e non del mondo degli angeli.
 
La volontà generale e la partecipazione.
Quando è in causa la vita della comunità anche nello Stato liberale e democratico si manifesta l’unità delle forze senza la normale dialettica governo-opposizione. Ma le cause della vita e della morte di una comunità si sono complicate rispetto al passato. In passato ciò riguardava solo la politica internazionale. La questione della vita o della morte di un popolo si poneva con la guerra. Ma ormai, in prospettiva la vita o la morte di un popolo dipendono anche dall’attuazione del piano economico, o per meglio dire, da ciò che costituisce il vero contenuto della moderna pianificazione. E, come in guerra scompare la dialettica maggioranza-opposizione, sia perché l’opposizione in quei momenti viene emarginata o assoggettata, sia perché la situazione di pericolo e il grado di integrazione sociale raggiunto conducono spontaneamente all’unità, così ora l’attuazione del piano richiede un accresciuto livello di unità che si deve manifestare attraverso le forme della partecipazione e nel rispetto delle libertà acquisite nella storia dell’umanità. Occorre dunque precisare quale è il significato che i federalisti attribuiscono al piano, all’unità democratica necessaria per attuarlo e al pericolo, che apparentemente ne deriverebbe, per la restrizione dell’area nella quale i cittadini si possono dividere garantendo così le libertà classiche o tradizionali.
Va osservato che con il vecchio nome di «piano economico» si indica in realtà, almeno a livello dell’esigenza se non a quello della consapevolezza, il controllo pianificato degli elementi «materiali» (nel senso marxiano, ma comprendendo anche quelli territoriali e quindi anche quelli ecologici) del processo storico sociale. È in questo quadro che va concepito lo sviluppo urbano, e che va perseguito il superamento sia del problema di un rapporto armonico fra «città e campagna», nel senso dell’abolizione della diversità tra città e campagna nella prospettiva della città-regione (diffusione globale sul territorio di elementi o poli urbani), sia della visione semplicemente «ecologistica» o «economistica» dell’ambito spaziale in cui vive l’uomo.
Il compito dell’uomo è quello di «umanizzare» la natura, non quello di abbandonarla a sé stessa o di salvaguardarla in sé e per sé (Marx diceva che la natura in quanto tale, che «precede la storia umana», «non esiste più da nessuna parte salvo forse qualche isola corallina di nuova formazione»). Ciò non comporta ovviamente che l’uso delle risorse ambientali si possa limitare al perseguimento del massimo profitto economico, il quale costituisce solo uno degli elementi per valutare gli effetti dell’intervento dell’uomo sull’ambiente. Il fatto è che finora non si è fatta alcuna politica del territorio, se si precisa che questa politica dovrebbe essere nello stesso tempo il risultato della convergenza degli obiettivi di una programmazione globale e del processo di formazione della volontà pubblica. Ma non c’è formazione di volontà pubblica dove mancano persino gli strumenti conoscitivi attraverso i quali procedere al censimento locale e comprensoriale delle risorse per la localizzazione delle attività produttive.
Ma come si realizza il piano? Se si vuole trovare un filo conduttore dell’analisi, non si può prendere in considerazione tutto a caso, ma bisogna incominciare da ciò che è primo. Noi dobbiamo dunque prendere in considerazione la formazione della volontà politica, ma tenendo presente: a) che c’è un piano se, e solo se, per il periodo di tempo previsto dal piano tutti agiscono secondo le disposizioni del piano; b) che il piano deve essere voluto da tutti, cosa che va ben al di là del voto per un partito e comporta un nuovo costume, un nuovo modo di vivere degli uomini, una nuova capacità di ogni singolo individuo di decidere della sua vita e delle sue relazioni sociali.
Queste premesse bastano per stabilire che la volontà politica necessaria per realizzare il piano non può essere che una nuova forma di volontà pubblica, sino al punto-limite di una nuova volontà generale (un nuovo Stato). Anche su questo problema bisogna riflettere. Sembra che si possa ormai dire che o si innalza il fatto della volontà generale, della formazione della volontà pubblica, sino a questo punto, o non ci può essere ripresa e avanzamento della democrazia. Orbene, se ci poniamo questo problema con la sola preoccupazione, per ora, di elaborare un modello (badando solo a come il problema è pensabile), e se teniamo presente che la maggiore questione costituzionale è quella del sistema elettorale (per la sua intrinseca relazione con la formazione della volontà generale), la sola proposta coerente mi sembra quella secondo cui la formazione della volontà pubblica dovrebbe avvenire mediante un sistema elettorale proporzionale a cascata, cioè con elezioni successive e coordinate dal livello locale a quelli intermedi a quello generale, in modo che ogni gruppo umano prenda coscienza dei suoi problemi mentre dà forma alla sua volontà, e poi inserisca successivamente, con l’elezione sempre più allargata, questa conoscenza e questa volontà nella conoscenza generale e nella volontà generale.
In effetti se il processo della conoscenza e della formazione del piano non si realizza nel seno stesso del fatto elettorale come effettivo processo di formazione della volontà pubblica, i cittadini esercitano la volontà a vuoto (deliberano senza sapere) e gli esperti finiscono col sapere tutto meno l’essenziale: i concreti bisogni dei gruppi umani, che per definizione sono conosciuti da essi medesimi o da nessuno. Ciò che è necessario è che a livello di elezioni di quartiere si dibattano i problemi del quartiere, a livello di elezione cittadina si dibattano i problemi della città, ma sulla base della conoscenza di quelli del quartiere, e così via a tutti gli altri livelli. Naturalmente per essere di tutti, il piano deve essere uno. Va dunque detto con chiarezza che il sistema elettorale a cascata garantisce, in ipotesi, la partecipazione di tutti alla formazione del piano, ma non ne assicura tuttavia la attuazione, che richiede pertanto una maturazione della società e una trasformazione istituzionale che devono consentire il superamento della contrapposizione tra maggioranza e minoranza circa l’esecuzione del piano, con una riserva che vedremo.
Dovrebbe essere chiaro che non si tratta di instaurare un regime dell’unanimismo. Il problema è reale. Se il piano è ciò che ho detto, e se le cose sono quelle che sono circa la tecnologia, lo sfruttamento delle risorse e l’ambiente umano, col piano non si decidono solo affari di breve periodo, come con le maggioranze dei governi di un tempo, ma si mette addirittura in gioco il destino delle generazioni future, e ciò va al di là della legittima competenza di qualunque maggioranza. Del resto la riserva circa l’esecuzione diretta, unitaria e collettiva del piano può fornire qualche garanzia circa l’articolazione dialettica dell’unità. Questa riserva dipende, in ultima istanza, dal fatto che la conoscenza scientifica nel campo sociale non supera il livello della identificazione delle tendenze, e non può, per definizione, prevedere le innovazioni, i casi singoli, in una parola tutto ciò che costituisce uno scarto rispetto alla tendenza prevista e al piano formulato sulla base della previsione. Il piano comporta dunque due dimensioni di esecuzione: una circa il suo svolgimento normale (che deve essere deciso da tutti) ed una circa gli imprevisti (che non possono essere risolti da una elezione, e la cui gestione deve essere pertanto affidata ad una rappresentanza con facoltà di decisione immediata). Questo livello di esecuzione del piano funzionerebbe dunque sulla base del meccanismo tradizionale della maggioranza e della minoranza (che manterrebbe così il suo ruolo costituzionale), ma con la guida del piano presidiato dal Parlamento. Questa funzione esecutiva speciale, che, riguardando gli scarti dal piano entro la logica del piano, avrebbe un eminente valore arbitrale, proprio per questa ragione, ed anche per dar luogo ad una maggioranza scelta dal popolo, dovrebbe essere svolta da un presidente eletto direttamente dai cittadini. Egli dovrebbe essere il garante dell’attuazione del piano (affidato ad un esecutivo direttamente collegato col Parlamento e bloccato sulle risultanze dell’organica elezione a cascata), come del rispetto del patto tra forze politiche e sociali sugli obiettivi del piano.
 
La volontà generale e la solidarietà.
Il problema che stiamo affrontando è quello della necessità della coincidenza della volontà generale con la formazione e la esecuzione del piano (e va osservato che in ogni caso, e quale che sia il senso delle mie proposte, è proprio questo il problema da risolvere per affrontare l’avvenire del genere umano, se è vero che esso è ormai affidato alla sua libertà e deve pertanto colmare il distacco e superare la scissione tra politica e società, potere e cultura, scienza e valore, etc.). Naturalmente la volontà generale è veramente tale — è genuina, non manipolata — se e solo se la sua formazione parte dalla volontà sociale di ogni singolo uomo, cioè dalla volontà dei gruppi presi alla dimensione nella quale si manifesta la prima, e più diretta, socialità. In termini tradizionali, si può dire che la libertà e la partecipazione degli individui possono manifestarsi efficacemente ad un livello generale — formazione della volontà pubblica, sistema elettorale, distribuzione del potere — solo se si esprimono compiutamente anche a livello locale.
Il criterio è dunque quello di far coincidere il più possibile la volontà generale con il governo a tutti i livelli. È questo il senso della democrazia partecipativa. E a mano a mano che si scende di livello, e si incontra la realtà delle relazioni quotidiane, dei rapporti sociali come rapporti personali, il criterio indispensabile per la formazione di una vera volontà generale è quello della sostituzione dei rapporti del potere con i rapporti della solidarietà. Va detto subito che ciò non è possibile senza una rivoluzione dell’urbanistica.
Sin dal livello locale la democrazia deve essere associata alla pianificazione urbanistica. L’industrialismo, distruggendo la città nel senso proprio del termine, come fitto intreccio armonico di relazioni umane (e quindi come base territoriale, materiale, della cultura), ha distrutto la solidarietà spontanea che si manifestava nell’ambito del quartiere e si elevava a coscienza culturale (a identità personale e sociale di tutti) con la parrocchia, come la città si riconosceva nel vescovado, etc. Oggi si pone il problema di eliminare la disgregazione urbana (che disumanizza i rapporti sociali), e di ridare agli uomini (a tutti gli uomini) la città con il controllo pianificato dello sviluppo e con l’organizzazione scientifica del territorio; e va da sé che si può ridare la città agli uomini solo con l’eliminazione di tutte le periferie (discriminazione territoriale) e la loro sostituzione con veri e propri poli urbani. La città deve tornare ad essere un centro di formazione della cultura e questo può avvenire solo quando ogni quartiere avrà una scuola come specchio e cultura del quartiere e ogni città un’università come specchio e cultura della città.
Al grado attuale di sviluppo dei rapporti di produzione la città non può più essere intesa come luogo fisico ma come una funzione globale, come l’insieme dei servizi cittadini organizzati sul territorio. La coscienza dell’appartenenza ad una città dovrebbe dunque coinvolgere tutti coloro i quali si servono di un certo sistema di servizi, che comprendono la produzione, il verde, la rete delle comunicazioni, dei centri culturali etc., quindi la città va intesa come disseminazione di poli urbani nel quadro del superamento della distinzione città-campagna.
 In Italia l’elezione dei comitati di quartiere e dei distretti scolastici ha messo in evidenza queste esigenze sociali, e in particolare il fatto che uno dei problemi da risolvere è quello della apertura della scuola alla società. Ma se il cuore del quartiere deve diventare la scuola — come il cuore della città l’università — non ha senso eleggere i consigli scolastici, perché è il quartiere che dovrebbe esercitare il controllo dell’orientamento sociale della scuola, come la città dovrebbe esercitare il controllo dell’orientamento sociale dell’università, mentre il controllo tecnico della scuola o è dei professori o è di nessuno. Se si elegge il quartiere, ma non gli si affida la competenza sulla scuola — quella che dà senso a tutte le altre — si elegge un guscio vuoto. D’altra parte, la scuola eletta separatamente, diventa una istituzione separata.
Questo punto va chiarito. Le competenze educative in senso stretto spettano a «specialisti» (i professori), perché la cultura e la scienza dipendono sia dall’autonomia dell’individuo (spontaneità), sia dalla società, dall’autorità insita nella società. Senza società non c’è né il sapere né la specializzazione attraverso la quale il sapere si conserva. È la società che accumula il sapere nel tempo, e questo sapere precostituito deve essere appreso così com’è, branca per branca, dal solo che lo conosce per mestiere, il professore. Solo così il sapere può essere messo a frutto dalla spontaneità e innovato. Allo stato dei fatti ciò si manifesta in modo imperfetto perché c’è separazione tra spontaneità e specializzazione e subordinazione della prima alla seconda, invece del comune collegamento dell’una e dell’altra alla società. Ma questa separazione è un fatto del potere, non del pensiero. Il legame del sapere con il tempo e con la società mostra che la specializzazione ha la sua base nella società (dal quartiere al mondo), e quindi che essa non è che una parte o un elemento della cultura della società, la quale, come tale (dal quartiere al mondo) è intrinsecamente (nella sua radice) e deve diventare esplicitamente (in modo voluto, deliberato e organizzato) la cultura di tutti.
Solo con questo rapporto vivente tra libertà individuale e libertà sociale si può ricostituire «il legame del transeunte con l’eterno», a patto, beninteso di tener presente che la scuola aperta non è una scuola separata dalla vita (come quella di oggi, che finché resta così non può certo essere vivificata solo con delle elezioni). Se è sede della cultura del quartiere e della città, deve anche essere, per tutti, biblioteca, centro sportivo, museo dell’immagine, del suono, luogo del dibattito, della conoscenza dei problemi del quartiere e della città, un vero e proprio laboratorio urbano. Solo con questa scuola, e questo legame città-scuola, si potrà ritrovare la motivazione per la rinascita della solidarietà e dell’attività, del lavoro liberamente prestato per finalità umane.
In questa prospettiva si può rinnovare il concetto che abbiamo del lavoro e della libertà. Il lavoro, nel senso di lavoro dovuto, implica pena; è la componente dell’attività umana regolata dalla legge. Ci deve essere per forza, per consentire a tutti di poter svolgere anche un’attività libera e creativa, perché la specie umana sopravvive al livello della produzione organizzata, e tanto meglio la organizza tanto più dispone di ore libere, di libertà. Essendo regolato dalla legge, il lavoro implica obbedienza da parte di tutti, per tutelare la vita sociale degli individui.
L’attività invece non dipende né dalla legge, né dal lucro né dalla sanzione. È liberamente motivata, e proprio per questo è la fonte e la sfera della moralità. Nel nostro tempo gli incentivi e gli sbocchi dell’attività sono eccezionalmente compressi, a causa della disgregazione urbana che impedisce rapporti umani tra uomo e uomo e isola tutti. A questo riguardo va dunque detto che come la libertà politica classica è possibile solo con il quadro liberale, della distribuzione del potere e quello federalistico della divisione territoriale del potere, così la libertà, nel senso esistenziale (attività), è possibile solo se il quartiere, autorealizzandosi come pienezza di vita e relazione aperta tra vita individuale e sociale, consente nella scuola aperta (aperta a tutte le attività, incluse quelle sportive, estetiche, etc.) l’incontro della domanda e della offerta culturale di tutti con tutti (tutti hanno qualcosa da insegnare e tutti hanno qualche cosa da apprendere).
 
La democrazia militante.
Quanto detto sinora sulla volontà generale e sulla partecipazione nasce anche dalla riflessione sull’esperienza democratica in Italia. Io vorrei ora riferire alla situazione storica queste considerazioni, allo scopo di avere come punto di riferimento la realtà pur restando nell’ambito dell’esame dell’elemento teorico della nostra linea politica, e quindi nell’ambito del tentativo di elaborazione di modelli (per avere scopi definiti, chiari e noti; per sapere, confrontando l’azione ai modelli, dove si va, e per non fare errori, come, ad esempio, quello della scuola eletta e del quartiere vuoto).
La democrazia, a lungo sottovalutata e combattuta anche dal marxismo volgare e, tout court dalla volgarità, è in effetti una punta estremamente avanzata — ed ancora precaria — dell’evoluzione storica. È recente in Europa e in America; è quasi inesistente nel resto del mondo, dove costituisce un grande traguardo da raggiungere. Per questo ciò che accade nei paesi democratici è molto importante, ed è importante in modo particolare ciò che accade nei due grandi banchi di prova della democrazia: la Germania e l’Italia.
L’Italia e la Germania sono due pietre di paragone perché sono due democrazie sperimentali, le due grandi democrazie sperimentali, sia per il legame tra la cultura moderna e il passato della Germania e dell’Italia, sia per i problemi che esse devono risolvere per portare a compimento la piena trasformazione democratica della società.
La democrazia è costume, è connaturata con la coscienza popolare nell’area francese e in quella anglosassone, dove essa ha alle spalle la rivoluzione francese, cioè la grande rivoluzione democratica della storia umana, o la storia dello Stato come evoluzione costituzionale (va tenuto presente che i grandi fatti storici sono veri e propri «fatti culturali»: educano il popolo per il solo fatto della loro esistenza). Quando un francese, o un anglosassone, pensa al passato del suo paese, pensa alla democrazia. Ma questo non succede ai tedeschi e agli italiani. I tedeschi e gli italiani devono decidere di essere democratici, e devono deciderlo in parte contro il loro stesso passato; e devono anche imparare ad esserlo, esserlo con la ragione perché non lo sono ancora pienamente secondo il costume.
La democrazia in Germania e in Italia è in parte una realtà, in parte un progetto; ed è per questo che i fatti della Germania e dell’Italia mettono in evidenza i problemi che si devono affrontare nella costruzione di una democrazia; e in un modo che completa l’insegnamento esemplare e insostituibile della storia francese e di quella anglosassone perché si tratta della costruzione della democrazia nella società di oggi, e, cosa egualmente essenziale, a causa dell’unità sempre maggiore del mondo, della costruzione della democrazia non come Stato chiuso, esclusivo, ma come Stato aperto, come Stato membro di una comunità federale di Stati anch’esso in via di costruzione (l’Europa).
Sulla base di questo punto di vista, si può dire che in Italia è emerso il problema di far coincidere la volontà generale con il governo (democrazia partecipativa). Ma sono proprio i limiti e i difetti dell’esperienza italiana che inducono a pensare che l’esperienza tedesca abbia messo in evidenza l’altro aspetto del problema, quello di far coincidere la volontà generale con il diritto (democrazia militante). In pratica in Italia ci sono esperienze di partecipazione (quartieri, distretti scolastici etc.) che restano sempre sul piano della intenzione, senza raggiungere quello della realtà della partecipazione, perché non sono organizzati in modo tale da coincidere con veri e propri momenti di formazione della volontà generale. E, in Germania, ci sono esperienze di democrazia militante (caso clamoroso il Berufsverbot) che, essendo mal definite, prestano il fianco ad equivoci anche pericolosi, e non consentono ancora di vedere con chiarezza la via, che è quella della formazione della legalità come volontà generale. Questo è il criterio: la coincidenza della volontà generale con il diritto. Va in ogni caso osservato che chi — per ignoranza o puntando sulla ignoranza — dice «democrazia protetta» invece di «democrazia militante», mente, o resta prigioniero di una menzogna; e va anche osservato che qualunque antifascista che non sia un imbelle o colpevole prefascista deve porsi il problema della caduta della democrazia nella dittatura (è un grande merito morale e culturale della Germania, dopo Weimar e il nazismo, quello di aver posto il problema della democrazia militante, cioè il problema di una democrazia che considera la libertà, la legalità e la costituzionalità un bene da difendere, e non una cosa alla mercè dei violenti e dei fraudolenti; come si può considerare un merito morale e culturale dell’Italia della Resistenza quello di aver posto il problema della democrazia partecipativa).
Ma a quale punto la democrazia militante adegua la volontà generale alla legalità e viceversa? La Germania ha posto il problema, l’Italia deve affrontarlo per la consistenza dell’area del terrorismo, dell’eversione, dell’estremismo e dell’ostilità ai principi costituzionali della democrazia (comune a molti italiani anche colti sia per i limiti della tradizione liberale in Italia, sia per gli aspetti negativi a fianco di quelli positivi, spesso senza una distinzione abbastanza netta — della cultura socialista, comunista e cattolica). Il fondamento della questione sta nel fatto che non si dovrebbe adoperare la libertà per distruggere la libertà. Un comportamento di questo genere sta fuori dal patto sociale, sta fuori dalla volontà generale e forse proprio per questo rilievo può indicare la soluzione. Io vorrei provare a dire questo: quando si acquista il diritto di voto, a 18 anni, si dovrebbe prestare giuramento non dico a questo Stato così com’è, ma alla legalità e alla costituzionalità (anche a scopo educativo, per creare un «fatto culturale» nel quale sia contenuta la difficile storia dell’uomo verso la libertà). Chi non giura, perché non si è convinto della validità dei principi della democrazia — e fino a che non muti opinione e presti giuramento — non dovrebbe avere diritti politici, ma essere considerato un ospite (non ha senso non credere nella democrazia e votare). Come ospite, non potrebbe avere porto d’armi etc. La sua libertà (sua nel vero senso della parola, la libertà di essere quel che è, e non di camuffarsi) sarebbe più sicura (non sarebbe sospettato come lo sono fatalmente gli estremisti in presenza di terroristi); il suo rapporto con i cittadini dello Stato che lo ospita sarebbe pienamente leale, cioè tale da incutere rispetto, sino a rendere umana, come dovrebbe essere la convivenza del cittadino con l’ospite, con lo straniero che non ha ancora o non può avere una patria. Ciò che oggi si chiama, o è, repressione, sarebbe tolleranza, sarebbe libertà, perché è certo libertà, per un’ospite, poter fare e dire tutto, salvo il mettere in pericolo lo Stato, salvo la violazione del patto di ospitalità.
Il terreno ancora ambiguo del delitto d’opinione, spesso così difficile da distinguere dal diritto alla libera espressione del pensiero non sarebbe del tutto chiarito. Ma sarebbe molto chiara la violazione del giuramento (che dovrebbe comportare pene gravi, e gravissime in caso di recidiva); come sarebbe molto chiara la violazione del patto di ospitalità (a cominciare dal possesso di armi che dovrebbe essere considerato, per l’ospite, un reato gravissimo). L’azione politica senza il rispetto della legalità e della costituzionalità diventerebbe molto difficile e molto rischiosa. Essendo perseguibile come violazione del giuramento o del patto di ospitalità, non potrebbe in ogni caso essere organizzata, né elaborata, né propagandata, pubblicamente; e quindi, rendendo impossibile la formazione di gruppi extralegali che si valgono dei rapporti legali, priverebbe coloro che accettano di pagare il prezzo del segreto e della clandestinità di qualunque rapporto con la società mediante gruppi di fiancheggiatori, estimatori etc. Chi ritiene che nelle moderne democrazie la rivoluzione violenta abbia ancora un ruolo da svolgere, dovrebbe in ogni caso ben sapere che solo la rivoluzione molto difficile trova i suoi veri fedeli.
A questo punto vorrei dire che pensare il nuovo è difficile. Può darsi che ciò che ho detto circa il problema della democrazia militante abbia poco senso. Ma il problema ha senso, e bisogna provare a dire qualcosa. E bisogna dire qualcosa che vada nel senso della lealtà, della fedeltà, della virtù. Bisogna che il diritto alla libertà torni ad essere una cosa alta, un confronto di ciascuno con se stesso, con la sua responsabilità, con la sua umanità. In ogni caso va osservato per una valutazione obiettiva della questione che, oggi, la libertà coincide con il progresso sociale, con il progresso della giustizia. Fino a che gli operai non avevano diritto di voto né di associazione, né un adeguato potere contrattuale sia nella sfera economica sia nella sfera politica, la libertà prosperava sul terreno del privilegio. Ma negli Stati con il suffragio universale, con la libertà del movimento operaio sul piano politico e su quello economico, con l’economia mista, con la possibilità della pianificazione, solo con la libertà di ognuno si serve la libertà di tutti, solo con la libertà si possono spostare i rapporti economici, sociali e politici dal terreno del privilegio a quello della giustizia. Chi si vale della libertà per distruggere la libertà non è solo contro la democrazia. È anche contro la marcia in avanti del movimento operaio verso l’uguaglianza e il superamento definitivo dei privilegi di classe.
Vorrei ora concludere questo discorso ancora incerto con due proposte chiare. Si fa politica a caso, con il rischio di non ottenere alcun risultato, o risultati opposti a quelli sperati, se con la propria azione non si stabilisce un rapporto concreto con la condizione umana effettiva e con il corso delle cose, il corso della storia, che è determinato dai bisogni e dai problemi degli uomini di oggi, con le loro capacità e i loro limiti. Chi nuota contro la corrente di un fiume, o torna a riva o annega. Lo stesso vale per il corso della storia. E a me pare, come vi ho detto, che la riconversione industriale, se pensata nella sua vera realtà, indichi quale sia, e quale possa essere, il corso della storia. Solo se questo processo non verrà frenato e distorto, potremo costruire nuove forme di società e nuove forme di Stato. E non basta. Ci sarà rinnovamento della società e dello Stato solo con il concorso della volontà di tutti, cioè solo mediante progetti ed azioni che concepiscono questo rinnovamento come un nuovo, e più alto, stadio di formazione della volontà generale. Pensare il rinnovamento della società e dello Stato, senza pensarlo in termini di volontà generale, sarebbe come mettersi fuori e sopra la volontà generale, cioè retrocedere e non avanzare sulla via della democrazia.


* Testo registrato di una conferenza tenuta a Milano il 4 marzo 1978 ad un gruppo di giovani federalisti

 

 

 

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