IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Anno XLII, 2000, Numero 2, Pagina 135

 

 

L’Europa, per che fare?*
 
FRANCESCO ROSSOLILLO
 
 
Nella società europea si è venuta manifestando in questo dopoguerra, in forme soltanto virtuali, o comunque limitate in estensione, fino a che la libera espressione di ogni fermento ideale è stata frenata dalla guerra fredda, e in forme sempre più esplicite e diffuse fino a diventare pressoché generale dopo che lo schermo della guerra fredda è caduto, l’aspirazione a realizzare modi di convivenza civile e di organizzazione del potere politico che vadano al di là dei modelli russo e americano, improntati a forme di autoritarismo che si presentano come contrapposte ma che di fatto realizzano lo stesso tipo di violenza sul libero sviluppo della personalità individuale dei cittadini, e diano corpo a una società più libera e più giusta, inquadrata da strutture politiche a misura dell’uomo.
Questa generale aspirazione antiautoritaria si è espressa soprattutto in tre settori e con riferimento a tre problemi cruciali della moderna società europea: la scuola, la fabbrica e l’ambiente naturale e urbano.
Nella scuola essa si è manifestata come protesta contro il controllo burocratico esercitato dallo Stato e contro il condizionamento da parte dell’apparato produttivo che, concependo la scuola come uno strumento avente la funzione esclusiva di creare cittadini docili al potere e integrati nella struttura economica della società, hanno imposto e impongono l’insegnamento di una cultura pietrificata e specializzata e l’adozione di una pedagogia autoritaria e repressiva; e come rivendicazione di una scuola autenticamente democratica, libera da ogni inquadramento burocratico, che attraverso la adozione di una pedagogia moderna, basata sul dialogo quotidiano tra docenti e discenti, e l’insegnamento di una cultura viva e attuale, metta in primo piano l’obiettivo dello sviluppo della personalità individuale dello studente invece di mutilarla arbitrariamente.
Nella fabbrica essa si è manifestata come protesta contro metodi manageriali arretrati che conculcano ingiustificatamente la dignità umana dei lavoratori, e come rivendicazione sia del diritto dei lavoratori di appropriarsi di una parte maggiore del prodotto dell’impresa, sia del loro diritto di essere resi partecipi, come classe, della programmazione della produzione su scala nazionale e, come individui, delle decisioni concernenti l’organizzazione del lavoro all’interno dell’azienda e del controllo sulla gestione dell’impresa in generale.
Nell’ambiente naturale e urbano essa si è manifestata come diffusa presa di coscienza, che per la sua ampiezza non ha precedenti nella storia della civiltà, della urgente necessità di una articolata politica del territorio, capace di armonizzare la soluzione dei problemi dello sviluppo economico con quelli della salvaguardia dei valori naturali e della tutela, o del ripristino, di ambienti urbani che consentano il permanere, o il ricrearsi, di rapporti comunitari tra gli uomini, bloccando il processo in corso che sta portando, attraverso l’anarchico sviluppo a macchia d’olio delle città e la distruzione sistematica dell’ambiente naturale, ad una progressiva disumanizzazione dei rapporti sociali e della vita individuale. Questa presa di coscienza si esprime come protesta contro l’accentramento delle decisioni di politica territoriale, che serve di copertura agli interessi speculativi protagonisti della distruzione dell’ambiente naturale e urbano e come rivendicazione del diritto delle comunità territoriali di discutere e risolvere democraticamente da sé i problemi che le concernono.
Queste diffuse aspirazioni e lotte antiautoritarie sono accompagnate dall’acuta coscienza della necessità di realizzare un altro valore che è inscindibilmente connesso con tutti quelli che muovono oggi la società europea: la pace. Mai come oggi è stata acuta la consapevolezza del fatto che, proprio mentre l’umanità sta combattendo una grande lotta per la liberazione dell’individuo, per il riconoscimento della sua dignità e della sua responsabilità, essa si è dotata di mezzi di distruzione di tale potenza da renderla capace di distruggere qualunque conquista civile in brevissimo tempo; e da rendere difficili e incerte queste stesse conquiste nella misura in cui, facendo pesare sull’umanità la minaccia della distruzione, essi mobilitano una immensa quantità di energie materiali e morali che vengono sottratte alle grandi battaglie civili del nostro tempo.
 
L’emergenza di nuovi valori e la necessità di una nuova teoria politica.
 
Questi fermenti e queste rivendicazioni sono, da un lato, guidati dai valori che sono stati fatti emergere dalle grandi lotte politiche dell’Ottocento e devono quindi essere interpretati come la manifestazione dell’esigenza di proseguire e completare le rivoluzioni liberale, democratica e socialista. Queste ultime e gli attuali fermenti antiautoritari e pacifisti si collocano quindi in un’unica linea di sviluppo: quella della progressiva presa in mano da parte dell’uomo del proprio destino, della progressiva umanizzazione del potere e, in generale, dei rapporti tra gli uomini. Lo dimostra il fatto che le esigenze che agitano la società europea di oggi ripropongono in forme diverse i grandi valori che hanno ispirato le ideologie del secolo XIX: la libertà individuale contro gli arbitrii del potere; una maggior partecipazione dei cittadini alla presa delle decisioni che li riguardano a tutti i livelli; e una più giusta distribuzione della ricchezza.
Ma, insieme, le lotte in corso oggi in Europa hanno fatto emergere prospettive di valore nuove. Mentre le grandi ideologie del XIX secolo si proponevano l’obiettivo della liberazione di una classe sociale — prima la borghesia, poi il proletariato —, il senso delle inquietudini attuali — malgrado la terminologia classista che viene spesso usata da alcuni dei gruppi che le esprimono, e che è spiegabile sulla base dell’osservazione di Marx, secondo la quale ogni movimento storico ha la tendenza ad esprimere le proprie rivendicazioni usando la terminologia di quello che lo ha immediatamente preceduto — è quello di liberare l’individuo in quanto tale.
D’altro canto, lo stesso valore della pace, che pure era presente nell’orizzonte delle ideologie liberale, democratica e socialista, viene posto solo oggi al vertice della scala dei valori, solo oggi viene considerato un fine da realizzare in sé, mentre nelle grandi ideologie dell’Ottocento esso aveva una posizione subordinata, e la sue realizzazione veniva considerata come un sottoprodotto della realizzazione di un ordine rispettivamente liberale, democratico o socialista.
Questo mutamento delle prospettive di valore, oggi in Europa, rispetto a quelle che contraddistinsero le grandi rivoluzioni del XIX secolo, non è arbitrario, ma è il risultato dell’evoluzione dei mezzi materiali della produzione e delle forze produttive.
L’evoluzione dei mezzi materiali della produzione e delle forze produttive nel corso del XIX secolo ha avuto come risultato la progressiva integrazione tra le classi sociali, non certo nel senso che le ingiustizie nella ripartizione della ricchezza in Europa si possano dire oggi superate, ma in quello che, avendo la classe lavoratrice raggiunto un livello medio di reddito che le consente di condurre un’esistenza dignitosa, la lotta tra le classi ha superato la sua fase violenta ed ha cessato di essere il problema-chiave della vita politica. L’Ottocento ha cioè di fatto liberato le classi. Questo sviluppo ha quindi creato la base materiale per l’emergenza del valore della liberazione dell’individuo attraverso l’instaurazione di rapporti sociali comunitari, che rimanevano impensabili fino a che l’odio di classe elevava una barriera insuperabile tra proletari e borghesi dello stesso Stato, della stessa città, dello stesso villaggio.
D’altra parte, questo stesso processo che ha portato alla integrazione tra le classi sociali non ha agito soltanto in profondità ma ha cominciato, nel corso del XX secolo, ad agire anche in estensione, cioè ad integrare popolazioni di Stati diversi. Questa nuova direzione del processo, che si è manifestata con particolare evidenza in Europa, dove più aperta è la contraddizione tra il moderno grado di sviluppo dei mezzi materiali della produzione e le dimensioni ottocentesche degli Stati nazionali, ha creato due conseguenze apparentemente opposte, ma di fatto convergenti. Da un lato, con il potenziamento dei mezzi di comunicazione e degli armamenti che ha prodotto, esso ha reso la guerra immensamente più distruttiva che nel passato, e quindi ha fatto apparire per la prima volta la pace come la condizione indispensabile di qualsiasi progresso civile.
D’altro lato, ponendo in contatto sempre più stretto e più frequente popoli di Stati diversi, ha creato per la prima volta le condizioni della pensabilità della realizzazione della pace attraverso il superamento delle barriere tra le nazioni.
D’altra parte la situazione esistente oggi in Europa, come l’abbiamo definita nei suoi aspetti di valore e nei suoi aspetti materiali è ancora in attesa di una teoria politica che fornisca le categorie per la comprensione della realtà nuova della società europea e per la creazione di istituzioni in grado di attrarre a sé il consenso dei cittadini europei e di esprimere una politica adeguata ai nuovi bisogni. Questa teoria non può essere quella liberale, né quella democratica, né quella socialista che, indipendentemente dagli aspetti ideologici che contenevano, hanno avuto la funzione di fornire le categorie per l’interpretazione della realtà sociale delle diverse fasi del XIX secolo. Deve trattarsi di una teoria nuova, che conservi quanto vi è di non ideologico nel liberalismo, nella democrazia e nel socialismo, ma li superi in una visione adeguata ai problemi del nostro tempo.
Questa teoria è il federalismo. Il federalismo infatti, considerato nel suo aspetto di struttura, come teoria dello Stato federale, fornisce uno strumento istituzionale che, da un lato, ha la caratteristica di essere aperto, cioè non limitato alla estensione di una singola nazione tradizionale, e capace al limite di servire come formula politica per un governo mondiale; e che dall’altro, ha la caratteristica di presentare un’ampia articolazione, adatta a garantire la massima divisione territoriale del potere e il massimo autogoverno locale. Lo Stato federale costituisce pertanto la sola formula politica che da un lato, consenta di dominare con il metodo democratico l’attuale corso supernazionale della storia mondiale attraverso il superamento delle barriere tra le nazioni e, in prospettiva, permetta di pensare alla realizzazione della pace perpetua attraverso la creazione di un governo democratico mondiale; e che, dall’altro, garantendo un ampio grado di autonomia alle collettività locali, consenta di creare le condizioni per lo sviluppo di una vera vita comunitaria e quindi per la liberazione dell’individuo.
 
Lo Stato nazionale contro il rinnovamento.
 
Il fatto che non si sia ancora largamente diffusa una teoria che fornisca le categorie atte ad esprimere i nuovi fermenti che agitano la società europea deve a sua volta essere imputato al fatto che essi hanno incontrato un ostacolo politico che li ha trasformati, in assenza dell’individuazione di uno sbocco positivo, in moti di rivolta o in uno sterile disagio; il nostro problema è quindi ora quello di comprendere la natura di questo ostacolo e di individuare la soluzione politica allo stato di crisi in cui l’Europa si dibatte in seguito alla contraddizione profonda che si è creata tra la situazione di fatto e i valori condivisi dalla maggior parte dei cittadini.
L’ostacolo, come si è già accennato precedentemente, è costituito dallo Stato nazionale. Abbattere lo Stato nazionale costituisce quindi l’indispensabile condizione preliminare per l’attuazione di qualsiasi politica di progresso oggi in Europa.
Le ragioni per le quali lo Stato nazionale costituisce oggi la strozzatura che impedisce qualunque evoluzione progressiva della politica e della società in Europa si possono comprendere se si tengono presenti due elementi — uno storico, l’altro attuale — che rendono ragione della sua incapacità di risolvere i problemi del nostro tempo.
Il primo è costituito dall’accentramento dello Stato nell’Europa continentale, che la nostra epoca ha ricevuto in eredità dalla storia precedente. Si tratta di un fenomeno le cui ragioni non possono essere studiate in questa sede, ma che ha segnato di un’impronta profonda tutta la vita politica e sociale degli Stati continentali europei nel corso della storia moderna. Esso, creando un apparato statale autoritario, burocratico, lontano dalla vita dei cittadini e quindi sottratto a qualsiasi possibilità di controllo da parte loro, ha parzialmente vanificato gli sforzi dei protagonisti delle rivoluzioni liberale, democratica e socialista ed è responsabile dell’autoritarismo che ancora oggi è presente in tutti i settori della società e contro cui lottano, nella scuola, nella fabbrica e nell’ambiente naturale e urbano, gli studenti, gli operai e la parte più cosciente del popolo.
D’altro lato, questo tipo di Stato, anche se oggi è indebolito, come si vedrà in seguito, e quindi lascia uno spazio per la nascita di aspirazioni al decentramento e alla reviviscenza delle nazionalità minori, non consente a queste aspirazioni di radicarsi, di trovare una effettiva espressione politica e quindi di ottenere risultati concreti perché esso, da una parte, si giustifica sulla base dell’ideologia della nazione come entità eterna e indivisibile e, dall’altra, attraverso una secolare azione livellatrice, ha sistematicamente soffocato qualunque particolarità locale di carattere linguistico o culturale e quindi la stessa base sociale, la fonte della volontà politica, del ripristino di un effettivo grado di decentramento all’interno degli Stati esistenti.
Il secondo fattore, che si è manifestato con evidenza sempre più drammatica nel corso del XX secolo, è costituito dal fatto, cui abbiamo già accennato in precedenza, che, sull’onda dell’ininterrotto sviluppo dei mezzi materiali della produzione, i rapporti economici e i problemi strategici hanno l’aggiunto dimensioni tali da rendere sempre più inadeguate le dimensioni degli Stati europei, che erano unità politiche all’altezza dei problemi posti dalle società ottocentesche, ma che non sono assolutamente più all’altezza di quelli posti dalla società del nostro tempo, e che corrispondentemente sono scaduti da principali protagonisti a poco più di semplici oggetti della politica mondiale ed hanno potuto salvare la loro prosperità materiale soltanto a prezzo di sacrificare, con il mercato comune, una larga parte della loro sovranità in materia economica.
Questa è l’unica vera ragione della crisi dello Stato in Europa occidentale, di cui oggi tutti parlano senza però capirne la natura. Considerata sotto il profilo più generale, essa si manifesta come crisi di consenso, come distacco dei cittadini dello Stato, motivato dal fatto, acutamente anche se non del tutto coscientemente sentito dai cittadini stessi, che lo Stato non è più un centro di decisioni capace di garantire con la sua azione la loro sicurezza e il loro benessere, ormai dipendenti da altri centri di decisione: il governo americano e il capitalismo internazionale liberamente operante nel quadro del mercato comune.
Questa crisi di consenso diventa immediatamente crisi del processo di formazione della volontà politica, sia nel senso che senza una forte partecipazione dell’opinione pubblica nessuna classe politica può esprimere maggioranze stabili ed omogenee, capaci di portare avanti politiche coraggiose; sia in quello che la stessa selezione della classe politica, in una situazione in cui i partiti sono sempre più screditati e in crisi di aderenti, si deteriora, portando al timone dello Stato personalità mediocri e prive di capacità politiche.
Questo spiega perché, anche di fronte alla minaccia del disordine, i governi europei non hanno saputo dimostrare l’energia e l’immaginazione necessarie per affrontare i problemi della scuola, del mondo del lavoro, dell’ambiente naturale e urbano e stanno lasciando incancrenire, nella confusione e nell’impotenza, una situazione che si va facendo sempre più insostenibile.
In particolare questo spiega l’impotenza della classe lavoratrice, condannata ad un ruolo subordinato dalle dimensioni nazionali dei sindacati, che si trovano ingaggiati in una lotta impari contro una classe capitalistica che, nei suoi settori avanzati, agisce in una dimensione europea.
D’altra parte l’importanza degli Stati nazionali europei — la cui struttura chiusa e militaristica aveva peraltro da sempre reso precario l’equilibrio europeo — ha creato in Europa e nella parte del mondo che attenderebbe naturalmente di essere aiutata dall’Europa un vuoto di potenza che ha contribuito in modo determinante a deteriorare la bilancia mondiale nella misura in cui ha costretto le due superpotenze a estendere, con un immane sforzo militare, finanziario e ideologico, le loro zone di influenza a parti del mondo che la geografia naturalmente escluderebbe dal loro raggio di azione; e, conseguentemente, nella misura in cui ha posto le due superpotenze stesse direttamente l’una di fronte all’altra, senza un terzo autorevole protagonista dell’equilibrio internazionale, capace di svolgere un ruolo di mediatore nei loro conflitti. L’impotenza degli Stati nazionali europei quindi ha avuto un enorme rilievo negativo anche rispetto al fine del mantenimento della pace.
Le considerazioni che precedono fanno chiaramente apparire la conclusione che nessuna delle aspirazioni ideali che agitano oggi l’Europa potrà avere un inizio di realizzazione fino a che la società europea continuerà ad essere organizzata nella forma storicamente superata dello Stato nazionale, con il suo accentramento e con la sua impotenza; e che la sola lotta che possa dar loro uno sbocco positivo è quella per il superamento dello Stato nazionale nella sola forma oggi politicamente pensabile : quella della fondazione della federazione europea.
La federazione europea toglierebbe di mezzo i due fattori cui avevamo precedentemente accennato e che fanno dello Stato nazionale la strozzatura che impedisce alla società europea di evolvere verso forme più elevate di convivenza civile. Essa nascerebbe prima di tutto su di un’area fortemente diversificata dal punto di vista linguistico e culturale, cioè sul terreno delle nazioni europee storicamente consolidate. La struttura federale dello Stato europeo non sarebbe quindi una vuota formula giuridica, ma sarebbe sostenuta da comportamenti sociali storicamente radicati che darebbero una vita effettiva all’articolazione giuridica federale e, attraverso la divisione del potere che creerebbero, lascerebbero ampio spazio anche per l’espressione concreta delle aspirazioni all’autogoverno delle collettività minori, territoriali e funzionali.
Non solo. Ma essa, riacquistando un ruolo di primo piano nell’equilibrio internazionale e la capacità di controllare una economia che ha raggiunto dimensioni continentali, ristabilirebbe il circuito di fiducia tra i cittadini e il potere, irrimediabilmente rotto negli Stati nazionali e saprebbe quindi esprimere una volontà politica dotata dell’energia e dell’immaginazione necessarie per risolvere i problemi del nostro tempo.
Soltanto nella federazione europea quindi è pensabile la realizzazione di una scuola democratica e pluralistica; solo nella federazione europea i sindacati, messi in crisi dalla loro dimensione nazionale che li rende impotenti di fronte ad un’economia che ha raggiunto dimensioni europee, riacquisterebbero la forza necessaria per far partecipare in modo sostanziale i lavoratori alla pianificazione dell’economia, per far loro ottenere una parte effettivamente, e non solo nominalmente, maggiore del prodotto nazionale e per affermare con concrete misure il principio del diritto dei lavoratori di avere una voce nelle decisioni concernenti l’organizzazione del lavoro e la gestione dell’impresa in generale; solo nella federazione europea le collettività locali potranno acquisire l’autonomia e il potere sufficienti per partecipare attivamente, ciascuna nell’ambito della propria giurisdizione territoriale, alle decisioni di politica del territorio facendovi valere, al di là degli interessi di sviluppo economico a periodo breve, quelli della salvaguardia dei valori comunitari e della tutela delle condizioni per un libero sviluppo della personalità individuale.
La federazione europea infine darebbe un contributo essenziale all’instaurazione di un equilibrio mondiale più pacifico, riempiendo, con la sua sola presenza, il vuoto di potere che rende teso e instabile quello attuale; e darebbe in mano ai cittadini europei decisi a lottare per la pace uno strumento capace di tradurre le loro aspirazioni in una politica, anziché in sterili testimonianze, come accade oggi nell’ambito degli impotenti Stati nazionali.
 
La federazione mondiale come obiettivo finale.
 
Una volta compresa l’immensa portata dei mutamenti sociali che la fondazione della federazione europea permetterebbe di realizzare, è estremamente importante mettere in rilievo, per evitare deviazioni ideologiche, che la fondazione della federazione europea non sarà la fine della preistoria, il salto dal regno della necessità al regno della libertà.
Due sono state storicamente le principali fonti del dominio dell’uomo sull’uomo, che del resto sono strettamente connesse tra loro: la divisione sociale del lavoro che rende necessaria l’organizzazione del lavoro stesso, e quindi l’instaurazione di rapporti di comando e obbedienza; e l’anarchia internazionale, che produce la guerra e la necessità di inquadrare l’intera vita sociale in una rete di rapporti autoritari per prepararsi a fronteggiarla o anche soltanto ad evitarla e che quindi perpetua la divisione sociale del lavoro anche là dove in astratto potrebbe essere superata.
Ora, l’attuale stadio di evoluzione dei rapporti materiali della produzione nella parte più industrializzata del mondo consente di intravvedere la possibilità della rimozione di queste due fonti dell’oppressione. Da un lato la rivoluzione nel modo di produrre costituita dall’automazione — che già oggi sta trasformando ad un ritmo accelerato l’operaio in tecnico — fa apparire all’orizzonte la prospettiva della completa abolizione del lavoro alienato. Dall’altro lato l’aumento in estensione della interdipendenza tra i rapporti umani che dipende dalla stessa evoluzione del modo di produrre, sta generando la tendenza storica alla creazione di unità politiche di dimensioni sempre più vaste, e rende pensabile, anche se soltanto in prospettiva, l’unificazione politica del genere umano nel quadro di una federazione mondiale che, abolendo definitivamente la divisione del mondo in Stati sovrani, elimini l’anarchia internazionale e quindi la radice stessa della guerra.
In questa prospettiva diviene pensabile un’epoca nella quale la giornata lavorativa di tutti gli uomini sarà di tre ore; in cui tutte le energie degli uomini, liberate dalla scomparsa (almeno tendenziale) del lavoro alienato e dall’eliminazione della violenza nei rapporti internazionali, potranno essere dedicate al democratico governo delle libere comunità in cui si svolgerà la loro vita e in particolare al governo a fini sociali dell’attività produttiva che in esse si svilupperà; in cui la stessa proprietà privata dei mezzi materiali della produzione potrà essere abolita senza con questo cadere nel capitalismo di Stato e nel centralismo burocratico; in cui potrà essere compiutamente realizzato il modello della scuola democratica, perché la società chiederà alla scuola non più forze di lavoro atte a svolgere certe funzioni predeterminate, ma uomini compiuti.
In questa società quindi i rapporti tra gli uomini, oggi basati sul dominio e lo sfruttamento, astratti e meccanici, determinati dalle necessità obiettive della divisione sociale del lavoro e della ragion di Stato, saranno sostituiti da un nuovo tipo di rapporti, che oggi si manifestano, tutt’al più, nell’ambito della famiglia: rapporti nei quali, per usare la espressione di Brecht, l’uomo sarà uomo per l’uomo, nei quali gli uomini si considereranno reciprocamente come fini e non come mezzi. La cellula di base di questa società non sarà quindi l’organizzazione autoritaria della fabbrica, dell’amministrazione e dell’esercito, ma la comunità, cioè l’ambito sociale nel quale questi rapporti da uomo a uomo si manifesteranno quotidianamente nella loro concretezza.
In questa società il pluralismo diverrà una realtà vivente perché la società stessa non sarà più una macchina gigantesca della quale gli uomini sono gli ingranaggi e alla quale essi sono costretti a sacrificare la propria identità di uomo, la propria individualità, per adeguarsi al ruolo di elementi di un unico, impersonale piano; bensì l’ambito nel quale si manifesteranno le infinitamente diverse vocazioni individuali degli uomini e le loro libere iniziative associative.
Ma, se la definitiva liberazione dell’uomo è diventata oggi per la prima volta pensabile in prospettiva, non è al contrario pensabile che la sua realizzazione coincida con l’unificazione politica dell’Europa. Infatti nessuna delle due cause dell’oppressione e dello sfruttamento cui abbiamo precedentemente accennato sarà eliminata con la fondazione della federazione europea.
Essa, come abbiamo visto, realizzerà un equilibrio internazionale ben più pacifico e progressivo dell’attuale; ma sarà pur sempre uno Stato sovrano in un mondo di Stati sovrani e quindi non eliminerà la radice della guerra e della tensione internazionale, ed avrà essa stessa, piaccia o non piaccia, una politica di influenza. Essa consentirà grandi conquiste nei settori nevralgici della società di oggi, nella scuola, nel mondo del lavoro, nell’ambiente urbano e naturale. Ma non è pensabile che l’automazione, che è ora ai suoi inizi, possa portare in un breve lasso di tempo, e fino a che permane l’anarchia nei rapporti internazionali, alla scomparsa della divisione sociale del lavoro; e non è quindi pensabile che la società europea di domani superi lo stadio capitalistico — per quanto controllato e umanizzato — dell’evoluzione dei rapporti della produzione, né la necessità di rapporti di comando e di obbedienza nell’attività economica, né un certo grado di subordinazione della scuola e della politica territoriale alle esigenze della struttura produttiva.
 
Significato storico della federazione europea.
 
La coscienza del carattere soltanto parziale dell’obiettivo della federazione europea può scoraggiare qualche anima bella, ma costituisce uno strumento intellettuale essenziale della nostra lotta. La pretesa di presentare il federalismo, inteso come progetto politico immediato, come la realizzazione compiuta di tutti i valori è falsa e contraddittoria. È falsa per tutto ciò che abbiamo detto precedentemente. È contraddittoria perché un valore è compiutamente realizzato soltanto quando è realizzato per tutti gli uomini, mentre il federalismo come progetto politico riguarda soltanto gli europei, anche se la fondazione della federazione europea avrà importanti ripercussioni a livello mondiale. Ciò significa che, quale che sia la portata delle realizzazioni che la federazione europea renderà possibili, l’esperienza federale europea si svolgerà in un mondo che continuerà ad essere devastato dalla guerra, dalla fame e dalla ingiustizia.
Ora, un’esperienza politica si deve considerare storicamente fallita se i suoi protagonisti non vengono coinvolti nelle sofferenze del resto del mondo. I paesi ricchi, liberi e giusti che non si lasciano toccare dalla tragedia del mondo povero e oppresso — in generale si tratta di piccoli paesi privilegiati — sono sepolcri imbiancati: essi non sono in verità né veramente liberi né veramente giusti perché negano nei loro rapporti con il resto del mondo quei valori che pretendono di aver realizzato al loro interno.
Ma essere coinvolti nelle sofferenze del mondo povero e oppresso significa addossarsi la responsabilità del suo risollevamento. E la responsabilità implica una politica di influenza, implica possedere un armamento, implica organizzare il potere all’interno in modo da poter usare questo armamento, implica mantenere alta la propria produttività con l’organizzazione del lavoro: implica in un certo senso rinunciare a parte delle proprie conquiste civili e caricarsi di una parte delle miserie che si vogliono alleviare.
L’Europa, che sarà, per le sue stesse dimensioni, uno dei grandi protagonisti dell’equilibrio mondiale, si troverà appunto in queste condizioni. Ma se la sua fondazione non significherà la realizzazione definitiva di tutti i valori, ciò non intaccherà per nulla il suo significato storico universale. Il significato storico delle grandi rivoluzioni non si misura infatti soltanto sulla base delle trasformazioni materiali che esse hanno realizzato, ma anche e soprattutto sulla base dell’importanza del messaggio che esse hanno consegnato alla umanità, delle prospettive che le hanno aperto. Non si giustificherebbe certo la rilevanza storica della Rivoluzione francese, se la sua unica funzione fosse stata quella di portare al potere la borghesia in Francia. Orbene, anche la fondazione della federazione europea assumerà un significato storico universale non tanto per le trasformazioni materiali che realizzerà al proprio interno — che pure saranno di grandissimo rilievo — quanto per l’importanza dell’esempio che essa darà al resto del mondo e per le stesse contraddizioni che metterà in evidenza.
La federazione europea infatti sarà l’esempio della trasformazione istituzionale necessaria per il governo democratico di una società moderna, caratterizzata, a causa della evoluzione del modo di produrre, da sfere di interdipendenza tra i rapporti umani sempre più vaste, e ciò grazie al superamento dell’idea di nazione come base necessaria dell’organizzazione del potere politico. La fondazione della federazione europea sarà cioè il primo esempio di controllo politico democratico del corso sovrannazionale della storia mondiale, cioè di un processo che in Europa si manifesta oggi in forma acuta, ma che interessa fin d’ora, ed è destinato ad interessare sempre più, l’intera umanità. Perciò la federazione europea avrà un significato storico universale e non limitato all’area direttamente interessata. Essa sarà la prefigurazione della federazione mondiale.
Il significato storico universale della federazione europea è già visibile nel ruolo obiettivamente anti-imperialistico e anti-colonialistico che essa assumerà automaticamente, nascendo, nell’equilibrio mondiale. Imperialismo e colonialismo sono l’unica formula politica alternativa al federalismo che può consentire il controllo politico dell’attuale fase supernazionale del corso storico. Questa formula sarebbe sconfitta dalla nascita della federazione europea, che spezzerebbe il monopolio di potere russo-americano e sarebbe in grado di condurre una politica responsabile nei confronti dei paesi del terzo mondo che consenta veramente a questi ultimi di uscire dalla spirale del sottosviluppo, mettendoli in condizione di evolvere verso forme di integrazione sempre più profonde e pertanto verso un’indipendenza effettiva e non solo nominale, premessa indispensabile alla creazione di una federazione mondiale, che non può nascere che come un patto tra popoli ugualmente liberi e civili.
Ma, soprattutto, la federazione europea porterà in sé una contraddizione gravida di futuri sviluppi, che ne farà un elemento dinamico e progressivo nella prossima fase del corso della storia. La sua fondazione non sarà, come la fondazione della federazione americana, un espediente per risolvere una situazione di crisi particolare ad un’area specifica ai margini dell’equilibrio mondiale, ma il cosciente superamento dello Stato nazionale, cioè del principio per cui lo Stato deve necessariamente coincidere con la nazione.
La federazione europea quindi non si giustificherà, nascendo, come lo Stato degli europei, ma soltanto sulla base di un principio negativo: appunto la negazione della nazione come base dell’organizzazione politica dell’umanità. Essa si presenterà di conseguenza con un carattere che, pur essendo connaturato con la forma dello Stato federale, era rimasto nascosto nell’esperienza americana: quello di essere una forma aperta a tutti i popoli del mondo, rispetto alla quale ogni delimitazione territoriale costituisce una negazione del suo principio. D’altra parte, le realtà dell’equilibrio mondiale non consentono oggi di considerare la federazione mondiale come un obiettivo politico immediato. La federazione europea nascerà quindi come federazione regionale, e sarà destinata a rimanerlo a lungo. Essa dovrà quindi come già si è detto, obbedire agli imperativi di una ragion di Stato, per quanto nel complesso più progressiva di quella degli attuali Stati nazionali; essa avrà una politica di influenza, per quanto nel complesso più evolutiva; nel suo interno non saranno aboliti i rapporti di dominio, anche se essi saranno più umani. Ma il potere politico non avrà nelle sue mani alcuno strumento ideologico dell’efficacia di quello nazionale per giustificare la guerra, il dominio e lo sfruttamento.
Lo Stato nazionale, basato sul principio della coincidenza necessaria tra Stato e nazione, è una formula politica compiuta. Essa fornisce al potere tutti gli strumenti ideologici necessari per giustificare le disuguaglianze tra gli uomini, l’egoismo nazionale, la guerra e lo sfruttamento. Lo Stato federale invece, in quanto sia limitato ad una regione del mondo, è una formula politica imperfetta. Essa, in quanto è limitata nello spazio, non può eliminare le disuguaglianze tra gli uomini, l’egoismo nazionale, la guerra e lo sfruttamento, ma in quanto nasce in antitesi al nazionalismo e alla chiusura, non li può giustificare. Essa è una formula politica debole e contraddittoria perché, realizzandosi, nega il suo principio.
Ma ciò significa che essa è una formula evolutiva, perché la contraddizione che la mina è il motore che le impedisce di cristallizzarsi, che la rende instabile fino a che il cosmopolitismo che costituisce il suo principio non sia realizzato nella federazione mondiale.
Queste considerazioni sono a nostro avviso di estrema importanza per capire quali contenuti la società europea sarà in grado di esprimere, quali valori emergeranno in essa. Esse ci permettono di comprendere che sotto questo profilo la società europea si porrà agli antipodi di quella americana non solo perché è passata attraverso l’esperienza socialista che la società americana non ha conosciuto; non solo perché il pluralismo della società europea sarà ben più ricco e radicato di quello, fittizio, della società americana; ma anche, e soprattutto, perché, essendo la nascita della federazione europea obiettivamente qualificata nel suo aspetto di valore dal superamento dello Stato nazionale e quindi della divisione del mondo in Stati sovrani, essa scatenerà comportamenti sociali orientati rispetto al valore del cosmopolitismo, i quali, trovandosi frustrati dalla realtà della politica europea, costituiranno un permanente fermento di opposizione, un permanente richiamo ai valori, una permanente cattiva coscienza dei politici europei. Questi comportamenti saranno il sale della società europea e manterranno vivo il significato di valore che la fondazione della federazione europea avrà obiettivamente avuto per il resto del mondo. Tutto ciò significa che le portatrici del significato storico della federazione europea non saranno soltanto le classi politiche al potere, ma anche e soprattutto le opposizioni e quindi che, nel valutare l’importanza che essa avrà per il futuro dell’umanità, bisogna considerare non soltanto le politiche che i governi europei saranno in grado di attuare, ma anche, e soprattutto, le prospettive di valore che le opposizioni, parlamentari ed extra-parlamentari, saranno in grado di mettere in luce e di diffondere.
 
Natura dell’azione dei federalisti.
 
A titolo di conclusione è opportuno fare una ulteriore considerazione, che del resto discende logicamente da tutto quanto è stato precedentemente detto. Alla domanda « L’Europa, per che fare? » risponde quotidianamente la società europea con le sue inquietudini, le sue aspirazioni e le sue lotte. Il compito dei federalisti è quello di rimuovere la strozzatura che le soffoca — lo Stato nazionale — e di creare un quadro istituzionale nell’ambito del quale esse si possano realizzare: la federazione europea. Di più essi non possono fare. Essi non possono pretendere di modellare a modo loro la società europea di domani, perché, come scrive Proudhon, «...non si tratta ora di immaginare, di mettere insieme nel nostro cervello un sistema che in seguito presenteremo: non è così che si riforma il mondo. La società non può correggersi che da sé stessa; e quindi ciò che occorre fare è studiare la natura umana in tutte le sue manifestazioni, le leggi, le religioni, i costumi, l’economia politica ».
I federalisti quindi devono soprattutto saper comprendere la natura del processo in corso, con le sue limitazioni, e aiutare gli europei a prendere coscienza. del movimento di cui essi stessi sono i protagonisti. Ai federalisti si può riferire la frase illuminante che Marx riferiva alla classe operaia nella Guerra civile in Francia : «Essa [la classe operaia], egli scrive, non ha un’utopia bell’e pronta da attuare con un plebiscito. Essa sa che, per conquistarsi la propria liberazione, e con essa quella più alta forma di vita verso la quale irresistibilmente tende la società di oggi con il suo sviluppo economico, dovrà passare attraverso lunghe lotte, attraverso tutta una serie di processi storici, dai quali sia gli uomini che le circostanze verranno completamente trasformati. Essa non ha ideali da realizzare; essa deve soltanto liberare gli elementi della nuova società, che già si sono sviluppati nel seno della società borghese in disgregazione ». Tutto ciò non significa evidentemente che l’azione dei federalisti sia inutile. Essi non possono cambiare la società, ma la loro iniziativa è indispensabile per trasformare le istituzioni che ne bloccano lo sviluppo. Ed è certo che senza l’iniziativa dei federalisti l’Europa non si farà. Né significa che nel quadro dello Stato federale europeo il governo europeo non avrà scelte da compiere. Significa soltanto che le alternative che avrà di fronte saranno tali che, in tutte le materie importanti, la più errata e la più impopolare delle scelte sarà pur sempre infinitamente più progressiva della più « progressista » delle scelte di un governo nazionale. Né significa infine che i federalisti debbano cessare di richiamarsi ai valori ultimi nel corso della loro lotta. Significa soltanto che la loro realizzazione non dipende dalla capacità dei federalisti stessi di elaborare un’« utopia » attraente, da attuare « con un plebiscito », bensì dalla lenta e incontrollabile maturazione dell’umanità nella storia, che essi possono favorire illuminandole il cammino, ma non tracciandoglielo ex novo.


* Questo testo è stato pubblicato in francese in Le Fédéraliste, XII (1970).

 

 

 

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