IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XX, 1978, Numero 4, Pagina 131

 

 

Elezione europea e formazione
del sistema partitico europeo
 
LUCIO LEVI
 
 
1. Il dibattito sull’elezione europea e la fase politica dell’integrazione europea.
Il dibattito sull’elezione europea è in pieno svolgimento in tutti i paesi della Comunità.
I dibattiti sulle ratifiche della convenzione elettorale europea da parte dei Parlamenti nazionali e sulle leggi che disciplineranno l’elezione europea nei singoli paesi hanno rappresentato un’occasione nella quale i partiti hanno definito con maggiore chiarezza di quanto non avessero fatto in passato i loro orientamenti europei. Si sono così precisate le prospettive, ma anche i limiti, dello sviluppo dell’integrazione europea aperte dall’elezione europea. A questo proposito bisogna distinguere l’atteggiamento delle forze politiche nei confronti del principio dell’elezione europea da quello relativo al ruolo del Parlamento europeo eletto.
Rispetto alla prima questione, l’approvazione della convenzione elettorale europea, avvenuta dovunque con l’appoggio di amplissimi schieramenti di forze, ha messo in luce come il principio della trasformazione democratica della Comunità europea si sia ormai imposto. Al Bundestag della Repubblica Federale Tedesca e al Senato italiano la convenzione elettorale europea è stata approvata all’unanimità. Ma anche in Francia e in Gran Bretagna, dove le opposizioni erano più consistenti, alla fine si sono imposte larghe maggioranze. All’Assemblea nazionale francese la ratifica è avvenuta senza un voto, poiché, avendo il governo, in conformità con le regole costituzionali, impegnato la sua responsabilità, non è stata depositata nessuna mozione di censura. Al Senato la convenzione è stata adottata con 221 voti a favore, nessuno contrario, l’astensione dei senatori comunisti, mentre 30 senatori gollisti su 32 non hanno preso parte al voto. In Gran Bretagna, alla Camera dei Comuni, l’elezione europea è stata approvata con 381 voti a favore, 98 contrari e 105 astensioni. Tutti questi fatti mettono in luce come il passaggio a una nuova fase dell’integrazione europea (quella politica) si sia affermato con il consenso della grandissima maggioranza delle forze politiche.
Analogamente, la fase economica era iniziata malgrado l’opposizione o l’astensione di gran parte delle forze di sinistra, le quali poi mutarono atteggiamento e decisero di operare all’interno della Comunità per trasformarla. Con lo sviluppo dell’integrazione europea il numero delle forze europeistiche è continuamente cresciuto, tant’è vero che oggi si può affermare che il grosso delle forze politiche non solo accetta l’integrazione europea, ma è anche favorevole alla trasformazione democratica della Comunità, e partiti che ancora recentemente si erano dichiarati ostili a qualsiasi sviluppo dell’unificazione europea, come i gollisti e i laburisti, si sono divisi al momento del voto. Parallelamente, l’influenza internazionale della Comunità è cresciuta a tal punto da costringere l’Unione Sovietica, che ne aveva preconizzato la disgregazione, a riconoscerne la realtà e gli Stati Uniti a rimettere in discussione il loro sostegno all’unificazione europea di fronte al rafforzamento e alla competitività dell’economia dell’Europa occidentale. Grandi forze politiche e grandi potenze hanno quindi dovuto mutare la loro posizione di fronte al dinamismo dell’integrazione europea, che è sospinta da una forza storica irresistibile, più forte della volontà di qualunque governo e di qualunque partito, la forza che si sprigiona dall’evoluzione del modo di produrre. Essa impone a tutti i settori della vita sociale una dimensione molto più ampia di quella delle nazioni tradizionali. Si tratta dunque di un processo di cambiamento che si può accelerare o ritardare, non accettare o respingere. Ciò non implica che la federazione sia l’unico possibile sbocco dell’integrazione europea. Ma è certo che la lotta per raggiungere questo obiettivo, dopo l’acquisizione dell’elezione europea, si è spostata su un piano più avanzato: quello dei poteri da trasferire dalle istituzioni nazionali a quelle europee.[1]
Per quanto riguarda l’atteggiamento delle forze politiche nei confronti del ruolo che dovrà svolgere il Parlamento europeo eletto, come risulta dalle limitazioni poste dal governo e dal Parlamento francese e inglese, si deve constatare che, nel momento attuale, non esistono in Europa forze sufficienti all’attribuzione di un mandato costituente al Parlamento europeo e a una revisione formale dei trattati. Mentre invece è largamente accettata la prospettiva di un’estensione dell’influenza del Parlamento nel quadro dei meccanismi di decisione previsti dal trattato di Roma. Dunque una strategia per l’unità europea che puntasse in modo diretto e immediato all’obiettivo costituente e al trasferimento di poteri dagli Stati all’Europa non otterrebbe nessun risultato. Da questa constatazione non deriva però la conseguenza che la Comunità europea rimarrà immutata dopo l’elezione diretta del Parlamento europeo. La nostra ipotesi è che essa sarà già uno Stato, che si tratterà di rafforzare, attribuendogli più poteri.[2]
 
2. Schieramento europeo dei partiti e rafforzamento delle istituzioni europee.
L’interesse dell’elezione europea consiste nel fatto che permette di affrontare il problema del trasferimento del potere dal piano nazionale al piano europeo in modo indiretto e graduale. La chiave di volta di questa importante trasformazione della Comunità europea sta nella formazione di un sistema europeo di partiti. La decisione relativa alla data dell’elezione europea ha spinto i partiti a prendere le iniziative necessarie in vista del confronto elettorale e dell’esigenza di orientare le scelte degli elettori sul piano europeo. Ha cominciato così ad attivarsi la competizione tra i partiti secondo schemi analoghi a quelli che si manifestano all’interno degli Stati: organizzazione europea dei partiti, programmi europei, candidature europee di grandi personalità e incontri tra le confederazioni europee dei partiti per fissare le regole della campagna elettorale.
Se si tiene conto del fatto che nello Stato moderno il sistema dei partiti (o il partito unico) è il meccanismo nel quale risiede la sostanza del potere politico, che controlla il processo politico e che produce le decisioni politiche, è prevedibile che il sistema dei partiti tenderà ad assumere sul piano europeo le stesse funzioni che ha sul piano nazionale. Da una parte, organizzare il consenso dell’opinione pubblica e aggregare interessi economici e sociali, d’altra parte, produrre decisioni politiche.
Dovendo chiedere il voto e ottenere il consenso su opzioni europee, i partiti saranno spinti ad affrontare in termini operativi i grandi temi della politica europea, allo scopo di dimostrare di essere capaci di esercitare un’influenza effettiva sulla realtà politica europea. Non è infatti pensabile che l’elezione europea possa suscitare l’interesse e mobilitare la partecipazione dell’opinione pubblica e, in prospettiva, attivare i meccanismi della pressione e dell’influenza degli interessi economici e sociali sull’emergente sistema europeo dei partiti senza che ogni partito sappia proporre una soluzione positiva della crisi della Comunità nei suoi due aspetti fondamentali: contribuire alla soluzione dei problemi, soprattutto di carattere economico (occupazione, inflazione, squilibri territoriali ecc. …), che non si possono risolvere o che si risolvono male sul piano nazionale, e offrire una prospettiva di sviluppo alla costruzione europea.
In effetti, l’elezione europea, estendendo il diritto di voto sul piano supernazionale, permetterà di ristabilire le condizioni del controllo democratico su quei settori della vita politica, dai quali dipende il destino degli Europei e che sono dominati da centri di potere politici ed economici internazionali: il Consiglio dei ministri della Comunità, il governo americano e le società multinazionali.
Il terreno decisivo sul quale i partiti potranno dimostrare la capacità di superare i particolarismi nazionali, di affrontare i maggiori problemi e di rafforzare, di conseguenza, la coesione delle istituzioni europee è l’elaborazione dei programmi europei, cioè di sintesi efficaci tra differenti posizioni nazionali e di linee politiche comuni al di sopra delle divisioni nazionali.
In sostanza, lo schieramento europeo dei partiti e lo spostamento della lotta politica sul piano europeo determineranno un crescente impegno europeo dei partiti e un rafforzamento della loro volontà europea. Proprio perché tenderà a riprodurre sul piano europeo linee di divisione e conflitti esistenti nei singoli Stati, la lotta tra i partiti costituirà un elemento determinante del rafforzamento della Comunità. Così, il sistema dei partiti tenderà a trasformarsi in un meccanismo di decisione operante sul piano europeo. Naturalmente, nel perseguire questo obiettivo, i partiti si scontreranno con i limiti delle istituzioni europee e dovranno affrontare il problema dell’estensione del ruolo del Parlamento europeo, necessario a rendere efficace il funzionamento del processo di formazione delle decisioni politiche, e del rafforzamento dell’influenza del Parlamento rispetto alla Commissione (nei confronti della quale il trattato di Roma riconosce al Parlamento il diritto di censura), e al Consiglio dei ministri, indispensabile all’esecuzione delle decisioni.
La direzione politica della Comunità diventerà l’oggetto della lotta tra i partiti. Di conseguenza, lo spostamento sul piano europeo della lotta tra i partiti comporterà il progressivo trasferimento di sostanziali poteri di decisione dal piano nazionale al piano europeo. L’elezione europea sprigionerà dunque una dinamica nuova nell’equilibrio istituzionale della Comunità, che tenderà a sottrarre al Consiglio dei ministri e al Consiglio europeo dei capi di governo, cioè agli Stati, il monopolio del potere di decisione e a rafforzare il ruolo del Parlamento e della Commissione, che tenderanno a trasformarsi in veri e propri centri di decisione al di sopra degli Stati.
L’elezione europea sta producendo fin d’ora importanti cambiamenti e il più rilevante, l’organizzazione europea dei partiti, è il punto di partenza per imprimere una svolta sul piano politico al processo di unificazione europea.
È quindi necessario analizzare più particolareggiatamente le tendenze che si sono manifestate, o che è prevedibile si manifesteranno, nel processo di formazione e nel funzionamento del sistema europeo dei partiti. La principale tendenza messa in luce dall’emergente sistema partitico europeo è l’affermazione di tre raggruppamenti politici sul modello del sistema dei partiti della Gran Bretagna e della Repubblica Federate Tedesca. Essa comporta che negli Stati che si discostano da questo modello con ogni probabilità si accelereranno i processi già in atto verso la semplificazione del sistema dei partiti e la modifica dei rapporti di forza tra i partiti. Vediamo separatamente questi processi.
 
3. La semplificazione del sistema dei partiti.
Per formulare una previsione sulle tendenze del sistema europeo dei partiti e sulle prospettive di ciascun partito in vista dell’elezione europea, può essere utile partire dall’analisi dei gruppi politici del Parlamento europeo. Anche se per molti anni i comunisti sono rimasti esclusi dal Parlamento europeo e i laburisti inglesi si sono auto-esclusi in attesa dell’esito del referendum relativo al rinegoziato dell’adesione del Regno Unito alla Comunità europea, oggi il Parlamento europeo rispecchia, sia pure con le distorsioni derivanti dalla diversità dei sistemi elettorali in vigore nei singoli Stati, il panorama delle principali forze politiche della Comunità.
D’altra parte, siccome i gruppi politici del Parlamento europeo non sono organizzati secondo linee di divisione nazionali, ma sulla base di legami di affinità ideologica, la loro composizione ci offre un primo approssimativo quadro d’insieme delle potenzialità di ciascuno degli oltre cinquanta partiti rappresentati nell’Assemblea di Strasburgo di confluire in una formazione politica europea e alcune indicazioni generali sui lineamenti dell’emergente sistema europeo dei partiti.
L’analisi della composizione dei sei gruppi politici presenti nel Parlamento europeo rivela, da una parte, una tendenza alla semplificazione degli schieramenti politici, messa in evidenza dalla confluenza nel medesimo gruppo di partiti che competono tra di loro sul piano nazionale (i partiti socialista e socialdemocratico italiani fanno parte del gruppo socialista, i tre partiti cristiani olandesi e i due belgi fanno parte del gruppo democristiano, i liberali e i repubblicani italiani e i repubblicani francesi e i piccoli partiti loro alleati fanno parte del gruppo liberale e democratico e così via) e, d’altra parte, il carattere europeo di tre soli schieramenti politici, quello socialista (esteso ai nove paesi della Comunità), quello liberale (assente soltanto in Irlanda) e quello democristiano (assente in Gran Bretagna e in Danimarca); mentre il gruppo comunista (che raggruppa il P.C.I. e gli indipendenti di sinistra in Italia, il partito comunista francese e il partito socialista popolare danese) e il gruppo dei democratici europei per il progresso (di cui fanno parte i gollisti, il Fianna Fail irlandese e il partito progressista danese) riuniscono parlamentari di tre soli paesi; il gruppo conservatore è composto da parlamentari originari di due soli paesi (la Gran Bretagna e la Danimarca); infine altri partiti, come i partiti di estrema destra italiani o altri partiti a carattere regionale, da soli o alleati con partiti affini, non raggiungono la forza necessaria a costituirsi in gruppo politico.
Queste considerazioni sono confermate dal fatto che, dei sei gruppi che esistono attualmente nel Parlamento europeo, soltanto i tre principali si sono organizzati in confederazioni di partiti europei (l’Unione dei partiti socialisti della Comunità europea, costituitasi nell’aprile 1974, che rappresenta il consolidamento dell’Ufficio di collegamento dei partiti socialisti della Comunità europea, la cui costituzione risale al 1957, la Federazione dei partiti liberali e democratici della Comunità europea, costituitasi nel marzo 1976, e il Partito popolare europeo, federazione dei partiti democratici cristiani della Comunità europea, costituitosi nel luglio 1976) sul solco dell’esperienza e del lavoro svolto dai gruppi politici del Parlamento europeo.
Nel marzo 1978 si è costituito un quarto raggruppamento di ispirazione conservatrice, l’Unione democratica europea, che però non si è data, almeno per ora, una struttura organizzativa e quindi non si può porre sullo stesso piano delle confederazioni europee dei partiti. Vi hanno aderito, oltre ai conservatori inglesi e danesi, che fanno parte del gruppo conservatore del Parlamento europeo, il partito gollista, i due partiti democristiani tedeschi (i quali così appartengono contemporaneamente a due schieramenti europei) e altri cinque partiti di Stati che non appartengono alla Comunità, come il partito popolare austriaco, il partito democristiano portoghese e i partiti conservatori norvegese, svedese e finlandese. Appare evidente la complementarità tra l’Unione democratica europea e il Partito popolare europeo, il quale, per completare il quadro dei propri collegamenti europei, ha bisogno di rafforzarsi in Francia, dove il suo peso è irrilevante e di radicarsi in Gran Bretagna, in Danimarca e, nella prospettiva dell’allargamento della Comunità, negli altri paesi nordici, dove non esistono partiti di ispirazione cristiana. L’ipotesi della complementarità è confermata dal ruolo di cerniera, svolto dai democristiani tedeschi, i quali sono favorevoli alla fusione tra conservatori e popolari, prospettiva che finora non si è potuta realizzare a causa dell’opposizione dei democristiani italiani e del Benelux.
La prospettiva del confronto elettorale europeo stimola dunque i partiti a prepararsi a occupare lo spazio che si apre nella nuova dimensione della lotta politica. Questa prospettiva, da una parte, ha accelerato il processo di aggregazione tra i partiti in seno alla Comunità europea e ha imposto a ogni partito una scelta circa la sua collocazione europea più precisa e più impegnativa di quanto non sia mai avvenuto in passato. Ciò ha comportato in certi casi un vero e proprio cambiamento della collocazione europea di alcuni partiti: per esempio, i repubblicani italiani, che appartenevano al gruppo socialista del Parlamento europeo, hanno aderito al gruppo liberale e alla Federazione liberal-democratica, così il Movimento dei radicali di sinistra, che in Francia appartiene allo schieramento delle sinistre, sul piano europeo tende a gravitare nell’area liberal-democratica.
D’altra parte, si è aperta una più ampia sfera di azione politica sul piano europeo, che riguarda lo sviluppo di relazioni e di legami tra le confederazioni europee dei partiti e i partiti analoghi dei paesi candidati effettivi o potenziali alla adesione alla Comunità. Molto intense sono state le relazioni tra gli schieramenti partitici europei e i partiti spagnoli, i quali, nel corso della fase costituente, che si è aperta dopo la morte di Franco, avevano particolarmente bisogno di una legittimazione internazionale.
Malgrado la grande varietà e l’apparente confusione delle formazioni politiche esistenti nei nove paesi della Comunità europea, è possibile individuare nettamente le tre tendenze fondamentali destinate ad affermarsi in futuro nel sistema europeo dei partiti: quella socialista, che si collocherà sulla sinistra, quella liberal-democratica, che occuperà una posizione di centro e quella popolare-conservatrice, che si schiererà su una posizione di destra. Attorno ad esse verosimilmente tenderanno ad aggregarsi le formazioni politiche minori, soprattutto in vista della seconda elezione europea, la quale, con la creazione di un sistema elettorale unico, si svolgerà in modo uniforme su tutto il territorio della Comunità. Questa prospettiva stimolerà le forze politiche a precisare la loro fisionomia e a consolidare la loro integrazione sul piano europeo.
Nel loro nucleo fondamentale le tre tendenze che si esprimono nelle confederazioni europee di partiti sono le eredi delle principali correnti politiche che si sono contese il potere nei singoli Stati nel corso della storia dell’Europa contemporanea, quella conservatrice, quella liberale e quella socialista, che a loro volta sono espressione della lotta di classe, che, in una prima fase, ha opposto l’aristocrazia alla borghesia e, successivamente, la borghesia al proletariato.
I partiti democristiani, che sono nati come partiti di centro, portatori di un modello sociale diverso dal capitalismo e dal socialismo e con una funzione di difesa della Chiesa e del mondo cattolico nei confronti dell’anticlericalismo dei liberali e dei socialisti, oggi tendono a occupare lo spazio della destra moderata.
Con la secolarizzazione della vita politica, che dovunque si afferma parallelamente allo sviluppo della società industriale, appare sempre più evidente che la specificità della visione cristiana non si colloca sul piano politico. Nello stesso tempo, le divisioni sui problemi religiosi hanno cessato di costituire la base di seri motivi di conflitto sul piano politico, di modo che l’esistenza dei partiti a base religiosa ha perso ogni giustificazione.
Tutto ciò ha determinato la tendenza dei partiti democristiani a collocarsi su una posizione di destra moderata (emblematica a questo proposito è l’evoluzione dei democristiani tedeschi). Nello stesso tempo, si è manifestata la tendenza delle correnti minoritarie cristiano-sociali a spostarsi nell’area socialista (significativo sotto questo profilo è l’impegno dei cattolici in seno al Partito socialista francese).
D’altra parte, con la vittoria della borghesia sull’aristocrazia, che ha determinato l’avvicinamento e a volte la fusione tra conservatori e liberali, nelle società occidentali la frattura sociale principale è diventata quella che ha opposto la borghesia al proletariato. Malgrado che la distinzione tra conservatori e liberali abbia perduto la sua base sociale, l’inerzia delle istituzioni politiche permette ai partiti di ispirazione liberal-democratica di mantenere la loro autonomia e di occupare, quasi dovunque, una posizione di centro nei sistemi dei partiti.
Infine, il riconoscimento dei diritti politici ed economici della classe operaia ha creato le condizioni per l’adozione da parte delle principali componenti della sinistra di una strategia di lotta per la transizione al socialismo di carattere riformistico da realizzarsi all’interno del sistema democratico. Ciò ha permesso di avviare il superamento delle divisioni storiche tra socialisti, socialdemocratici e laburisti (che sono confluiti nell’Unione dei partiti socialisti della Comunità europea) e può permettere, in prospettiva, il superamento della frattura tra queste forze politiche e i partiti comunisti.
 
4. La struttura delle confederazioni europee di partiti.
La struttura dei raggruppamenti europei di partiti, che si sono costituiti (la Federazione liberal-democratica e il Partito popolare europeo) o che hanno potenziato la loro attività (l’Unione dei partiti socialisti) in vista dell’elezione europea, si modella su quella delle «internazionali». Si tratta cioè di associazioni di partiti nazionali indipendenti e non di associazioni fondate sull’adesione degli individui e sulla loro partecipazione democratica alla formazione delle decisioni politiche sul piano internazionale. La loro struttura è fatta in modo da garantire la massima autonomia dei singoli partiti e la subordinazione dell’organizzazione europea alle esigenze nazionali. Tenuto conto di questo stato di cose, sembra appropriato designare questi raggruppamenti europei «confederazioni di partiti». Questa espressione corrisponde, per esempio, al fatto che alla prima elezione europea probabilmente parteciperanno con simboli distinti partiti appartenenti allo stesso Stato e affiliati allo stesso raggruppamento europeo, oppure al fatto che la scelta dei candidati alla prima elezione europea rimarrà competenza esclusiva degli organi direttivi nazionali.
Il carattere confederale delle strutture europee dei partiti è il riflesso dei bisogni di questi ultimi nell’attuale fase di sviluppo dell’integrazione europea, in cui, da una parte, i centri di decisione nazionali hanno ancora un peso preponderante rispetto a quelli europei e, d’altra parte, la prospettiva elettorale europea li spinge a prepararsi ad assumere nuove responsabilità sul piano europeo. Questa prospettiva tende a trasferire dal piano nazionale al piano europeo il dibattito relativo alla definizione del programma elettorale, mentre la sua attuazione in seno al Parlamento europeo esigerà il rafforzamento del potere delle strutture europee dei partiti. In ogni caso, la formazione di un sistema europeo di partiti deve essere concepita come un processo radicalmente differente da quello che ha dato origine ai partiti nazionali. Infatti, mentre questi ultimi si modellano sulla struttura accentrata dello Stato nazionale, i partiti europei avranno poteri limitati, relativi ai problemi che dovranno essere affrontati sul piano europeo, mentre i partiti nazionali manterranno tutti i poteri relativi alle scelte politiche nazionali. Così il rapporto tra i partiti e gli altri gruppi sociali fiancheggiatori tenderà a modellarsi secondo forme aperte e flessibili, per adeguarsi alle esigenze di autonomia delle forze sociali che convergono sui partiti e di libera partecipazione alla definizione della piattaforma elettorale e della linea politica del partito.
 
5. La modifica dei rapporti di forza tra i partiti.
Ma la prospettiva dell’elezione diretta del Parlamento europeo modifica anche le prospettive politiche dei partiti. Siccome fino ad oggi i membri del Parlamento europeo non sono eletti a suffragio universale diretto, ma in modo indiretto e in misura proporzionale alla rappresentanza di ciascun partito in seno ai parlamenti nazionali, il peso politico di ciascun partito nel Parlamento europeo dipende dal consenso che è riuscito a ottenere nella lotta che ha per oggetto la conquista e la gestione del governo nazionale rispetto alla quale la politica europea costituisce solo un elemento. Invece, con l’elezione diretta del Parlamento europeo, i partiti chiederanno il voto e otterranno il consenso su opzioni europee. E nel contesto europeo verranno meno alcuni fattori, che hanno condizionato il successo di certi partiti sul piano nazionale, mentre invece per altri partiti la dimensione europea aprirà una prospettiva di crescita, il che pone il problema della modifica dei rapporti di forza tra i partiti.[3] Occorre quindi domandarsi quali sono i fattori che condizioneranno il successo dei partiti sul piano europeo.
Un primo fattore consiste nella capacità di ciascun partito di dimostrare di appartenere a un forte schieramento esteso alla maggior parte dei paesi della Comunità europea e, al limite, a tutta la Comunità. Solo gli schieramenti socialista, liberal-democratico e popolare possiedono questi requisiti.
Se prendiamo in esame le prospettive dell’Unione dei partiti socialisti della Comunità europea, ciò che si intravvede nella prospettiva aperta dall’elezione europea è il superamento della divisione e dell’impotenza della sinistra, che sta alla base del fallimento tanto della strategia dei partiti socialdemocratici, i quali si sono dimostrati disposti ad allearsi in una posizione subalterna con le forze di destra e a scegliere come punto di riferimento internazionale gli Stati Uniti e non hanno saputo, di conseguenza, andare al di là della gestione dell’ordine costituito, quanto dei partiti comunisti, i quali sono rimasti isolati all’opposizione, perché non ancora integrati nella tradizione e nelle istituzioni liberal-democratiche dell’Occidente e subordinati alla politica estera dell’Unione Sovietica.
Lo schieramento comunista, pur essendo esteso a tutti i Paesi della Comunità, eccetto l’Irlanda, ha un peso rilevante solo in Italia e in Francia e solo in Italia il partito comunista è il più forte della sinistra. Sul piano europeo, i rapporti di forza giocano quindi nettamente a favore dei socialisti, i quali possono contare su oltre il 30% dell’elettorato, mentre i comunisti raccolgono attorno al 10% dei consensi. La formula dell’eurocomunismo non indica del resto la prospettiva dell’organizzazione sul piano europeo di una corrente politica di ispirazione comunista, prospettiva che è esclusa dai partiti comunisti in linea di principio, ma designa invece alcune caratteristiche dei partiti comunisti dell’Europa occidentale, che convergono su alcuni obiettivi, come la costruzione del socialismo nella libertà, il rifiuto della dittatura del proletariato, l’autonomia politica e ideologica rispetto all’Unione Sovietica e una strategia delle alleanze che punta sull’unità della sinistra e sulla convergenza di ampi schieramenti di forze democratiche. Queste scelte mettono in luce la possibilità, in prospettiva, di una confluenza della componente comunista nell’alveo del socialismo europeo e valorizzano la funzione storica del modello e della tradizione democratica del socialismo occidentale, malgrado le degenerazioni socialdemocratiche, in antitesi al modello leninista. Questa prospettiva assume tutto il suo rilievo se si prendono in considerazione i due ostacoli, che impediscono di trasformare la linea dell’eurocomunismo in una forza politica organizzata sul piano europeo: la divisione tra P.C.I. e P.C.F. sul ruolo del Parlamento europeo eletto (mentre il P.C.I. è favorevole all’attribuzione di un ruolo costituente al Parlamento europeo, il P.C.F. è attestato su una posizione di difesa intransigente della sovranità nazionale) e il contrasto tra i partiti comunisti dell’Europa occidentale e l’Unione Sovietica (l’autonomia della linea eurocomunista non si può spingere fino a creare vincoli di carattere politico e organizzativo sul piano comunitario senza giungere a un punto di rottura con Mosca; malgrado l’indebolimento del P.C.U.S. in seno al movimento comunista internazionale, l’Unione Sovietica costituisce ancora un punto di riferimento per i partiti comunisti dell’Europa occidentale, perché, nell’attuale stato di divisione dell’Europa, la completa autonomia da Mosca finirebbe col far cadere i comunisti occidentali sotto l’influenza degli Stati Uniti, come è avvenuto ai socialisti italiani all’epoca dell’apertura a sinistra).
D’altra parte, i gruppi che si collocano a sinistra dei partiti comunisti, sottovalutando l’importanza dell’elezione europea, si precludono ogni possibilità di influire sul processo costituente dello Stato europeo.
Così, lo schieramento, che potrà scaturire dalla riunificazione della sinistra nel quadro europeo, aprirà la prospettiva del superamento tanto dei limiti del comunismo, quanto della socialdemocrazia e potrà dare un’importante contributo all’affermazione di un modello di società, che permetta di conciliare le libertà individuali con la giustizia sociale, il mercato con il piano, cioè gli aspetti positivi del sistema occidentale e di quello orientale. Le potenzialità di raggiungere questi obiettivi esistono soltanto in Europa, dove, accanto a un regime di libertà personali, che ha le più antiche tradizioni del mondo, esiste un movimento socialista profondamente radicato e un sistema di economia mista e di programmazione economica.
Quanto alle prospettive della Federazione dei partiti liberali e democratici, l’esperienza degli Stati che in Europa si sono spinti più avanti sulla strada della semplificazione del sistema dei partiti, la Gran Bretagna e la Repubblica federale tedesca, mostrano che i partiti liberali rappresentano una realtà solidamente radicata al centro del sistema politico e possono svolgere un ruolo di partiti di governo, alleandosi con una delle due maggiori forze politiche, quando il loro apporto sia necessario per formare in Parlamento la maggioranza. È quindi ragionevole pensare che lo schieramento liberal-democratico sia destinato ad affermarsi sul piano europeo, occupando una posizione di centro. Infatti, da una parte, le conquiste della rivoluzione liberale costituiscono un patrimonio che deve essere continuamente difeso e, d’altra parte, sul piano europeo si aprirà uno spazio nuovo alla lotta per il superamento degli aspetti accentratori e autoritari dello Stato nazionale e per l’estensione delle libertà individuali e dei diritti civili. Se queste premesse hanno un fondamento, è prevedibile che il raggruppamento liberal-democratico si rafforzerà nel Parlamento europeo, a condizione di saper far convergere su una piattaforma comune, chiaramente qualificata in senso liberale e democratico, le tendenze di centro-sinistra e di centro-destra che lo compongono e portano i nomi di liberali, repubblicani, democratici e radicali. La prospettiva di questo rafforzamento non è legata soltanto al fatto che il partito liberale inglese è punito dall’attuale sistema elettorale, mentre con la seconda elezione del Parlamento europeo avrà un peso parlamentare proporzionale ai voti ottenuti, ma soprattutto alla possibilità di aggregare attorno a uno schieramento europeo, potenzialmente capace di ottenere oltre il 10% dei voti, tutti i piccoli partiti di centro, che le condizioni della lotta politica nazionale spostano su altri fronti.
D’altra parte, un limite dello schieramento democristiano consiste, come abbiamo visto, nell’assenza di collegamenti con i partiti inglesi e danesi e nella debolezza della componente francese, il Centre des démocrates-sociaux, che può contare su circa il 4% dell’elettorato e si colloca nello spettro politico francese in un’area di centro e quindi su una posizione anomala rispetto agli altri partiti democristiani (che occupano posizioni di destra (C.D.U. -C.S.U.) o di centro destra (D.C.)). Ne deriva l’esigenza di una convergenza con i partiti conservatori inglese e danese e con il partito gollista francese.
La C.D.U.-C.S.U. tedesca, partecipando alla costituzione dell’Unione democratica europea, il raggruppamento delle forze conservatrici che non fanno parte del Partito popolare europeo, ha posto nello stesso tempo con forza il problema della fusione di questi due raggruppamenti e della formazione dello schieramento conservatore europeo. Questa combinazione politica sembra realizzabile in seguito alla progressiva deconfessionalizzazione dei partiti cattolici, che, come abbiamo visto, è una conseguenza dell’affermazione della società industriale, e al graduale abbandono della dottrina sociale cristiana, per una pratica politica di carattere pragmatico e moderato. Cosicché, questa linea di tendenza farà emergere l’esigenza di adeguare anche i nomi alla nuova realtà che si sta affermando. Ne è un segno significativo il nome di «popolare» con il quale il raggruppamento dei partiti democristiani ha deciso di presentarsi all’elezione europea.
Naturalmente, grazie al carattere evolutivo del quadro politico europeo, la convergenza tra le forze che confluiranno nello schieramento moderato esprimerà una sintesi creativa, che valorizzerà gli elementi evolutivi presenti nelle esperienze nazionali di ciascun partito, mentre eliminerà i fattori involutivi e reazionari. L’adattamento alla realtà europea comporterà dunque cambiamenti sostanziali per tutti i partiti. Da una parte, i democristiani italiani, confluendo in un raggruppamento di forze laiche, dovranno abbandonare l’integralismo cattolico, d’altra parte, i democristiani tedeschi, i conservatori inglesi e i gollisti, integrandosi con le altre forze democristiane, saranno spinti a una maggiore apertura verso le istanze di cambiamento in senso democratico e sociale. Inoltre i gollisti dovranno abbandonare il loro nazionalismo, che è una caratteristica costitutiva della loro identità politica.
La piattaforma sulla quale tende a raggrupparsi la destra moderna è una gestione politica moderata delle istituzioni liberaldemocratiche, dell’economia mista e della programmazione, che non mette in discussione le strutture politiche ed economiche dello Stato, così come si è venuto configurando sotto l’impulso delle lotte liberali, democratiche e socialiste, ma opera all’interno di queste strutture. Nel quadro che abbiamo delineato, l’opposizione dei partiti democristiani dell’Italia e del Benelux ad aderire a uno schieramento che si definisca come il polo delle forze moderate europee sembra destinata a cadere. D’altra parte, appare evidente che la sola prospettiva, aperta ai conservatori inglesi e ai gollisti, di costruire forme di aggregazione politica a vocazione maggioritaria, che permetterebbero a questi partiti di essere, anche sul piano europeo, partiti di governo, è l’incontro con i partiti democristiani.
Occorre infine fare un cenno allo schieramento di estrema destra, promosso dal Movimento sociale italiano in collaborazione con gruppi analoghi francesi (Parti national des forces nouvelles) e spagnoli (Fuerza nueva).
Il neo-fascismo non rappresenta un pericolo effettivo in nessun paese della Comunità europea, eccetto in Italia, dove la crisi dello Stato può avere uno sbocco autoritario. Ma l’unità politica permetterà all’Europa di mettere definitivamente in crisi il nazionalismo e il fascismo e l’elezione europea registrerà la sconfitta del neo-fascismo, schiacciandolo e rendendolo. inoffensivo.
 
6. L’influenza dell’elezione europea sul sistema dei partiti italiano e francese.
La formazione di un sistema europeo di partiti e l’esigenza per i partiti nazionali di trovare solidi legami europei determinerà i cambiamenti più rilevanti nei paesi il cui sistema dei partiti si discosta maggiormente da quello tripartitico emergente sul piano europeo: cioè l’Italia e la Francia. È quindi utile approfondire l’analisi delle ripercussioni dell’elezione europea sul sistema partitico di questi due paesi, caratterizzato dallo scontro tra forti partiti comunisti, schierati permanentemente all’opposizione e i partiti permanenti di governo (la D.C. e il partito gollista), che hanno assolto alla funzione di conferire stabilità alle istituzioni nazionali in crisi, ma hanno rappresentato nello stesso tempo un fattore di distorsione del buon funzionamento del sistema democratico.
Non prenderemo invece in esame il Benelux, la Danimarca e l’Irlanda, non solo perché i partiti comunisti, dove esistono, hanno peso irrilevante, ma soprattutto perché, a causa delle loro piccole dimensioni, questi Stati devono risolvere, come ha osservato Duverger,[4] problemi più di carattere amministrativo che politico. Di conseguenza, il pluripartitismo non costituisce in questi paesi un fattore di instabilità e di inefficienza del governo (mali tipici del sistema politico italiano e della Quarta repubblica francese) né un limite altrettanto grave allo sviluppo della democrazia.
Cominciamo con il prendere in esame la situazione italiana. In primo luogo, occorre osservare che i sei partiti dell’arco costituzionale sono favorevoli all’elezione europea e al trasferimento di poteri sul piano europeo. A mano a mano che si avvicina l’elezione europea (e bisogna tenere conto del fatto che, se non accadono eventi eccezionali, la prossima scadenza elettorale in Italia sarà quella europea) tende a profilarsi un quadro politico nuovo, che, a breve termine, potrà contribuire alla formazione di un governo di emergenza e, a lungo termine, a un profondo rinnovamento della società italiana.
Dal momento in cui i partiti hanno preso atto della crisi irreversibile del centro-sinistra si è registrata una riduzione della distanza tra i partiti dell’arco costituzionale, cui ha corrisposto l’emarginazione dell’estrema destra dal gioco politico. Non si tratta soltanto del fatto che, dopo il fallimento dell’alleanza laica, liberali e repubblicani si trovano a fianco gli uni degli altri nella Federazione dei partiti liberal-democratici della Comunità europea e che, dopo il fallimento dell’unificazione socialista, i socialisti e socialdemocratici si trovano a fianco gli uni degli altri nell’Unione dei partiti socialisti della Comunità europea.
Ma ciò che è più rilevante è il fatto che si è ridotta la distanza tra il P.C.I. e gli altri partiti dell’arco costituzionale, perché il P.C.I., attraverso la formula dell’eurocomunismo, ha accentuato il processo di distacco dal modello sovietico e la propria autonomia dalla politica estera dell’Unione sovietica, sostiene con vigore le istituzioni democratiche in crisi e accetta le opzioni fondamentali di politica estera del nostro paese.
Quanto alla D.C., con il prevalere della linea del confronto rispetto a quella dello scontro con i comunisti e la riaffermazione dell’ispirazione politica laica e popolare, essa si è collocata su una posizione che le permette di realizzare più ampie convergenze con le forze di sinistra, prendendo atto del fatto che non è più possibile governare l’Italia senza l’apporto del P.C.I. In particolare, l’adesione della D.C. al Partito popolare europeo costituisce un incentivo per confermare il principio della laicità del partito e il superamento dell’integralismo cattolico, necessari ad adattarsi a una realtà europea caratterizzata da solide tradizioni protestanti e nel contesto della quale il processo di secolarizzazione della vita politica è un fatto compiuto. Da tutto ciò risulta che il contesto elettorale europeo costituisce un elemento fondamentale nella formazione di un nuovo equilibrio politico nel nostro paese. Più specificamente, si può affermare che esso abbia favorito l’accordo tra i cinque partiti della maggioranza, il quale viene così ad assumere, oltre al significato corrente di accordo necessario ad affrontare i gravissimi problemi del paese nei settori dell’economia e dell’ordine pubblico, la nuova valenza politica di accordo necessario a gestire la crisi dell’Italia nella fase costituente dell’unione politica europea.
In effetti, per quanto riguarda la questione politica decisiva, l’utilizzazione dell’apporto diretto del P.C.I. nella formazione della maggioranza, l’analisi degli schieramenti europei mette in luce che i rapporti di forza tra comunisti e socialisti, che in Italia giocano a favore dei primi, si rovesceranno sul piano europeo. Di conseguenza, nel contesto europeo, la questione comunista cambierà natura. Del resto, l’atteggiamento costruttivo verso l’unificazione europea, che i comunisti italiani hanno (a differenza di quelli francesi), indica che il P.C.I. ha accettato questa prospettiva, che comporta, come abbiamo osservato, la confluenza, a medio o a lungo termine, dell’eurocomunismo nell’alveo del socialismo europeo.
D’altra parte, le forze politiche intermedie, che oggi subiscono una crisi così grave da fare temere per la stessa sopravvivenza di alcune, possono sperare in un rilancio politico grazie al loro inserimento in due forti schieramenti europei, quello socialista (P.S.I. e P.S.D.I.) e quello liberal-democratico (P.L.I. e P.R.I.). Mentre l’estrema destra nel contesto europeo rimarrà schiacciata.
Infine, per quanto riguarda la D.C., se essa ha trovato una collocazione europea, che le permetterà di continuare ad avere un ruolo politico di rilievo, anche se dovrà rinunciare a essere il partito permanente di governo, essa dovrà però impegnarsi in un profondo processo di trasformazione. Infatti, la formula dell’unità politica dei cattolici, che nell’epoca della guerra fredda le ha permesso di creare una coalizione di forze moderate di destra e di sinistra, necessaria a far compiere all’Italia le scelte atlantica ed europea, se in Italia è in crisi, non ha nessuna prospettiva in Europa, perché allontana la D.C. dalle tendenze in atto nei partiti cristiani degli altri Paesi della Comunità e le preclude, in prospettiva, la possibilità di una integrazione organica con le altre componenti che confluiscono nello schieramento moderato europeo. Di conseguenza è prevedibile che la D.C. tenderà a qualificarsi come partito moderato, mentre la sua componente di sinistra di ispirazione cristiano-sociale sarà attratta nell’orbita socialista. Solo la crisi politica italiana, che spinge i partiti a collaborare, per rendere possibili le convergenze politiche necessarie alla formazione di un governo di emergenza, ritarda il momento in cui questo nodo dovrà essere sciolto.
L’elezione europea rappresenta dunque il primo e decisivo passo verso la formazione di un nuovo quadro politico e verso nuovi rapporti di forza tra i partiti. Solo nel contesto della formazione di un sistema europeo di partiti è pensabile il superamento della contrapposizione tra partito permanente di governo (la D.C.) e partito permanente di opposizione (il P.C.I.), che ha paralizzato in questo dopoguerra la vita politica italiana. L’inserimento dell’Italia nel processo di integrazione europea, permettendo, da un lato, al nostro Paese di progredire nel processo di industrializzazione, ha favorito un avvicinamento della D.C. e del P.C.I. ai modelli politici prevalenti nei sistemi dei partiti degli altri Paesi europei, rispettivamente quello laico e quello socialista democratico e, dall’altro lato, determinando una modifica dei rapporti di forza tra l’Europa e le superpotenze, ha attenuato la dipendenza della D.C. e del P.C.I. dagli Stati-guida dei blocchi e consentito la loro graduale convergenza sulla prospettiva in un’Europa autonoma dalle grandi potenze. Nello stesso tempo, le forze di ispirazione socialista e liberal-democratica, le cui caratteristiche corrispondono maggiormente alla vita politica degli altri Paesi della Comunità, solo nel quadro politico europeo possono sperare di rafforzarsi.
Questi processi potranno giungere a compimento nel corso della formazione dello Stato federale europeo, che permetterà di superare le contraddizioni e i limiti dello sviluppo economico del nostro Paese e di affermare pienamente l’autonomia internazionale dell’Europa. In questo contesto, che aprirà possibilità di rinnovamento impensabili sul piano nazionale, anche le forze moderate potranno svolgere un ruolo progressivo. Così anche il sistema italiano dei partiti subirà quel processo di semplificazione degli schieramenti politici, che si intravede sul piano europeo e che permetterà l’affermazione nel nostro Paese della dialettica di maggioranza e opposizione, che costituisce la linfa vitale della democrazia.
Se invece la nuova fase verso la quale si sta avviando la vita politica italiana dovesse svilupparsi esclusivamente sul piano nazionale, si rafforzerebbe inevitabilmente l’egemonia della D.C. e del P.C.I. sugli altri partiti, che sarebbero condannati a una fatale decadenza. In effetti, è impossibile immaginare un futuro migliore per l’Italia al di fuori della prospettiva europea. E ciò che frena le forze politiche sulla strada del governo di emergenza e rende precario l’accordo programmatico tra i cinque partiti della maggioranza è la loro incapacità di vedere con chiarezza questa prospettiva, di pensare cioè allo sbocco europeo della politica di emergenza. Senza lo sbocco europeo della crisi italiana, l’incontro tra D.C. e P.C.I. non sarebbe che la premessa di una involuzione progressiva, che condannerebbe il nostro Paese a oscillare tra soluzioni autoritarie sia di destra sia di sinistra.
Per quanto riguarda poi gli sviluppi della situazione francese, dopo la presidenza di de Gaulle, essa è stata caratterizzata da una crescente bipolarizzazione della lotta tra i partiti, che però non ha prodotto l’alternanza al potere dei partiti permanenti di opposizione (il P.C.F., il P.S. e il M.R.G., alleati nel programma comune). Il partito permanente di governo (il R.P.R.) con i suoi alleati repubblicani e gli altri raggruppamenti minori è riuscito a mantenere il potere per oltre venti anni, anche se la bipolarizzazione della lotta politica progressivamente gli ha tolto il carattere di partito di centro interclassista, per molti aspetti simile alla D.C., gli ha fatto perdere l’influenza su una parte della sinistra, che è stata assorbita dal P.S. e dal P.C.F., e gli ha fatto assumere i caratteri di un partito conservatore. Tuttavia, sulla questione fondamentale dell’unificazione europea tanto i partiti di governo, quanto i partiti di opposizione sono divisi: i gollisti e i comunisti sono difensori intransigenti della sovranità nazionale, i repubblicani e i socialisti sono favorevoli allo sviluppo dell’integrazione europea.
L’elezione europea, rappresentando la sconfitta delle forze della conservazione nazionale, spingerà i gollisti e i comunisti, se non vorranno rimanere isolati e subire l’inevitabile decadenza di tutti i partiti che non hanno forti legami sul piano europeo a un rovesciamento di posizioni per quanto riguarda l’atteggiamento verso l’integrazione europea, la quale, dopo l’elezione diretta del Parlamento europeo, evolverà verosimilmente, come abbiamo visto, verso la formazione di un governo democratico supernazionale e quindi verso il superamento delle sovranità nazionali.
Questa evoluzione, in effetti, è già iniziata. Il P.C.F. e il R.P.R., dopo aver perso la battaglia contro l’elezione europea, hanno deciso di accettarla e di impegnarsi nella lotta elettorale, attestandosi su una nuova linea di difesa: impedire la formazione di un centro di potere supernazionale sul piano europeo, al quale la Francia possa essere subordinata.
Ma anche su questo fronte sembra che il partito gollista sia disposto ad arretrare, per adattarsi alla nuova realtà che sta emergendo nella prospettiva elettorale europea, in modo da essere accolto nello schieramento conservatore europeo in formazione. Inserito in questo schieramento, il partito gollista dovrà subire una evoluzione in senso europeistico, che gli permetterà di sopravvivere trasformandosi.
Nello stesso tempo, i due partiti dovranno portare a termine anche su un altro piano la loro evoluzione politica e ideologica in corso da alcuni anni: i gollisti, qualificandosi come partito moderato di destra, i comunisti, seguendo la linea adottata dal P.C.I. per quanto riguarda tanto la politica interna, quanto la politica internazionale. Solo a queste condizioni potranno confluire nei grandi schieramenti europei in formazione.
Quanto al partito repubblicano e ai suoi alleati, essi tenderanno a occupare una posizione di centro nel quadro della federazione europea dei partiti liberal-democratici. Tuttavia, è probabile che il nuovo quadro politico europeo determinerà dei cambiamenti anche in questo settore del sistema dei partiti. Lo schieramento delle forze di centro si indebolirà sulla destra, se il partito gollista seguirà l’evoluzione che abbiamo previsto, perché perderà i voti della destra europeista; nello stesso tempo, si rafforzerà sulla sinistra, con l’aggregazione del Movimento dei radicali di sinistra. Infatti, l’influenza di un forte schieramento di centro sul piano europeo renderà possibile ciò che è impossibile sul piano nazionale: la convergenza tra le forze di centro-destra (i repubblicani) e quelle di centro-sinistra (i radicali di sinistra).
Infine, se i comunisti evolveranno secondo una linea che li porti nell’area dell’europeismo e del socialismo democratico, la sinistra francese potrà superare i contrasti e le divisioni che l’hanno condannata alla sconfitta. Sul piano europeo i rapporti di forza tra socialisti e comunisti giocano più nettamente di quanto non avvenga sul piano francese a vantaggio dei primi. Questo fattore sarà probabilmente decisivo nel convincere il P.C.F., che ha dimostrato di preferire restare all’opposizione piuttosto di andare al governo con un partito socialista più forte. Naturalmente un altro fattore, che abbiamo già analizzato in relazione all’evoluzione dei comunisti italiani, opererà in questa direzione: la crescente autonomia internazionale dell’Europa.
Anche in Francia l’elezione europea si presenta dunque come la premessa per l’abbandono del sistema di partiti fondato sulla contrapposizione di un partito permanente di governo e di un partito permanente di opposizione e per il passaggio al sistema dell’alternanza prevalente nel resto dell’Europa comunitaria.
Tuttavia, se la previsione relativa all’imminente inizio della fase costituente dello Stato europeo dovesse rivelarsi errata, per una Francia che resti uno Stato sovrano si aprirebbe soltanto una prospettiva di decadenza dell’economia e di crisi della democrazia, condannate all’asfissia nel ristretto ambito nazionale. La bipolarizzazione del sistema partitico si rivelerebbe così come un inasprimento della lotta politica e la premessa di una involuzione autoritaria.
 
7. Il sistema elettorale.
Il sistema elettorale rappresenta un altro fattore che influenzerà i rapporti di forza tra i partiti. Com’è noto, l’atto relativo all’elezione diretta del Parlamento europeo riserva la definizione del sistema elettorale ai singoli Stati e attribuisce al Parlamento europeo eletto il compito di elaborare il progetto di procedura elettorale uniforme in vista della seconda elezione. E, in effetti, era impossibile ottenere fin dalla prima elezione un sistema elettorale uniforme.
Ogni provvedimento politico può essere realizzato se poggia su uno schieramento di forze capace di imporlo. In una situazione, come quella attuale, nella quale gli interessi nazionali hanno ancora un peso preponderante, era impossibile ottenere una soluzione differente. I limiti della convenzione elettorale europea sono i limiti dell’elezione per un Parlamento di uno Stato in formazione. D’altra parte, è realistico prevedere (come del resto prevede l’atto) che il Parlamento europeo eletto acquisirà il potere di imporre un sistema elettorale uniforme e che questo sistema avrà carattere proporzionale, secondo il modello prevalente nella Comunità. Il che comporterà lo smantellamento di istituzioni secolari, come il sistema maggioritario a collegio uninominale inglese.
In effetti, se prendiamo in esame lo stato del dibattito tra i partiti e delle procedure parlamentari relativo alle decisioni, che devono essere prese sul piano nazionale per giungere all’elezione europea, possiamo affermare già fin d’ora che dovunque sono stati compiuti progressi decisivi per arrivare all’adozione del sistema proporzionale alla seconda elezione europea. Per giungere a questa conclusione, sarà sufficiente prendere in considerazione la situazione dei due paesi che hanno un sistema elettorale di tipo maggioritario (la Gran Bretagna e la Francia). L’adozione di questo sistema determinerebbe infatti una grave deformazione della volontà degli elettori in seno al Parlamento europeo.
La Francia ha adottato il sistema proporzionale e il collegio unico nazionale, che è frutto di un compromesso tra le esigenze avanzate dai gollisti, contrari alla formazione di collegi regionali, e quelle avanzate dai socialisti, contrari al sistema maggioritario. Il sistema proporzionale, da un lato, indebolirà i gollisti e rafforzerà i partiti minori e, d’altro lato, attenuerà la polarizzazione tra le forze politiche e la radicalizzazione del confronto elettorale e favorirà, di conseguenza, la formazione di un clima politico più adatto alla convergenza tra i partiti, necessario a gestire la fase costituente dello Stato federale europeo.
D’altra parte, la Camera dei Comuni britannica ha respinto il disegno di legge del governo, che prevedeva il sistema proporzionale, con 379 voti contro 222. La Gran Bretagna si avvia dunque all’elezione europea con la prospettiva di continuare a sottorappresentare il partito liberale, con la conseguenza di indebolire la componente liberal-democratica del Parlamento europeo, determinando così quella che probabilmente sarà la più clamorosa distorsione della rappresentanza politica nel Parlamento europeo. Del resto, l’organizzazione di 81 collegi uninominali (tanti sono i seggi riservati alla Gran Bretagna nel Parlamento europeo) comporterà la formazione di circoscrizioni elettorali di dimensioni tali da vanificare quel rapporto diretto tra i candidati e gli elettori e tra gli eletti e la popolazione sul quale si fonda questo sistema di scrutinio. È opportuno però sottolineare quanta strada abbia fatto, nell’opinione della classe politica inglese, il principio della proporzionalità della rappresentanza sotto la spinta della prospettiva elettorale europea: un cambiamento inconcepibile al di fuori di questa prospettiva, che mette in luce il carattere profondamente innovatore della costruzione democratica dell’unità europea.
Queste considerazioni permettono di concludere fin d’ora che tutta l’Europa occidentale si sta avviando verso l’adozione del sistema proporzionale, anche se alla prima elezione del Parlamento europeo si dovrà registrare l’eccezione inglese. Tuttavia, l’affermazione del principio della rappresentanza proporzionale non sembra destinato a provocare in futuro le conseguenze negative che l’hanno accompagnato nelle democrazie del continente europeo: l’instabilità governativa, derivante dall’eccessiva frammentazione del sistema dei partiti, che produce coalizioni di governo di breve durata. Da una parte, la tendenza alla convergenza tra i partiti nella fase costituente e l’emergere di un sistema di partiti a carattere bipolare nella fase successiva e, d’altra parte, l’indipendenza dell’esecutivo rispetto al legislativo, che è una caratteristica della maggior parte degli Stati federali, costituiranno solide garanzie contro i pericoli dell’instabilità governativa. Nello stesso tempo, il contrappeso esercitato dal potere indipendente degli Stati-membri e delle regioni rappresenterà un freno efficace nei confronti delle tendenze accentratrici e delle degenerazioni autoritarie del governo federale.
Infine, il dibattito intorno alla dimensione nazionale o regionale delle circoscrizioni elettorali, se si sta concludendo con il prevalere dei sostenitori dei collegi nazionali, ha messo in luce che la tendenza destinata ad affermarsi più a lungo termine è quella dei collegi regionali. Infatti la tendenza delle regioni ad accrescere i loro poteri e la loro autonomia nei confronti del governo centrale, in atto dovunque in Europa in connessione con la crisi dello Stato nazionale, dovrà accentuarsi nella fase costituente dello Stato federale europeo. La resistenza che gli Stati oppongono alla spinta regionalistica è espressione non della forza, ma della loro debolezza e dell’esigenza di sopravvivere di fronte a centri di potere politici (le grandi potenze) ed economici (le società multinazionali) di dimensioni internazionali. Con lo sviluppo della fase costituente dello Stato europeo, mentre gli Stati nazionali saranno progressivamente sollevati, a vantaggio di questo emergente centro di potere, dalle responsabilità cui non sono più in grado di far fronte, si aprirà contemporaneamente uno spazio per il superamento verso il basso delle strutture accentrate e autoritarie dello Stato nazionale. In questa prospettiva, l’organizzazione di circoscrizioni elettorali di dimensioni regionali permetterà di stabilire relazioni più dirette tra gli elettori e i partiti e tra la popolazione e il potere, la cui articolazione regionale tenderà a diventare sempre più rilevante per quanto riguarda la formazione delle decisioni politiche.
 
8. I programmi.
Come abbiamo visto, il fattore più importante dal quale dipenderà il successo dei partiti nell’elezione europea consisterà nella capacità di dare una risposta ai maggiori problemi europei, dalla cui soluzione dipende l’uscita dalla crisi economica e lo sviluppo della costruzione europea. L’elaborazione di programmi europei è il terreno sul quale avviene la competizione costruttiva tra le confederazioni europee di partiti. E i progetti di programma elaborati da queste ultime convergono nel proporre una soluzione europea dei principali problemi politici, economici e sociali e nel considerare indispensabile lo sviluppo della costruzione europea.
È la prova che non si può impostare la campagna elettorale europea contro lo sviluppo del processo di integrazione. La maggior parte dei dirigenti politici percepiscono infatti che una linea politica di questo genere penalizzerebbe il loro partito.
Occorre però domandarsi se questi programmi danno una risposta adeguata all’insieme dei problemi che la Comunità deve affrontare. Come abbiamo messo in luce più volte su questa rivista, il trasferimento sul piano europeo della sovranità monetaria rappresenta la condizione per progredire positivamente tanto sul piano del rafforzamento delle strutture dello Stato europeo in formazione quanto sul piano dell’accrescimento delle capacità di decisione della Comunità sui problemi economici fondamentali. L’atteggiamento dei partiti nei confronti di questo obiettivo costituisce un elemento decisivo per valutare i loro programmi europei. Su questo problema i progetti di programma elaborati dalle tre confederazioni partitiche europee non si spingono al di là della riproposizione dell’approccio funzionalistico dell’armonizzazione delle politiche economiche e monetarie, che ha largamente dimostrato il suo carattere fallimentare.
La lotta per trasferire sostanziali poteri di decisione alle istituzioni europee e per rendere irreversibile l’unificazione europea è appena all’inizio (l’elezione europea è una condizione necessaria, ma non sufficiente, per raggiungere questi obiettivi) e proseguirà in seno al Parlamento europeo eletto e in seno a tutte le forze politiche e sociali.
Le differenze storico-sociali dei singoli paesi della Comunità hanno determinato diversità così sensibili tra i partiti appartenenti alla stessa famiglia politica che la loro convergenza sul piano europeo appare problematica. Queste differenze incidono in senso negativo sulle piattaforme programmatiche europee, in quanto devono conciliare tra di loro l’esigenza di ciascun partito di tutelare i propri interessi nazionali con quella di presentarsi agli elettori con un volto europeo e con un programma europeo avanzato e nello stesso tempo devono attuare una sintesi tra tendenze moderate e tendenze progressiste, presenti in ciascuno degli schieramenti europei. In generale, in misura diversa a seconda dei partiti, i fautori della conservazione nazionale sono attivi in tutte le forze politiche e sociali. Essi sono in grado di far sentire il loro peso soprattutto nello schieramento socialista (come rivela la parte del programma relativa alle trasformazioni della Comunità europea) e in quello conservatore, in misura minore in quello liberal-democratico e in misura ancora minore in quello democratico-cristiano. Ciò dipende in gran parte dall’influenza esercitata dai fattori nazionali di due paesi, come la Francia e la Gran Bretagna, dove esistono forti resistenze allo sviluppo del processo di unificazione europea. Ne consegue, per esempio, che l’influenza di questi fattori è presente nel partito laburista inglese e nel partito socialista francese, e si riflette sulle posizioni dello schieramento socialista europeo, mentre è meno rilevante nel Partito popolare europeo, che non ha nessuno (Gran Bretagna) o deboli (Francia) legami con quelle realtà nazionali.
Naturalmente, in ciascuno dei raggruppamenti europei di partiti esistono altre linee di divisione e altri motivi di contrasto sulle principali opzioni di politica interna e internazionale, per esempio sul grado di intervento dei pubblici poteri nella vita economica oppure sul tipo di relazioni da instaurare con gli Stati Uniti, con l’Unione Sovietica e con il Terzo mondo.
Per quanto riguarda l’Unione dei partiti socialisti, esiste un diverso atteggiamento dei socialdemocratici tedeschi e dei laburisti inglesi, che collaborano con i partiti liberali ed escludono invece forme di collaborazione con i comunisti, rispetto ai socialisti francesi e italiani, che collaborano con i comunisti. Nella federazione dei partiti liberal-democratici esiste, d’altra parte, una frattura tra le formazioni politiche, che si collocano su posizioni di centrosinistra e sono disposte ad attuare alleanze di governo con partiti aderenti al raggruppamento socialista europeo (come i liberali inglesi e tedeschi e i repubblicani italiani) e i partiti che si collocano su posizioni più conservatrici, come i repubblicani francesi.
Nel partito popolare europeo esiste infine un forte contrasto tra la tendenza prevalente tra i democristiani tedeschi a dare al partito una qualificazione conservatrice di rigida opposizione al socialismo e al comunismo e quella prevalente tra i democristiani italiani, che rifiutano questa qualificazione politica, per consentire la coesistenza nel partito di tendenze moderate e progressiste, per potersi presentare all’elettorato con un volto popolare, necessario a tenere aperta la possibilità di convergenze politiche con i socialisti e con i comunisti, oggi indispensabili a governare in Italia.
Tuttavia, malgrado queste difficoltà, la logica della lotta politica sul piano europeo stimolerà i partiti ad affrontare in termini positivi i problemi europei e a proporre una politica europea efficace. È prevedibile, di conseguenza, che i partiti dovranno formulare in termini nuovi la loro posizione circa il rilancio dell’unione economica e monetaria.
 
9. Le candidature.
Un ultimo fattore, dal quale dipenderà la fortuna dei partiti nel confronto elettorale europeo, sarà la qualità delle candidature e, in particolare, la capacità di proporre agli elettori la candidatura di grandi leaders di prestigio internazionale. Willy Brandt è stato il primo uomo politico ad annunciare la propria candidatura in vista dell’elezione europea e, come egli stesso si è augurato, il suo esempio ha fatto scuola. Alla sua candidatura hanno fatto seguito quelle di Mitterrand, di Kohl, di Tindemans, di Agnelli, di Petrilli, ecc. Ma l’esempio di Brandt è paradigmatico sotto un altro profilo: egli ha sperimentato l’impossibilità di portare a termine sul piano nazionale la Ostpolitik, alla quale ha legato il suo destino politico, e ha compreso che solo un governo europeo potrebbe permettere di portare a compimento il suo grande disegno politico. Nell’annunciare la sua candidatura ha infatti affermato: «in questo modo io non mi allontano dalle mie responsabilità politiche nei confronti del mio Paese, ma sottolineo, al contrario, che la politica tedesca è inconcepibile senza l’Europa».[5]
Che l’elezione europea crei degli incentivi per i grandi leaders a proporre la propria candidatura costituisce un segno significativo che il Parlamento europeo è destinato a cambiare ruolo. Se finora vi hanno seduto perloppiù uomini politici di secondo piano, non era infatti che il riflesso della mancanza di poteri del Parlamento europeo. La presenza di grandi leaders è la garanzia che diventerà la sede di importanti scelte politiche.
D’altra parte, siccome i membri del Parlamento europeo eletto, a differenza di quanto avviene attualmente, non dovranno essere necessariamente membri dei Parlamenti nazionali, i partiti potranno proporre candidature nuove di personalità capaci di interpretare le aspirazioni europee diffuse nell’opinione pubblica.
In questo modo, i partiti, oggi dovunque in crisi, potranno dimostrare che l’elezione europea rappresenta un’occasione favorevole per avviare un processo di rinnovamento.
 
10. Il dibattito costituzionale e la convergenza tra i partiti europeisti.
Se al di là della battaglia ideologica tra i maggiori schieramenti politici europei in formazione, che spesso si ferma all’enunciazione dei grandi princìpi e di formule astratte, spostiamo la nostra attenzione alla concretezza storica dei problemi che l’Europa deve affrontare in questo momento, constatiamo immediatamente che esiste un vasto terreno per un’ampia convergenza di forze. I problemi più importanti, come la crisi economica, soprattutto nei suoi aspetti più rilevanti (l’inflazione e la disoccupazione), l’impostazione di un piano di riconversione dell’apparato produttivo, il rilancio dell’unione economica e monetaria, l’allargamento della Comunità, sono problemi di una tale portata, alcuni dei quali di carattere costituzionale, per affrontare i quali non è sufficiente il sostegno di maggioranze del cinquanta più uno per cento, ma sono necessarie maggioranze molto ampie, rappresentative dell’unità del popolo e delle forze democratiche con l’opposizione di frange politicamente insignificanti. Del resto, nelle fasi costituenti di un nuovo Stato, sul fronte del cambiamento si formano sempre vasti schieramenti di unità popolare, mentre sul fronte della conservazione resistono gruppi politici minoritari, la cui forza dipende dall’inerzia delle vecchie istituzioni.
Il Parlamento europeo eletto sarà il teatro della lotta tra i sostenitori dello status quo e le forze che si batteranno per far progredire la costruzione europea fino a renderla irreversibile. La linea di divisione tra le forze della conservazione nazionale, che difendono il primato dei poteri nazionali sulle istituzioni europee e le forze che si battono per lo sviluppo dell’unificazione europea e per dotare la Comunità di quei poteri che le permettano di affrontare efficacemente la politica europea attraversa tutte le forze politiche e gli stessi schieramenti partitici europei, con i quali i partiti nazionali sono impegnati a cercare delle forme di aggregazione. Nella misura in cui il dibattito europeo, con la campagna elettorale europea e la battaglia per la direzione politica della Comunità, tenderà a diventare un fattore sempre più rilevante della lotta politica, questa linea di divisione tenderà a sovrapporsi a quella che divide i partiti e i loro raggruppamenti europei e rimarrà operante nel corso di tutta la fase costituente dello Stato europeo.[6]
Già fin d’ora è evidente che la discriminante che separa le forze del movimento da quelle della conservazione sul terreno europeo non coincide con quella che separa lo schieramento delle forze politiche e sociali della sinistra da quello delle forze di destra. Infatti, una parte rilevante delle forze di sinistra (come i comunisti francesi e la maggioranza dei laburisti inglesi) è schierata sul terreno della conservazione nazionale a fianco di forze di destra, come il partito gollista.
Dall’analisi comparativa dei progetti di programma elaborati dalle tre confederazioni europee di partiti risulta che si tratta di testi molto simili. Questo fatto, a prima vista sconcertante, dipende certamente dal carattere ancora generico di questi programmi e dalla difficoltà di fare scelte europee coraggiose, attuando sintesi originali e creative tra programmi di partiti inseriti in realtà nazionali rimaste, per certi aspetti, profondamente differenti, malgrado lo stadio avanzato del processo di integrazione europea. Tuttavia questa tendenza delle scelte programmatiche dei partiti a convergere su obiettivi comuni è il riflesso di esigenze storiche più profonde, che, in qualche modo, già ora stanno emergendo e che fin d’ora è possibile identificare. Una prima esigenza ha carattere transitorio e si giustifica in base alla natura della fase costituente che si è aperta in Europa, la quale richiede, come abbiamo visto, un’ampia convergenza di forze politiche. Ma c’è un’altra esigenza che affonda le proprie radici nel carattere nuovo della nostra epoca, nella quale, in concomitanza con l’esaurimento della rivoluzione industriale, inizia la rivoluzione scientifica,[7] che comporta una crescente automatizzazione della produzione materiale, una costante diminuzione della quantità di lavoro necessaria alla riproduzione fisica dell’individuo, un aumento crescente dell’abbondanza dei beni materiali. Al limite di questo processo, che è alla fase iniziale e quindi ha appena cominciato a produrre i suoi effetti, si intravvede già la scomparsa del lavoro alienato, il superamento dello sfruttamento di classe e la formazione delle condizioni del controllo razionale sul processo storico-sociale. Ma il fatto fondamentale che ci interessa in questa sede è l’attenuazione della lotta di classe, che ha ripercussioni rilevanti sul funzionamento del sistema dei partiti e si manifesta nel progressivo avvicinamento tra i partiti e nella diminuzione del loro antagonismo. Ciò dipende dal fatto che, mentre nella prima fase dello sviluppo industriale era possibile costituire regimi politici, che garantissero la libertà senza la giustizia sociale (democrazie liberali) oppure che garantissero la giustizia sociale senza la libertà (dittature socialiste), oggi sembra possibile costruire forme d’organizzazione politica capaci di conciliare la libertà con la giustizia sociale.
D’altra parte, l’attuazione del piano, lo strumento fondamentale dal quale dipende il governo dello Stato contemporaneo e il controllo razionale del processo economico-sociale, che tende ad acquisire un’importanza vitale per la stessa sopravvivenza della società e per il suo sviluppo, esige un’ampia unità tra i partiti e le forze sociali.
La complessità dell’organizzazione collettiva nelle società programmate è tale che è indispensabile trovare una conciliazione tra gli interessi in contrasto, che permetta di realizzare un ampio consenso tra le forze politiche e sociali attorno agli obiettivi del piano, una forte autodisciplina di tutte le componenti della società nell’attenersi a quegli obiettivi e una leale collaborazione nel perseguirli.
Il piano esige dunque un grado di integrazione tra le forze politiche e sociali superiori al passato. Di conseguenza, le garanzie di controllo del governo in futuro dipenderanno maggiormente dalla partecipazione democratica, e dal suo sviluppo in nuove forme, sul piano territoriale e funzionale dalla scala minima (il quartiere, la fabbrica, l’ufficio ecc.) alla massima (dallo Stato fino a tutto il mondo), che dall’alternanza dei partiti al potere.
In conclusione, se l’unità europea sarà il processo nel corso del quale è prevedibile si formerà un sistema a tre partiti, che, come il sistema inglese e quello tedesco occidentale, permetterà l’alternanza dei partiti, o delle coalizioni di partiti, al governo, esso sarà anche il terreno di una profonda trasformazione del ruolo dei partiti, di cui, per il momento, è possibile scorgere solo le linee più generali.


[1] La diluizione del Mercato comune in un’area atlantica di libero scambio è ancora possibile, anche se sarà più difficile dopo l’elezione europea. Questa soluzione non è incompatibile con la formazione di un vasto spazio economico, richiesto dall’evoluzione del modo di produrre, ma implica la sconfitta della prospettiva dell’emancipazione dell’Europa occidentale dalla egemonia americana.
[2] Questa tesi è stata ampiamente sviluppata da Mario Albertini in «Le prime elezioni europee», Comuni d’Europa, 1977, n. 12, p. 26-28.
[3] A titolo indicativo, riportiamo l’elenco delle percentuali dei voti che otterrebbe ciascun gruppo politico del Parlamento europeo nell’elezione diretta sulla base della correzione della rappresentanza proporzionale alla popolazione, in modo che gli Stati più piccoli ottengano, come prevede la convenzione elettorale europea, una rappresentanza sproporzionata per eccesso, secondo i calcoli di R. Rose («Elezioni di un Parlamento europeo», in L’integrazione europea e il futuro dei parlamenti in Europa, Luxembourg, 1975, p. 247): Socialisti 32, Comunisti 12, Democratici cristiani 25, Liberali 11, Conservatori 9, Democratici europei per il progresso 6, Indipendenti non iscritti 5, Totale 100.
Questa ripartizione delle preferenze politiche tra i sei gruppi presenti nel Parlamento europeo è confermata nelle linee di fondo da un sondaggio realizzato nei nove paesi della Comunità nell’aprile-maggio 1977. Ecco i risultati: Comunisti 9, Socialisti 33, Liberali e democratici 14, Democratici cristiani 23, Democratici europei per il progresso 5, Conservatori europei 10, nessuno di questi gruppi 6, Totale 100. (Eurobarometro, l’opinione pubblica nella Comunità europea, n. 7, luglio 1977, p. 78).
[4] M. Duverger, La repubblica tradita, Milano, 1960, pp. 92-93.
[5] Dal testo dell’intervento di Brandt, diffuso al Congresso dell’Europa, convocato dal Movimento europeo a Bruxelles dal 5 al 7 febbraio 1977.
[6] L’identificazione della discriminante tra le forze del progresso e quelle della conservazione nella linea di divisione che separa i sostenitori dell’unità europea dai difensori della sovranità nazionale risale, com’è noto, al Manifesto di Ventotene.
[7] Per la teoria della rivoluzione scientifica si veda R. Richta, Civiltà al bivio, Milano, 1969.

 

 

 

 

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