IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno LX, 2018, Numero 1, Pagina 69

 

 

UNIONE EUROPEA E COMUNITA’ EUROPEA:
DUE ASSETTI ISTITUZIONALI INCOMPATIBILI?*

 

 

Quando, nel 1984, il Parlamento europeo approvò a larga maggioranza il progetto di Trattato sull’Unione europea, scelse di subordinare l’entrata in vigore del nuovo Trattato alla ratifica di un numero di Stati membri della Comunità, la cui popolazione ammontasse ai due terzi della popolazione della CEE (art. 82 del progetto, 14 febbraio 1984). Le ragioni di tale orientamento sono le medesime che due secoli fa, nel 1787, spinsero la Convenzione di Filadelfia a stabilire che fossero sufficienti le ratifiche di nove Stati su tredici per l’entrata in vigore della Costituzione federale americana: nell’uno come nell’altro caso, si volle evitare che una ridotta minoranza di Stati, o addirittura un singolo Stato, potesse bloccare il processo di unificazione federale voluto dai più.

Il progetto del 1984 non si soffermò invece sulla natura e sulla disciplina dei rapporti giuridici che sarebbero intercorsi tra gli Stati della futura Unione europea e gli Stati della Comunità i quali non avessero ritenuto — almeno in un primo tempo — di aderire all’Unione stessa: il progetto si limitò a stabilire che i governi degli Stati dell’Unione “si riuniranno per decidere di comune accordo… sulle relazioni con gli Stati membri che non abbiano ancora ratificato” (art. 82 del progetto). La questione è importante, dal momento che ben diverso potrà essere l’atteggiamento degli Stati eventualmente contrari alla transizione dalla Comunità all’Unione, a seconda che quest’ultima si configuri come una rottura degli impegni comunitari, o invece come una costruzione ulteriore che tali impegni salvaguardi.

Anche nel caso non improbabile che taluni Stati fossero comunque contrari alla prospettiva dell’Unione, un assetto istituzionale dell’Unione e un impegno formale dei suoi membri tali da non pregiudicare l’acquis communautaire nei confronti degli Stati della CEE non aderenti all’Unione produrrebbero il risultato di togliere un motivo di opposizione politicamente e giuridicamente assai forte agli Stati contrari all’Unione stessa.

Potrà venire il momento — presto o tardi, non è dato di prevedere oggi — in cui le circostanze e la volontà politica di alcuni Stati porranno nuovamente all’ordine del giorno l’obiettivo dell’Unione, in una prospettiva istituzionale di segno analogo a quella delineata dal progetto del 1984: potere di codecisione del Parlamento europeo sul terreno legislativo, abolizione del diritto di veto, rafforzamento del potere di governo della Commissione. E’ appena il caso di ricordare che alla base di tali proposte di riforma istituzionale stanno, ad un tempo, istanze di maggiore efficienza (in quanto il requisito dell’unanimità produce l’inevitabile effetto di paralizzare ogni decisione nei casi controversi) e ragioni di principio (in quanto le istituzioni comunitarie attuali violano ad un tempo il criterio della separazione dei poteri ed i canoni fondamentali della democrazia, poiché l’organo che rappresenta il popolo non è dotato del potere legislativo).

Sarà allora importante aver previamente esplorato e messo a punto una serie di criteri giuridici e istituzionali di compatibilità tra la possibile Unione europea e l’attuale Comunità, per le ragioni dette.

Su questo tema sinora trascurato si è svolto a Milano, il 16 novembre 1987, un Convegno organizzato dalla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi, cui hanno preso parte alcuni autorevoli studiosi italiani di diritto internazionale, diritto costituzionale, diritto comunitario.

Le premesse politologiche, le ragioni e le prospettive che inducono a porsi il problema della compatibilità tra Comunità e Unione sono state esposte da Francesco Rossolillo, vicepresidente dell’Unione europea dei federalisti. Non essendo realistico ipotizzare un’identica volontà di avanzamento in tutti i paesi della Comunità — egli ha detto — occorre prevedere procedure e soluzioni che non arrestino il processo, in pari tempo garantendo tutti. D’altronde neppure la CECA e la CEE sarebbero nate se si fosse voluta ad ogni costo, sin dall’origine, l’adesione, ad esempio, dell’Inghilterra.

Il problema giuridico-istituzionale della compatibilità tra Unione e Comunità è stato posto da Antonio Padoa Schioppa (Università di Milano), il quale ha prospettato un’ipotesi di soluzione su cui ha sollecitato il parere degli studiosi di diritto internazionale e comunitario presenti al Convegno. Base fondamentale di tale ipotesi è il principio per cui l’Unione non sarebbe in nessun caso abilitata a violare il diritto comunitario e l’acquis communautaire. Le risorse dell’Unione sarebbero diverse e ulteriori rispetto alle entrate della Comunità. Gli organi dell’Unione, pur formalmente distinti da quelli comunitari, sarebbero costituiti dalle medesime persone, limitatamente però ai membri dei paesi aderenti all’Unione. Le competenze dell’Unione sarebbero in parte concorrenti (nell’ossequio del principio di cui sopra), in parte separate.

Su queste linee propositive il Convegno ha registrato una discussione assai articolata e vivace.

Alla domanda di base del Convegno i relatori hanno concordemente risposto che, sul piano tecnico-giuridico, meccanismi istituzionali di segno analogo a quello delineato nella proposta possono certamente essere concepiti, allo scopo di rendere possibile la compatibilità tra la Comunità e l’eventuale Unione europea.

Le difficoltà sono di ordine diverso, tuttavia, riguardo ai diversi organi e settori di competenza. Quanto agli organi, relativamente più semplice è il prevedere un funzionamento a due livelli del Parlamento europeo e del Consiglio dei Ministri, relativamente più complesso è immaginare che ciò possa avvenire da parte della Commissione. Quanto alle competenze, il terreno delle materie non comprese nei Trattati di Roma (dalla moneta all’energia, alla stessa difesa) è più agevolmente percorribile da parte dell’Unione, rispetto a quello comunitario, pur non essendo certo impossibile un meccanismo di competenza concorrente tale però da attribuire il primato al diritto comunitario.

Più in generale, l’art. 41 della Convenzione di Vienna sui trattati internazionali prevede la possibilità di un nuovo trattato tra alcuni soltanto degli Stati che abbiano sottoscritto un precedente trattato, a condizione che quest’ultimo non lo vieti e non sia incompatibile con esso. Il Trattato d’Unione potrebbe venire inquadrato in questa prospettiva secondo Francesco Capotorti (Università di Roma), il quale ha però, osservato che la compattezza della costruzione comunitaria potrebbe essere intaccata e che il Parlamento europeo potrebbe aver difficoltà a imboccare questa via. D’altra parte, ha fatto notare Fausto Pocar (Università di Milano), la stessa Convenzione di Vienna non presuppone necessariamente il consenso di tutti gli Stati aderenti al primo trattato a che una parte di loro ne concluda un secondo.

Altri interventi hanno posto l’accento sulle potenzialità positive delle istituzioni comunitarie attuali, a loro giudizio non ancora utilizzate a pieno. Antonio Tizzano (Università di Napoli) ha ricostruito le vicende che hanno condotto all’approvazione dell’Atto Unico — nel corso delle quali un paese (l’Italia) ha per la prima volta subordinato il proprio assenso a quello del Parlamento europeo — sottolineandone gli aspetti che comportano un coinvolgimento più attivo del Parlamento europeo e ritenendo non maturi i tempi per ulteriori progressi sul terreno istituzionale. Il ruolo creativo della giurisprudenza comunitaria è stato posto in rilievo da Alberto Santa Maria (Università di Milano), con riferimento ai risultati profondamente innovatori che sono scaturiti dal principio della efficacia diretta del diritto comunitario all’interno degli ordinamenti dei singoli Stati.

Anche Alberto Predieri (Università di Firenze) ha richiamato l’attenzione sugli ostacoli rilevanti che la prospettiva dell’Unione presenta in questa fase, benché l’insufficienza delle istituzioni comunitarie attuali, specie sotto il profilo della legittimazione democratica, sia evidente. Un mandato costituente attribuito al Parlamento europeo potrebbe essere risolutivo, e a questo fine un referendum condotto nei singoli Stati (o addirittura a livello comunitario) potrebbe costituire un forte sprone. Un eventuale referendum consultivo per l’Europa potrebbe essere disposto, in Italia, anche con legge ordinaria.

Non è detto che non sia possibile e opportuno esperire nuovamente in futuro la procedura prevista dall’art. 236 per la revisione dei Trattati di Roma, ha osservato Franco Mosconi (Università di Pavia), quanto meno allo scopo di verificare in concreto le prospettive di un coinvolgimento di tutti gli Stati dell’attuale Comunità nell’ulteriore cammino verso l’Unione. Se poi dovesse risultare che alcuni Stati non sono in alcun modo disposti a procedere e neppure a consentire che altri proceda, bisognerebbe porsi l’interrogativo — sul quale ha richiamato l’attenzione Riccardo Luzzatto (Università di Milano) — se non sia inevitabile dover pagare (od essere comunque disposti a pagare) il prezzo della rottura.

Si scorge qui un nodo centrale della problematica sulla quale il Convegno ha inteso aprire il dibattito. E’ appunto la questione del consenso di tutti — consenso evidentemente auspicato, ma altresì indispensabile per procedere? — a rendere più pregnante l’interrogativo sulla compatibilità tra Comunità e Unione. Una risposta positiva al quesito sulla compatibilità avrebbe il risultato di porre gli Stati tendenti all’Unione in una condizione assai forte, anche sul piano negoziale, nei confronti degli altri Stati della Comunità. Sicché non è affatto da escludere che tutti finirebbero per aderire. Qualora poi ciò non accadesse, non soltanto l’ingresso nell’Unione sarebbe sempre possibile, ma l’impegno a non violare il diritto comunitario dovrebbe venir scrupolosamente osservato dall’Unione, rendendone garante la Corte di Giustizia comunitaria.

Antonio Padoa Schioppa

 

APPENDICE**

Formuliamo l’ipotesi che un gruppo consistente di Stati membri della Comunità europea (per esempio i sei Stati fondatori più la Spagna e l’Irlanda) manifesti la volontà politica di procedere verso l’Unione europea mediante l’adozione di riforme istituzionali di segno corrispondente a quelle previste nel progetto del Parlamento europeo del 14 febbraio 1984: attribuzione al Parlamento europeo stesso del potere legislativo comunitario, da esercitarsi di concerto con il Consiglio dei Ministri deliberante a maggioranza; rafforzamento dei poteri di governo della Commissione.

Il quesito sul quale vorremmo avviare una riflessione è il seguente: è possibile immaginare un assetto istituzionale dell’Unione che non pregiudichi il funzionamento delle istituzioni comunitarie, così da tutelare quegli Stati membri della Comunità che non ritengano di aderire all’Unione stessa? Se la risposta fosse affermativa, sarebbe concepibile che il nuovo Trattato sull’Unione europea potesse venir predisposto con l’assenso di tutti gli Stati membri, anche di coloro che — almeno all’inizio: ma la porta dovrebbe naturalmente restare sempre aperta — non ritenessero di aderire all’Unione. Quantomeno, un alibi per opporsi all’Unione in nome della Comunità sarebbe così rimosso.

Proviamo ad enunciare in forma schematica alcuni principi di risposta positiva (nel senso cioè della compatibilità) al quesito che abbiamo formulato: sulla praticabilità e coerenza dei quali — oltre che su altri aspetti della tematica che qui interessa — saranno i relatori e gli intervenienti al Convegno ad esprimere il loro avviso autorevole.

Consideriamo il problema della compatibilità tra Unione e Comunità sotto quattro profili: i principi, le risorse, gli organi, le competenze.

1. I principi.

a) All’Unione non dovrebbe essere consentita alcuna decisione che sia in contrasto con il diritto comunitario e con l’acquis communautaire.

b) I limiti giuridici che dovrebbero essere posti all’Unione sono i medesimi che valgono attualmente per gli Stati membri nei confronti della Comunità: là dove uno Stato può decidere autonomamente senza violare i Trattati di Roma e il diritto comunitario, dovrebbe poterlo fare l’Unione.

c) L’Unione dovrebbe perciò poter decidere — con le procedure e con gli organi che le sono propri — secundum legem e praeter legem, non contra legem (ove lex indica il diritto comunitario).

d) Se l’Unione prendesse decisioni su un terreno non ancora coltivato dalla Comunità, ma facente parte delle sue competenze, gli organi della Comunità dovrebbero poter decidere come tali, secondo le procedure comunitarie, in qualsiasi momento.

e) potrebbe essere consentito agli Stati membri dell’Unione di adottare — in vista di delibere comunitarie — procedure preliminari coerenti con i principi dell’Unione, che riguardo alla Comunità varrebbero come semplici interna corporis (per esempio: voto preliminare del Parlamento europeo).

f) Garante del rispetto di quanto sopra sarebbe la Corte di Giustizia.

2. Le risorse.

I mezzi finanziari e il bilancio dell’Unione dovrebbero essere distinti da quelli della Comunità. Le iniziative dell’Unione verrebbero finanziate con risorse aggiuntive rispetto a quelle comunitarie, per esempio destinando al bilancio dell’Unione una quota ulteriore dell’IVA nazionale.

3. Gli organi.

L’Unione europea potrebbe adottare gli stessi organi della Comunità (Parlamento europeo, Consiglio dei ministri, Commissione, Corte di giustizia), i quali in sede di Unione sarebbero composti dalle stesse persone che ne fanno parte in sede di Comunità, ma senza la partecipazione (se non in veste di uditori) dei membri provenienti dagli Stati che non facciano parte dell’Unione. I poteri e i rapporti tra gli organi dell’Unione sarebbero definiti nel Trattato dell’Unione.

I parlamentari europei, i ministri, i commissari e i giudici provenienti dagli Stati dell’Unione agirebbero pertanto in duplice veste, a seconda che si tratti di decisioni della Comunità e di decisioni dell’Unione. Se dal punto di vista della identità giuridica e dei poteri gli organi delle due cerchie naturalmente sarebbero distinti, l’unicità della procedura di nomina e la coincidenza delle persone semplificherebbero grandemente le cose. Giorni di riunione e presidenti sarebbero distinti. Le strutture amministrative della Comunità, debitamente potenziate e sovvenzionate per coprire il costo del lavoro aggiuntivo, potrebbero servire anche all’Unione.

4. Le competenze.

I problemi nascenti dalla compatibilità delle due strutture della Comunità e dell’Unione meritano un attento esame da compiersi partitamente nei singoli settori. In questa sede ci limitiamo a sottolineare il fatto che vi saranno certamente settori in cui la compatibilità sarà minore o minima ed altri in cui sarà maggiore o massima.

Agricoltura: trattandosi del settore più compiutamente disciplinato della CEE, esso potrebbe restare fuori dal raggio d’intervento dell’Unione.

Mercato unico: gli Stati dell’Unione potrebbero — nel rispetto dei principi di cui sopra — dare al processo un impulso ulteriore, per esempio procedendo con più rapidità all’adozione delle misure suggerite dal Libro bianco. Su ciò occorrerebbe compiere uno studio specifico di compatibilità.

Politica sociale e politica regionale: gli Stati dell’Unione potrebbero destinare a questi settori una quota consistente del bilancio dell’Unione.

Moneta: l’esempio dello SME ha mostrato la praticabilità di accordi di grande portata, assunti da un gruppo di Stati della Comunità. Gli ulteriori progressi istituzionali — sino alla creazione di una Banca centrale dell’Unione — potrebbero venir compiuti senza suscitare problemi di compatibilità giuridica con i principi del diritto comunitario.

Concludo sottolineando che quelle ora formulate sono solo alcune possibili vie di risoluzione del problema enunciato in apertura. Vie che potranno essere percorse soltanto in virtù di una volontà politica di cui non è nostro compito, in questa sede, valutare l’entità e la portata.

Saranno gli autorevoli specialisti che hanno accettato di partecipare al Convegno — e di ciò li ringrazio sin d’ora a nome della Facoltà — a dare una prima valutazione tecnica di questo complesso ventaglio di problemi.

Per una volta, compiremo qui un esercizio intellettuale sul terreno dello ius condendum, partendo tuttavia dalla base ormai consistente dello ius conditum comunitario. Per tutti, e in particolare per gli studenti che vedo numerosi, potrà essere un’esperienza interessante.

 


* Si tratta del resoconto di un Convegno tenutosi presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano il 16 novembre 1987, pubblicato in Il Federalista, 30, n. 3 (1988), p. 210.

** Si tratta del documento presentato al convegno da Antonio Padoa Schioppa; il documento è il risultato di discussioni avute con Franco Mosconi e con Francesco Rossolillo.

 

 

 

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