IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XVII, 1975, Numero 1, Pagina 35

 

 

 

L’idea di nazione*
 
FRANCESCO ROSSOLILLO
 
 
1. Il termine «nazione», impiegato negli stessi contesti significativi in cui viene abitualmente usato oggi, cioè riferito alla Francia, alla Germania, all’Italia, ecc., incomincia a comparire nel discorso politico — in Europa — nel corso della Rivoluzione francese, anche se il suo uso era lontano, in quell’epoca, dall’essere univoco; mentre appare nella letteratura con il Romanticismo tedesco, in particolare nelle opere di Herder e Fichte, dove peraltro è usato esclusivamente in un’accezione linguistico-culturale. Per trovare una cosciente teorizzazione della nazione come fondamento naturale dell’organizzazione del potere politico, cioè della fusione necessaria di nazione e Stato, bisogna giungere fino alla metà dell’‘800, con l’opera di Giuseppe Mazzini.
È in questo senso che il termine «nazione» ha cessato di essere un termine generico, che poteva essere riferito sia all’idea pura e semplice di gruppo, sia a quella di qualunque forma di comunità politica. Bisogna ricordare a questo proposito che, come gli africani usano oggi il termine «nazione» in riferimento sia all’Africa, sia agli Stati (cioè alle delimitazioni di gruppo stabilite dalle potenze coloniali), sia alle tribù, così gli europei, prima della Rivoluzione francese, usavano il termine «nazione» in riferimento sia all’intera Europa, sia agli Stati come la Francia e la Spagna, sia agli Stati regionali o cittadini. Ancora in Gioberti, per esempio, si trova l’espressione «nazione europea». Usi analoghi si manifestano oggi nella sfera araba (nazione araba, egiziana, algerina, ecc.) e si sono manifestati per tutto l’Ottocento nella sfera della «nazione» slava, comprensiva di altre «nazioni» più piccole.
Bisogna anche ricordare, per quanto riguarda la situazione contemporanea, che, dove non vi sono state le manifestazioni tipiche dell’idea di nazione, cioè nella sfera anglosassone, il termine «nazione» tende a significare piuttosto l’idea generica di comunità politica che quella specifica di un tipo ben definito di comunità politica (cfr. ad esempio l’espressione americana «the nation and the states», dove «nazione» ha il significato di comunità politica in qualche modo pluristatale).
 
2. La storia del termine «nazione» è stata eminentemente paradossale. Il riferimento nazionale infatti è stato, nel corso della Rivoluzione francese e, poi, dalla metà dell’‘800 fino ad oggi, uno dei più importanti fattori di condizionamento del comportamento umano nella storia politica e sociale. In nome della nazione sono state combattute guerre, fatte rivoluzioni, trasformata la carta politica del mondo. Mentre nel Medio Evo, come nota Boyd C. Shafer, un uomo doveva sentirsi prima di tutto un cristiano, secondariamente un borgognone e soltanto in terzo luogo un francese (dove peraltro sentirsi un francese aveva allora un significato completamente diverso da quello che ha oggi), nella storia recente del continente europeo, coll’emergenza del fenomeno nazionale, la scala dei lealismi si è rovesciata, e il sentimento di appartenenza alla propria nazione ha acquisito una posizione di assoluta preminenza su qualsiasi altro sentimento di appartenenza territoriale, religiosa o ideologica; tanto che, da un lato, i lealismi e le identificazioni regionali e locali sono stati praticamente cancellati dal superiore riferimento alla nazione e, dall’altro, le stesse affiliazioni ideologiche o religiose, che pur si pongono come universali per loro essenza, sono state nei fatti subordinate all’affiliazione nazionale e quindi intimamente snaturate, come dimostra, nell’‘800 e nel ‘900, la storia dei movimenti liberale, democratico e socialista, culminata nel fallimento dell’internazionalismo socialista allo scoppio della prima guerra mondiale, e della stessa religione cattolica, i cui sacerdoti benedicono gli eserciti nazionali, cioè gli strumenti della violenza nei rapporti internazionali, tradendo in nome della nazione la vocazione ecumenica della Chiesa.
Nonostante tutto ciò, il contenuto semantico del termine, malgrado la sua immensa forza emotiva, rimane tuttora tra i più vaghi e incerti del vocabolario politico. E la sua vaghezza, con la conseguente impossibilità di applicarlo in modo univoco nel discorso politico per identificare nella realtà i confini dei vari gruppi nazionali, è stata tra le principali cause del ruolo nefasto che l’idea di nazione ha giocato nei rapporti internazionali nella storia moderna.
 
3. La nazione è normalmente concepita come un gruppo di uomini unito da un legame naturale e quindi eterno — o quantomeno esistente ab immemorabili — e che, in forza di questo legame, costituisce la base necessaria per l’organizzazione del potere politico nella forma dello Stato nazionale. Le difficoltà incominciano quando si tenta di definire la natura di questo legame o anche soltanto di individuare dei criteri che consentano di delimitare le varie individualità nazionali indipendentemente dalla natura del legame che le determina.
In primo luogo l’idea di «legame naturale» suggerisce immediatamente l’idea di razza: infatti l’identificazione tra nazione e razza è stata comune fino al nazismo e sopravvive ancora oggi, anche se per lo più in forme implicite, come testimoniano di frequente le definizioni che del termine danno i dizionari. Ora, non è certo necessario dilungarsi nella dimostrazione che il termine «razza» non consente di identificare gruppi aventi confini definiti e che comunque le grossolane classificazioni «razziali» tentate dagli antropologi — con criteri che variano da studioso a studioso — in nessun caso coincidono con le moderne nazioni.
Un secondo modo diffuso di concepire la nazione è la confusa rappresentazione di una «persona collettiva», di un «organismo» vivente di una vita propria, diversa da quella degli individui che lo compongono. L’estensione di queste «persone collettive» coinciderebbe con quella di gruppi aventi in comune determinate caratteristiche, come la lingua, i costumi, la religione, il territorio, ecc. È chiaro che anche questa seconda rappresentazione non costituisce nemmeno l’inizio di una spiegazione. Infatti, da un lato, il concetto di «persona collettiva», di «organismo vivente», ecc., è privo di senso nella misura in cui pretende di denotare qualcosa che non è risolvibile in comportamenti individuali, constatabili empiricamente. E, dall’altro, i criteri che si impiegano per delimitare l’estensione di questi «organismi» normalmente non identificano gruppi che coincidono con le odierne nazioni. Basti ricordare che molte nazioni sono plurilingui e molte lingue sono parlate in più nazioni; che comunque il monolinguismo di certe nazioni, come la Francia o l’Italia, non è originario né spontaneo, ma è, almeno in parte, un fatto politico, risultante dall’estensione a tutti i membri di uno Stato, ad opera del potere politico, di una lingua parlata solo in una parte dello Stato e della conseguente decadenza dei dialetti e delle lingue originali, e anche di lingue di grandi tradizioni letterarie, come l’occitano; che i costumi — il modo di vivere — di regioni limitrofe appartenenti a diverse nazioni confinanti sono in genere assai più simili di quelli di regioni geograficamente situate alle estremità opposte della stessa nazione; e via dicendo.
C’è di più. L’accento sulla lingua e sui costumi mette in crisi, anziché spiegare, l’idea comune di nazione. È vero che il fatto di parlare la stessa lingua o la comunanza di costumi costituiscono legami profondi, che identificano gruppi aventi una propria fisionomia. Una lingua comune è il veicolo di una cultura comune e quindi crea un vincolo importante tra coloro che la parlano, che entra nella costituzione della loro stessa personalità individuale. La comunanza dell’ambiente fisico in cui un gruppo di uomini vive, a sua volta, collega le loro esperienze quotidiane, crea ricordi comuni, rende simile il loro modo di vivere e quindi diviene essa pure un elemento costitutivo della loro personalità. Ma è anche vero che i gruppi così identificati, che Albertini chiama «nazionalità spontanee», non coincidono con le nazioni nel senso comune del termine e che essi non hanno bisogno di un potere politico per mantenersi. È per questo che si può loro attribuire il carattere della spontaneità, a torto attribuito alle nazioni comunemente intese.
Un’ultima concezione, che risale a Ernest Renan, identifica la nazione — al di là dell’esistenza di qualsiasi legame obiettivo — con la «volontà di vivere insieme», il «plebiscito di tutti i giorni». Ma di fatto questo tentativo definitorio, più che risolvere il problema, lo evita, perché ciò che definirebbe la nazione distinguendola da tutti gli altri gruppi basati sulla adesione volontaria, sarebbe il modo del vivere insieme. Ed è appunto questo il problema che la definizione di Renan lascia insoluto.
 
4. L’approccio empirico individuato da Albertini — il teorico al quale dobbiamo l’indagine più approfondita di cui oggi disponiamo sul tema che ci interessa — per giungere ad una definizione positiva della nazione consiste nell’accertare il modo in cui la presenza dell’entità «nazione» si manifesta nel comportamento osservabile degli individui, cioè nell’identificare un «comportamento nazionale». Questa indagine empirica conduce a risultati sufficientemente chiari e univoci. Essa permette di stabilire, in primo luogo, che il comportamento nazionale è un comportamento di fedeltà nei confronti delle entità «Francia», «Germania», «Italia», ecc., non meglio definite. In secondo luogo, e questo è il fatto specifico, che questo comportamento di fedeltà non si manifesta soltanto come fedeltà politica allo Stato, ma coinvolge altri valori, la cui motivazione autonoma, per sé considerata, non è né politica né statuale, e che di per sé identificherebbero gruppi di estensione diversa da quella nazionale.
Il sentimento italiano è quindi, nel contempo, il sentimento di appartenere allo Stato italiano e quello di appartenere ad una entità pensata come una realtà sociale organica, nella quale la caratterizzazione «italiano» prevale su quella «borghese», «proletario», ecc. e che deforma fittiziamente il naturale quadro di riferimento di un grande numero di comportamenti conoscitivi e valutativi, introducendo la falsa rappresentazione, per esempio, di una realtà paesaggistica italiana, nella quale svanisce il fatto concreto del paesaggio ligure, padano, ecc.; o di una realtà estetica o culturale italiana, nella quale si riduce al quadro italiano il fatto universale delle espressioni toscana, veneziana, ecc., della cultura europea; e così via.
Ma si tratta di un’entità illusoria, alla quale non corrisponde alcun gruppo concretamente identificabile il quale possa servire come naturale quadro di riferimento dei comportamenti che normalmente vengono riferiti alla «Francia» alla «Germania», all’«Italia», ecc. Il riferimento soggettivo del sentimento nazionale è quindi questa entità illusoria. Il suo riferimento oggettivo è uno Stato, che, però, non viene pensato come tale, ma come questa entità illusoria. Ciò permette di affermare che la nazione è un’entità ideologica, cioè il riflesso nella mente degli uomini di una situazione di potere.
Il fatto che la nazione sia un’ideologia è di per sé sufficiente ad escludere che, prima dell’emergenza di comportamenti nazionali coscienti con la Rivoluzione francese, esistessero, come la storiografia nazionale vuol far credere, delle nazioni inconsapevoli. Ciò non significa che non si possano e non si debbano individuare, nella storia, delle tendenze che hanno portato alla nascita delle moderne nazioni. Ma sarebbe un grave errore teorico confondere il processo che ha generato le moderne nazioni con il suo risultato. Del resto è chiaro che, poiché le nazioni non sono individuate da alcun elemento concreto, manca qualsiasi criterio, in assenza di un sentimento consapevole di fedeltà, per verificare l’esistenza di una supposta nazione virtuale.
 
5. L’analisi che precede contiene in sé già l’individuazione del tipo di situazione di potere di cui l’idea di nazione è un riflesso. Da essa risulta evidente che la nazione è l’ideologia di un certo tipo di Stato, poiché è proprio lo Stato l’entità alla quale concretamente si dirige il sentimento di fedeltà che l’idea di nazione suscita e mantiene. Questa conclusione provvisoria rende conto del contenuto rappresentativo del termine. La funzione dell’idea di nazione, come si è visto, è quella di creare e di mantenere un comportamento di fedeltà dei cittadini verso lo Stato. A questo fine adempie l’idea, che fa parte del nucleo semantico fondamentale del termine di nazione, di un legame naturale, profondo, che investe anche la sfera più intima della personalità degli individui che da esso sono uniti, tanto da giustificare l’elaborazione di un rituale e di una simbologia pseudo-religiosi. Questo sentimento è stato storicamente creato mediante l’estensione forzata a tutti i cittadini dello Stato di alcuni contenuti tipici della nazionalità spontanea (per esempio la lingua) o quantomeno, quando questa estensione si è rivelata inattuabile, mediante l’imposizione dell’idea falsa che alcuni contenuti tipici della nazionalità spontanea fossero comuni a tutti i cittadini (per esempio i costumi). Questo processo si è attuato, negli Stati che l’hanno portato avanti fino in fondo, con l’imposizione a tutti i cittadini dei contenuti caratteristici della nazionalità spontanea prevalente e con la soppressione delle nazionalità spontanee minori (a questo proposito è paradigmatico il caso della Francia).
Il carattere ideologico della nazione spiega anche i mutevoli accenti che — nelle diverse situazioni storico-politiche — vengono posti sui suoi diversi e contraddittori contenuti rappresentativi. Poiché essa è l’ideologia di uno Stato, dovrà adattarsi nel suo contenuto alle mutevoli esigenze della ragion di Stato. Per questo, quando l’Alsazia era oggetto di disputa tra la Francia e la Germania, la nazione era per i francesi il gruppo di coloro che «vogliono vivere insieme», mentre era definita, per i tedeschi, dalla comunanza di lingua e di costumi; così, prima della prima guerra mondiale, Trento e Trieste erano italiane perché i loro abitanti erano di lingua italiana; mentre, dalla fine della prima guerra mondiale, il Tirolo del Sud è italiano perché è compreso nei «confini naturali» dell’Italia. E via di seguito.
 
6. Si è finora concluso in via provvisoria che la nazione è l’ideologia di un tipo di Stato. Rimane da vedere di quale tipo di Stato. A questo proposito appare ovvia una prima considerazione, che comunque è confermata dalla storia della comparsa del termine, usato nell’accezione attuale: il comportamento nazionale, quale è stato precedentemente definito, non era pensabile prima che la Rivoluzione industriale creasse delle sfere di interdipendenza della condotta degli uomini — quantomeno, dapprima, limitatamente alla classe borghese — corrispondenti in estensione ai moderni Stati nazionali. Per questo, nel Medio Evo, un riferimento della condotta umana alle entità «Francia», «Germania», «Italia», ecc., inteso come fatto sociale e prescindendo da sporadici riferimenti letterari, era impossibile.
L’evoluzione del modo di produrre causata dalla Rivoluzione industriale creò mercati di dimensioni «nazionali», allargò conseguentemente l’orizzonte della vita quotidiana di strati sempre più numerosi della popolazione e collegò allo Stato una serie di comportamenti economici, politici, amministrativi, giuridici che, nella fase precedente, ne erano del tutto indipendenti.
Si realizzavano in questo modo alcune condizioni necessarie della nascita dell’ideologia nazionale. Ma non si tratta ancora di condizioni sufficienti. L’ideologia nazionale presuppone infatti il collegamento allo Stato non solo dei comportamenti puramente esteriori che abbiamo elencato, ma anche di quelli costitutivi del sentimento intimo della personalità e dell’affinità fondamentale di gruppo, collegamento che la sola evoluzione del modo di produrre non è sufficiente a creare. È caratteristico per esempio il fatto che in Gran Bretagna, contrariamente a quanto è accaduto sul continente europeo, il processo di estensione dell’ambito di interdipendenza tra i rapporti umani provocato dalla Rivoluzione industriale ha portato al collegamento allo Stato del primo tipo di comportamento e non del secondo, tanto che i cittadini britannici, pur considerandosi cittadini di un unico Stato e tenuti ad un comune dovere di lealtà verso la Corona, non sentono come loro «patria» la Gran Bretagna, bensì l’Inghilterra, la Scozia o il Galles. Ciò significa che in Gran Bretagna lo sviluppo della Rivoluzione industriale non ha portato — se non in misura parziale e imperfetta — al soffocamento delle autentiche nazionalità spontanee e alla loro sostituzione con l’idea fittizia di nazione.
Questa differenza tra l’esperienza della Gran Bretagna e quella continentale si spiega con la diversa evoluzione dello Stato nelle due aree. Mentre infatti la situazione geografica insulare — quindi facilmente difendibile con la sola flotta — della Gran Bretagna le ha consentito di conservare nel corso dei secoli una struttura statale elastica e decentrata, gli Stati del continente europeo, esposti continuamente al pericolo di invasioni da parte dei loro vicini territoriali e quindi permanentemente destinati ad uno stato di guerra aperta o latente, sono stati costretti, per fronteggiare efficacemente questa situazione, ad accentrare al massimo il potere attraverso gli istituti della leva obbligatoria, della scuola di Stato, della centralizzazione amministrativa, ecc. Essi si sono trovati quindi nella situazione, da un lato, di dover esigere dai loro cittadini un grado di fedeltà al potere senza precedenti, quantomeno dai tempi della città-Stato greca, che giungeva fino alla richiesta del sacrificio della vita; e, dall’altro, di disporre degli strumenti adatti ad inculcare artificialmente negli animi dei cittadini stessi questi sentimenti di fedeltà. L’idea di nazione, con la rappresentazione di un oscuro e profondo legame di sangue che convoglia e con il rituale pseudo-religioso che l’accompagna, è stata e rimane il veicolo per la creazione e il mantenimento di questo lealismo potenzialmente totale.
È in questo modo che si giunge alla definizione della nazione data da Albertini come l’ideologia dello Stato burocratico accentrato.
 
7. Se la nazione è l’ideologia dello Stato burocratico accentrato, il superamento di questa forma di organizzazione del potere politico implica la demistificazione dell’idea di nazione. La base pratica di questa demistificazione esiste. È un dato di fatto che l’attuale evoluzione del modo di produrre nella parte industrializzata del mondo, dopo aver portato alla dimensione «nazionale» l’ambito di interdipendenza tra i rapporti umani, sta ora tendenzialmente allargandolo al di là delle dimensioni degli attuali Stati nazionali e fa apparire con sempre più immediata chiarezza la necessità di organizzare il potere politico su spazi continentali e secondo moduli federali.
È quindi prevedibile che la storia degli Stati nazionali stia volgendo al termine e stia per iniziare una fase nella quale il mondo sarà organizzato in grandi spazi politici federali. Ma, si noti bene, se il federalismo indubbiamente significa la fine delle nazioni nel senso da noi definito, esso significa anche la rinascita, o il rinvigorimento, delle nazionalità spontanee che lo Stato nazionale soffoca o degrada a strumenti ideologici al servizio del potere politico, e quindi il ritorno di quegli autentici valori comunitari di cui l’ideologia nazionale si è appropriata trasformandoli in bestiali sentimenti gregari.
 
 
BIBLIOGRAFIA
 
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H. KohnThe Idea of Nationalism – A Study in Its Origins and Background, New York, 1944.
 


* Si tratta di una voce redatta per il Dizionario di Politica di prossima pubblicazione per i tipi della U.T.E.T., qui pubblicata per cortese concessione della Casa editrice.

 

 

 

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