IL FEDERALISTA

rivista di politica

 

Sperare in una permanenza di armonia tra molti Stati indipendenti e slegati sarebbe trascurare il corso uniforme degli avvenimenti umani e andar contro l'esperienza accumulata dal tempo.

Hamilton, The Federalist

Anno XLVI, 2004, Numero 3, Pagina 191

 

 

L’armonizzazione delle politiche di bilancio
in una Unione monetaria
Un’analisi critica del Rapporto Werner*
 
ALBERTO MAlOCCHI
 
 
1. Nell’ambito del processo di integrazione economica dei nove paesi membri della Comunità economica europea l’obiettivo più ambizioso, sancito nel Vertice dei Capi di Stato e di governo svoltosi a L’Aja l’1-2 dicembre 1969 e ribadito nel Vertice di Parigi del 19-20 ottobre 1972, è rappresentato dal completamento dell’Unione economica e monetaria entro il 31 dicembre 1980.
I problemi che occorre affrontare per conseguire l’obiettivo di una completa fissità dei cambi fra le diverse monete europee sono stati analizzati, sia a livello politico che accademico, sotto la spinta derivante dalle difficoltà che sono emerse non appena è stata varata la politica del «serpente» comunitario. Ma vi sono altri aspetti dell’Unione economica e monetaria che, a nostro avviso, meritano di essere ulteriormente approfonditi.
In particolare, a noi sembra di estremo rilievo analizzare, in questo quadro, quali sono gli effetti che possono derivare dall’armonizzazione delle politiche di bilancio, prevista dal rapporto Werner, soprattutto avendo riguardo alla possibilità di conseguire, oltre all’equilibrio della bilancia dei pagamenti, anche gli obiettivi interni di stabilità e di sviluppo. Riteniamo infatti che sia assai difficile procedere nella costruzione dell’Unione economica e monetaria se, nel contempo, non è garantita agli Stati membri la possibilità di realizzare gli obiettivi fondamentali di politica economica, attraverso i consueti strumenti di natura fiscale o monetaria.
In realtà, la prevista armonizzazione delle politiche di bilancio sottrae agli Stati membri uno strumento di controllo del sistema economico, senza prevedere parallelamente la creazione di strumenti analoghi a livello sovranazionale. E’ questa, a nostro avviso, la carenza fondamentale che inficia alla base l’approccio di armonizzazione che caratterizza il metodo gradualistico — di cui il piano Werner è un’espressione — adottato nella costruzione dell’Unione economica e monetaria.
 
2. In questo lavoro, dopo aver analizzato le condizioni che garantiscono il mantenimento dell’equilibrio della bilancia dei pagamenti all’interno di un sistema economico integrato con tassi di cambio perfettamente rigidi (§§ 4-10), si rileva che queste condizioni, se realizzate, limitano in misura notevole il grado di efficacia di una condotta indipendente della politica monetaria e fiscale a livello nazionale (§§ 12-13).
Queste limitazioni sono notevolmente aggravate dalla prevista armonizzazione delle politiche di bilancio, che rende ancor più difficile un efficace utilizzo della politica fiscale in funzione del raggiungimento di altri obiettivi interni (stabilità, sviluppo, riequilibrio territoriale) (§§ 14-17).
Nelle conclusioni (§§ 18-19) si mette in rilievo come l’approccio di armonizzazione, previsto dal piano Werner, sia inadeguato e come occorra trasferire, parallelamente alle limitazioni che si impongono a livello nazionale, effettivi poteri di decisione nel settore della politica fiscale (e monetaria) ad un’autorità sovranazionale, se si vuole rendere compatibile il perseguimento degli obiettivi di stabilità e di sviluppo con il mantenimento dell’equilibrio della bilancia dei pagamenti e, quindi, con la fissità dei cambi.
 
3. E’ noto che sul metodo per conseguire l’obiettivo della fissità dei tassi di cambio[1] si sono a lungo opposte due diverse impostazioni,[2] quelle c.d. dei monetaristi e degli economisti. Gli elementi fondamentali del primo approccio sono rappresentati da: consultazione preventiva delle Banche centrali; aiuto reciproco a breve termine e prestiti a medio e a lungo termine per i paesi con difficoltà nella bilancia dei pagamenti; direttive comuni alle Banche centrali per quanto riguarda la creazione di base monetaria, la politica del credito e dei tassi di interesse. «Ovviamente tutto ciò implica che la politica monetaria giocherà un ruolo fondamentale come strumento della politica di stabilizzazione e che la politica di stabilizzazione sarà impiegata intensivamente per creare le condizioni domestiche nei salari e nella domanda più idonee all’obiettivo della stabilità delle parità monetarie».[3] In termini meno neutrali, questo implica che l’obiettivo dello sviluppo viene sacrificato a quello dell’equilibrio della bilancia dei pagamenti, per poter garantire la fissità dei cambi. Ma su questo punto si ritornerà più avanti.
Secondo l’approccio in termini di politica economica, l’unificazione monetaria presuppone invece una stretta armonizzazione fiscale; la consultazione e l’approvazione a livello comunitario delle linee fondamentali delle politiche di bilancio nazionali, per quanto riguarda in particolare: le dimensioni e il modo di finanziamento (o utilizzazione) dei deficit (surplus) pubblici, l’articolazione della politica di stabilizzazione, attraverso gli strumenti monetari e/o fiscali, le decisioni di investimento, pubblico o incentivato dal settore pubblico; infine, nella fase finale, una crescente rilevanza delle entrate e delle spese stabilite autonomamente a livello comunitario.
Il Piano Werner rappresenta, in un certo senso, la sintesi di queste due impostazioni. Esso afferma infatti che «lo sviluppo dell’unificazione monetaria deve essere articolato su progressi sostanziali nella convergenza e nell’unificazione delle politiche economiche. Parallelamente ad una limitazione dell’autonomia degli Stati membri in materia di politica economica, occorrerà sviluppare a livello comunitario delle competenze corrispondenti» (p. 15). Nella fase finale del processo essa prevede infatti la costituzione di un centro di decisione per la politica economica e di un sistema comunitario delle Banche centrali, ossia il trasferimento a livello sovranazionale di poteri attualmente attribuiti ai governi nazionali.
Questa fase finale dovrebbe essere raggiunta al termine di un processo graduale; in effetti, il Rapporto Werner «non desidera assolutamente suggerire che l’Unione economica e monetaria sia realizzabile senza un periodo di transizione; essa deve, al contrario, svilupparsi in maniera progressiva sulla traccia delle azioni già intraprese per rafforzare il coordinamento delle politiche economiche e la cooperazione monetaria» (p. 15).
La nostra attenzione, nell’analisi seguente, sarà rivolta soprattutto a mettere in rilievo le contraddizioni destinate a manifestarsi in questa fase intermedia, allo scopo di individuare gli strumenti interpretativi necessari per spiegare le difficoltà attuali del processo di integrazione monetaria e, in particolare, per verificare se la scelta di un metodo gradualistico nel settore economico e monetario, non sostenuto da una evoluzione parallela a livello politico, non costituisca un ostacolo insormontabile per raggiungere gli obiettivi che il Rapporto Werner si prefigge di conseguire.
 
4. Il primo problema da cui intendiamo prendere lo spunto per la nostra analisi riguarda la possibilità di garantire l’equilibrio della bilancia dei pagamenti fra i paesi membri dell’Unione monetaria.[4] Se questo problema non viene risolto in modo efficace, può essere messo in crisi l’intero processo, come è stato del resto confermato dalle drammatiche difficoltà in cui si è dibattuta, fin dal suo avvio, la politica del «serpente» comunitario.
In un’Unione monetaria «è importante solo la bilancia dei pagamenti globale della Comunità con il resto del mondo. L’equilibrio all’interno della Comunità ad un tale stadio sarà realizzato come all’interno di un territorio nazionale grazie alla mobilità dei fattori di produzione ed ai trasferimenti finanziari del settore pubblico e del settore privato».[5]
E’ opportuno analizzare le implicazioni teoriche di questa proposizione, al fine di poter valutare non soltanto gli obiettivi, anche in termini istituzionali, che devono essere perseguiti allo scopo di consentire, nella fase finale, un efficace funzionamento dell’Unione monetaria, ma anche allo scopo di poter disporre di strumenti interpretativi adeguati per spiegare le difficoltà e le tensioni che si possono frapporre nel periodo transitorio alla realizzazione dell’Unione monetaria.
 
5. Il punto di partenza per un’analisi di questo problema può essere rappresentato da una constatazione di fatto, semplice, ma indicativa: i problemi della bilancia dei pagamenti si manifestano tra paesi diversi, ma non fra regioni che fanno parte di una medesima comunità politica. Le spiegazioni generalmente avanzate per giustificare la differenza fra i meccanismi di aggiustamento a livello regionale e internazionale sono collegate a tre elementi: «1) il fatto che una moneta comune o unificata è impiegata all’interno di un paese, mentre monete diverse sono impiegate da paesi diversi; 2) il fatto di una politica economica omogenea (politica monetaria, fiscale, commerciale e dei movimenti della popolazione) che governa tutte le regioni all’interno di un paese, mentre nel medesimo tempo paesi diversi seguono politiche indipendenti e divergenti; e 3) la spiegazione degli economisti classici, il fatto che i fattori della produzione si muovono liberamente all’interno di un paese, ma sono relativamente immobili tra paesi diversi. Si dimostrerà che l’elemento più importante per il mantenimento dell’equilibrio della bilancia dei pagamenti regionali è stato in questo paese [gli Stati Uniti d’America] la mobilità dei fattori produttivi, in particolare la mobilità del capitale».[6]
E’ opportuno quindi prendere avvio da questa analisi dei meccanismi di aggiustamento che agiscono a livello regionale per valutarne l’efficacia e le possibilità di funzionamento nel quadro dell’Unione economica e monetaria che dovrebbe realizzarsi in Europa, con le caratteristiche definite nel rapporto Werner, e per mettere quindi in evidenza i limiti eventuali e le possibilità di superamento.
 
6. Supponiamo che nel quadro di una comunità politica suddivisa in differenti regioni si manifesti uno squilibrio fra importazioni ed esportazioni, e quindi un deficit in una delle regioni rispetto al resto della comunità.
Un primo meccanismo che entra in funzione è di natura finanziaria, ed ha l’effetto, non di ristabilire immediatamente l’equilibrio della bilancia commerciale, ma di generare un flusso di trasferimenti di fondi e titoli che compensano il deficit corrente con un surplus nella bilancia dei movimenti di capitale.[7] La regione deficitaria, per pagare l’eccedenza delle importazioni sulle esportazioni, deve infatti cedere una parte delle attività finanziarie, in precedenza accumulate, al resto della comunità, che ha conseguito un surplus nella bilancia commerciale. Nel linguaggio della bilancia dei pagamenti si può dire che il deficit regionale nella bilancia delle transazioni correnti è «finanziato» attraverso importazioni di capitale e/o cessione di divise, mentre il surplus corrente del resto della comunità è compensato da un deflusso di capitali e/o acquisizione di divise. In generale, è probabile che l’aggiustamento si manifesti senza variazioni rilevanti nella quantità di moneta e quindi attraverso movimenti di altre attività finanziarie, in quanto l’ammontare desiderato di liquidità dipende più dal flusso del reddito che dallo stock detenuto di attività finanziarie, e questo flusso, almeno nella fase iniziale, non si è sensibilmente modificato.
Il funzionamento rapido ed efficace di questo sistema di flussi finanziari compensativi presuppone tuttavia che siano soddisfatte alcune condizioni. Occorre in primo luogo che vi sia nel paese uno stock di attività finanziarie relativamente elevato. È necessario inoltre che una quota sufficientemente ampia di queste attività sia trasferibile al di fuori della regione deficitaria, il che presuppone l’esistenza di un mercato finanziario organizzato e integrato a livello interregionale. Infine è necessario che le preferenze relative alla struttura di portafoglio siano tali che i residenti nel resto della comunità siano disposti ad acquistare proprio le attività finanziarie che gli operatori della regione in deficit desiderano vendere. In questo caso infatti il trasferimento dei titoli non provoca rilevanti variazioni di prezzo.
 
7. In una seconda fase il processo di aggiustamento di lungo periodo passa presumibilmente attraverso variazioni di grandezze economiche che influiscono sulla bilancia commerciale. Innanzitutto si manifesta un impoverimento delle regioni in deficit, e questo effetto negativo di ricchezza agisce sulla propensione alla spesa, provocando in conseguenza una contrazione delle importazioni. Ma questo processo viene notevolmente accelerato nel caso in cui non siano soddisfatte le condizioni precedentemente richiamate, ovvero non vi sia completa integrazione dei mercati finanziari, nel senso che le attività finanziarie non sono perfettamente trasferibili e la scelta della struttura desiderata di portafoglio è influenzata dal mercato di origine delle diverse attività (ossia i risparmiatori preferiscono titoli nazionali). In questo caso gli operatori regionali, per finanziare il deficit della bilancia dei pagamenti, devono vendere nel resto della comunità titoli che non sono facilmente trasferibili alla loro preesistente valutazione. I prezzi delle attività finanziarie in conseguenza variano, diminuendo nella regione in deficit (dove si manifesta un eccesso di domanda negativo) e aumentando nel resto della comunità, dove si è generata una domanda addizionale in seguito al surplus nella bilancia dei pagamenti. Nel contempo, se il finanziamento del deficit avviene attraverso il trasferimento di attività liquide, si contrae la liquidità del sistema bancario regionale, attraverso una diminuzione delle riserve detenute dalle banche, che sono in conseguenza indotte a vendere parte delle loro attività non liquide (e, nell’ipotesi, non perfettamente trasferibili), generando analoghi effetti sui prezzi dei titoli.
In definitiva, i prezzi dei titoli non trasferibili diminuiscono nella regione deficitaria (e aumentano nel resto della comunità) fino al punto in cui, o diviene conveniente il loro acquisto da parte degli operatori dei paesi in surplus (diventano cioè trasferibili), ovvero diviene inopportuna la loro vendita da parte degli operatori in deficit.
La variazione nel valore dei titoli accelera il processo di aggiustamento nella bilancia commerciale in quanto le perdite di capitale inducono gli operatori ad un ridimensionamento dei programmi di spesa nel paese in deficit (e viceversa nel paese in surplus). Occorre aggiungere che la variazione nel valore dei titoli provoca inoltre una contrazione nel livello del reddito, dell’attività produttiva e dell’occupazione, in quanto corrisponde ad un inasprimento del tasso di interesse e ad una restrizione del credito, con effetti sugli investimenti, sull’attività edilizia e sull’acquisto rateale di beni di consumo. Effetti opposti si manifestano nel resto della comunità. Questo processo favorisce il ristabilirsi di condizioni di equilibrio nella bilancia commerciale attraverso gli effetti indotti sulle importazioni.[8] Evidentemente l’ampiezza di questi movimenti indotti nel reddito dipende dalle variazioni nei prezzi dei titoli, ed è quindi tanto più marcata quanto maggiori sono le distorsioni e le imperfezioni del mercato finanziario, ossia quanto più elevata è la quota dei titoli non trasferibili sul totale delle attività finanziarie, e quanto più ridotta è l’elasticità di sostituzione fra attività trasferibili e non.
 
8. In un sistema regionale, dotato di un potere fiscale centralizzato, esiste un altro potente fattore di aggiustamento.[9] «Una regione che fa parte di una comunità politica, con un sistema comune di servizi pubblici e una base comune di imposizione, ottiene ‘aiuti’ automaticamente ogniqualvolta si deteriorano le sue relazioni commerciali con il resto del paese. Vi è un importante stabilizzatore automatico che arresta il funzionamento del moltiplicatore delle esportazioni: dal momento che le imposte pagate al governo centrale variano parallelamente al livello del reddito e della spesa locale, al contrario delle spese pubbliche (anzi queste possono variare in funzione compensativa attraverso opere pubbliche, contributi per la disoccupazione, ecc.), un peggioramento della bilancia commerciale tende ad essere ritardato (ed infine arrestato) dalla variazione nel saldo fiscale regionale — nel rapporto tra quanto la regione paga al Tesoro e quanto riceve da esso (…). Questa mi sembra la giustificazione principale dell’assenza di un equivalente al ‘problema della bilancia dei pagamenti’ a livello regionale».[10]
In effetti, se nella regione in deficit si manifesta nel corso del processo di aggiustamento una contrazione dell’attività produttiva, diminuisce automaticamente il gettito delle imposte prelevate dal potere centrale. Il fenomeno opposto si verifica nella regione in surplus. D’altra parte la quota delle spese (ad esempio, nel settore della sicurezza sociale) che si dirige verso il paese con una bilancia dei pagamenti passiva aumenta. Si tratta di un meccanismo che non richiede decisioni politiche specifiche e che, al pari dei c.d. stabilizzatori automatici, tende ad attenuare gli effetti di reddito provocati dai processi avanti descritti, ma che al contempo produce effetti riequilibranti sulla bilancia dei pagamenti.[11] Il pagamento delle imposte è infatti assimilabile alle importazioni, mentre le spese sociali, dal punto di vista regionale, corrispondono a esportazioni. E’ evidente che questo meccanismo di aggiustamento può essere rallentato o accelerato da decisioni discrezionali del potere politico attraverso gli strumenti della politica fiscale.
 
9. Un ultimo fattore che contribuisce, a livello regionale, a ridurre la rilevanza del problema della bilancia dei pagamenti è rappresentato dalla mobilità dei fattori produttivi e dall’integrazione dei loro mercati. Gli spostamenti territoriali della manodopera tendono a garantire una maggiore uniformità del livello salariale all’interno di un’area economicamente unificata; e nello stesso senso agisce la concertazione dell’azione rivendicativa sindacale che scaturisce necessariamente dall’integrazione del mercato del lavoro. La mobilità del capitale e della capacità imprenditoriale può stimolare aumenti di produttività nelle zone economicamente più deboli, come pure le tecniche di vendita e i processi di innovazione tecnologica possono diffondersi più rapidamente, per un effetto di dimostrazione, nei settori geografici meno dinamici. In questo modo possono risultare attenuate alcune cause che danno origine a squilibri nella bilancia dei pagamenti.[12]
Si deve tuttavia rilevare che, anche in un mercato integrato, la mobilità dei fattori della produzione non è perfetta e, soprattutto, che possono manifestarsi movimenti di fattori produttivi destabilizzanti anche rispetto all’equilibrio della bilancia dei pagamenti;[13] in particolare, movimenti di capitale e di capacità imprenditoriale dalle zone in declino a quelle più ricche e sviluppate. Spetta evidentemente alla politica economica, attraverso gli strumenti di cui può disporre (investimenti infrastrutturali o direttamente produttivi, agevolazioni fiscali e creditizie ecc.), il compito di sollecitare una maggiore mobilità di questi fattori produttivi e di incanalarli nella direzione voluta.
 
10. Dopo aver analizzato, in termini estremamente sintetici, i meccanismi di aggiustamento automatico che agiscono a livello regionale, è opportuno mettere in rilievo che il ristabilimento di condizioni di equilibrio nella bilancia dei pagamenti interregionale è notevolmente accelerato attraverso interventi di politica economica sviluppati dal governo centrale. Per quanto riguarda l’esperienza statunitense, ad esempio, Hartland[14] mette in rilievo il ruolo compensativo svolto dai trasferimenti di fondi federali verso le regioni in deficit attraverso il Federal Reserve System. Questa osservazione si fonda sulla correlazione negativa, rilevata empiricamente con un’analisi del periodo 1919-1939, fra trasferimenti del Tesoro (flussi netti di capitale pubblico) e transit clearings (flussi netti di capitale privato) fra i Federal Reserve Districts.[15]
Questi movimenti compensativi di fondi pubblici possono comunque essere stimolati dal governo centrale attraverso decisioni discrezionali di politica monetaria o di politica fiscale. In particolare, la politica di stabilizzazione condotta a livello nazionale può porsi l’obiettivo di garantire il livello di reddito e di occupazione di ciascuna regione. In questo caso, nelle regioni che devono subire un deficit nella bilancia dei pagamenti, l’incremento della domanda proveniente dall’operatore pubblico arresta il processo di aggiustamento, avviato attraverso la riduzione delle importazioni determinata dalla contrazione del livello del reddito regionale. La politica di stabilizzazione, quindi, impedisce il riaggiustamento della bilancia commerciale attraverso gli effetti di reddito, ma riporta in equilibrio la bilancia dei pagamenti attraverso l’afflusso dei fondi pubblici e quindi la variazione positiva dei movimenti di capitale.[16]
 
11. L’analisi finora svolta ci ha consentito di mettere in rilievo le condizioni che garantiscono il mantenimento dell’equilibrio della bilancia dei pagamenti all’interno di un sistema regionale economicamente integrato con tassi di cambio perfettamente rigidi. Si è posto in luce che un efficace funzionamento dei meccanismi di aggiustamento della bilancia dei pagamenti è condizionato: 1) da una completa integrazione del mercato finanziario e monetario; 2) dall’esistenza di stabilizzatori automatici conseguenti all’operare di un sistema fiscale centralizzato; 3) dalla mobilità dei fattori produttivi; 4) dall’esistenza di flussi di fondi pubblici, compensativi dei movimenti di fondi privati, nel quadro di una politica monetaria centralizzata.
Sembra quindi possibile concludere che, nella fase finale dell’Unione economica e monetaria, se viene realizzata la creazione di un centro di decisione per la politica economica e di un sistema comunitario delle Banche centrali dotati di poteri adeguati, queste condizioni possono essere soddisfatte e il problema dell’equilibrio della bilancia dei pagamenti all’interno della Comunità può essere risolto, come normalmente avviene all’interno di un sistema regionale.
Ma questa in realtà non è una conclusione, ma soltanto una articolazione più analitica del punto da cui siamo partiti, ossia che in un sistema regionale non esistono problemi di bilancia dei pagamenti. A noi interessa esaminare, su questa base, quali sono i problemi che si pongono nel periodo intermedio, per valutare se le proposte del Piano Werner siano adeguate o non rischino invece di rendere impossibile il conseguimento dell’obiettivo finale. In altre parole, dobbiamo chiederci se, nel periodo intermedio, caratterizzato a livello istituzionale dall’assenza di un qualsiasi potere di intervento a livello sovranazionale, sia possibile conseguire simultaneamente, oltre all’equilibrio della bilancia dei pagamenti, anche gli obiettivi interni di stabilità e sviluppo. Nel caso contrario, infatti, e l’esperienza recente dell’uscita dal «serpente» comunitario delle monete inglese e italiana sembra confermarlo, le tensioni contro il mantenimento di parità fisse diventano inarrestabili, e l’intero processo di avvicinamento all’Unione monetaria rischia di saltare.
 
12. Si è rilevata in precedenza l’importanza del ruolo che esercita, rispetto al meccanismo di aggiustamento, il grado di integrazione del mercato finanziario interregionale. Si tratta ora di mettere in rilievo gli effetti che ne scaturiscono rispetto alla condotta di una politica monetaria indipendente a livello regionale.
In realtà, l’efficacia della politica monetaria è annullata se una quota sufficientemente ampia delle attività finanziarie è perfettamente trasferibile e, quindi, i prezzi dei titoli sono uniformi nelle diverse regioni.[17] In questo caso una politica espansionistica che mira a stimolare la formazione di capitale e la spesa per l’acquisto di beni di consumo attraverso un aumento dei prezzi dei titoli e una diminuzione del tasso di interesse porta come unico effetto un deflusso di capitali e l’importazione di titoli dall’estero. Prendiamo come esempio una politica di mercato aperto. L’acquisto di titoli da parte dell’autorità monetaria lascia invariati i prezzi e i tassi di interesse. Infatti i titoli acquistati presso il pubblico o le banche vengono immediatamente sostituiti con titoli acquistati all’estero, il cui prezzo risulta temporaneamente inferiore, e la liquidità immessa nel sistema viene trasferita all’estero per finanziare l’acquisto di attività finanziarie. Ugualmente, una politica monetaria restrittiva che si impernia su aumenti del tasso di interesse e contrazione del credito, provoca un’esportazione dei titoli e un’importazione di capitale, che ricostituisce la liquidità sottratta al sistema.
In definitiva, la politica monetaria condotta a livello regionale, nell’ipotesi di perfetta integrazione del mercato dei capitali, può generare deficit o surplus nella bilancia dei pagamenti, ma non influenza il livello dell’occupazione e del reddito.[18]
 
13. In un’economia perfettamente integrata di diversa natura, ma pur sempre rilevanti, sono i limiti imposti alla politica fiscale condotta a livello regionale.[19] L’efficacia di questo strumento è condizionata infatti dal grado di «esposizione» del sistema nei confronti degli altri paesi. In particolare, in un’area facente parte di un sistema regionale, la propensione marginale all’importazione, al pari della propensione media, è verosimilmente più elevata e, in conseguenza, sono limitati gli effetti interni di una politica fiscale anticiclica o di sviluppo. Così, un aumento della spesa pubblica tende a manifestare i suoi effetti non soltanto all’interno, ma anche, in misura tanto più marcata quanto più elevata è la propensione marginale all’importazione (e quindi minore il moltiplicatore di mercato aperto), sulle altre regioni della comunità; il che significa, d’altra parte, che ogni regione risente in misura maggiore degli effetti (deflazionistici o inflazionistici) della politica fiscale condotta nel resto della comunità. Dal punto di vista della bilancia dei pagamenti, invece, l’efficacia della politica fiscale risulta accentuata, in quanto una limitata contrazione della spesa provoca una riduzione sensibile delle importazioni. Si può quindi affermare che il costo di una politica anticiclica e di sviluppo risulta più oneroso, in primo luogo in quanto, a parità di aumento del reddito nazionale, è necessaria una variazione più accentuata della domanda attraverso la spesa pubblica o la riduzione delle imposte; e inoltre in quanto più marcato è l’effetto negativo sulla bilancia dei pagamenti.
L’efficacia a livello regionale della politica fiscale è ulteriormente limitata dalla perdita di autonomia nel settore impositivo derivante dalla mobilità dei fattori della produzione a livello della comunità. In realtà, questo elemento non deve essere sopravvalutato, in quanto evidentemente le scelte di localizzazione del capitale, della manodopera e della capacità imprenditoriale sono influenzate da altri fattori, diversi da quello fiscale, e che possono divergere anche all’interno di un’area economicamente unificata. Così, ad esempio, un più elevato livello impositivo per le imprese può essere compensato da una maggiore disponibilità di servizi pubblici o da una migliore struttura del mercato del lavoro, e così via. Resta comunque il fatto che, in ogni caso, l’autonomia nella condotta della politica fiscale risulta limitata dall’accresciuta mobilità non soltanto dei prodotti, ma anche dei fattori produttivi.
 
14. Sulla base dell’analisi precedente si può quindi affermare, come prima conclusione, che le condizioni che garantiscono il funzionamento automatico dei meccanismi di aggiustamento della bilancia dei pagamenti limitano allo stesso tempo, in misura rilevante, l’efficacia di una condotta indipendente della politica monetaria e fiscale, in funzione degli obiettivi di stabilità e di sviluppo del reddito nazionale.
Ma il problema è in realtà ancora più grave. Per quanto riguarda in particolare la politica fiscale, il piano Werner ha posto l’obiettivo di una progressiva armonizzazione delle scelte di bilancio. Si osserva, infatti, che «la politica di bilancio assume un grande significato per guidare lo sviluppo generale dell’economia. Il bilancio della Comunità all’inizio della fase finale sarà, senza alcun dubbio, più importante di quanto lo sia oggi, ma la sua importanza, dal punto di vista congiunturale, resterà minore di quella dei bilanci nazionali, la cui gestione armonizzata costituirà un fattore essenziale di coesione dell’Unione. I limiti entro cui dovranno situarsi i grandi aggregati del bilancio, tanto per quello annuale quanto per la programmazione pluriennale, saranno decisi a livello comunitario tenendo conto della situazione congiunturale e delle particolarità strutturali di ogni paese. L’elemento fondamentale sarà costituito dalla fissazione della variazione del volume dei bilanci, dall’importanza del saldo e dai modi di finanziamento del deficit o della utilizzazione di eventuali eccedenze». «Gli orientamenti quantitativi saranno indicati, in funzione della situazione economica di ogni paese, per i più importanti elementi dei bilanci pubblici; in particolare le entrate e le spese globali, la ripartizione di queste ultime tra investimenti e consumi, il segno e l’ampiezza del saldo».[20]
Occorre mettere in evidenza quali siano i riflessi, dal punto di vista dei paesi membri della Comunità, di questo stretto coordinamento della politica di bilancio, che investe, come si è visto, non solo la dimensione quantitativa, ma anche l’articolazione interna della struttura di bilancio.
L’obiettivo che si vuole conseguire, è necessario ricordarlo, consiste nel configurare un andamento congiunturale che sia compatibile con la fissità dei rapporti di parità stabiliti tra le diverse monete, ossia che consenta di mantenere l’equilibrio della bilancia dei pagamenti. In assenza di un potere effettivo di decisione, e quindi di strumenti di intervento autonomi a livello comunitario, il coordinamento delle politiche nazionali di bilancio rischia di presentare un forte bias deflazionistico.[21]
In effetti, l’ostacolo principale alla stabilità della costruzione dell’Unione economica e monetaria è rappresentato da eventuali tensioni inflazionistiche in uno (o più) dei paesi membri e, più in generale, da un’evoluzione difforme del livello generale dei prezzi nei diversi paesi, che può dare origine a squilibri persistenti nelle bilance dei pagamenti all’interno della Comunità. Per evitare questa difficoltà, la soluzione più semplice può apparire di mantenere in situazione di sotto-impiego la capacità produttiva attraverso un opportuno freno della dinamica della domanda e, soprattutto, di impedire aumenti nel livello dei salari eccedenti la variazione della produttività, secondo la classica (ma contestata) regola della politica dei redditi, per evitare fenomeni di inflazione dal lato dei costi. E’ evidente che, in questo caso, il costo che si deve sostenere per conseguire l’obiettivo dell’equilibrio della bilancia dei pagamenti è eccessivamente oneroso in termini di sacrificio di altri obiettivi, ed inoltre, che questa scelta è in larga misura contraddittoria.
In effetti, con un impiego flessibile della politica fiscale è possibile rendere compatibili le variazioni dei salari monetari — anche se, nel breve periodo, eccedenti le variazioni della produttività —, con i valori prefissati della variabile-obiettivo livello dei prezzi, senza dover mantenere nel sistema una dose elevata di disoccupazione.[22] Ma questo impiego flessibile dello strumento fiscale è escluso dalla rigidità delle procedure di coordinamento della politica di bilancio, il che implica, come conseguenza, la necessità di porre un freno alle rivendicazioni contrattuali. E’, sotto forma diversa, la «regola aurea» che si impone: o i salari monetari crescono parallelamente allo sviluppo della produttività, ovvero si eliminano i pericoli inflazionistici attraverso un taglio della domanda, ossia, in ultima istanza, attraverso un aumento del livello di disoccupazione e, quindi, una decurtazione del monte-salari complessivo in termini reali.
Questa scelta è inoltre in larga misura contraddittoria, in quanto dal livello della domanda dipendono gli investimenti e «se si riesce a mantenere con regolarità un saggio elevato di investimenti, si rende, in ogni periodo, più agevole la soluzione dei problemi di politica economica (…), poiché si aumenta la compatibilità fra i diversi obiettivi. E’ ormai dimostrato che un elevato saggio di investimenti è condizione necessaria per un elevato saggio di crescita della produttività. Da quanto si è detto in precedenza segue che quanto maggiore è l’incremento di produttività in ogni periodo, tanto maggiore è l’incremento dei salari compatibile con un dato obiettivo di stabilità dei prezzi, tanto maggiore è l’incremento di esportazioni, e quindi tanto maggiore è l’incremento di importazioni compatibile con l’obiettivo fissato per il saldo della bilancia dei pagamenti».[23]
 
15. La scelta dell’armonizzazione delle politiche di bilancio è quindi meno efficiente nei confronti di una soluzione che attribuisca effettivi poteri di intervento a un centro di politica economica indipendente a livello comunitario, nel quadro di una completa integrazione dei diversi mercati (dei prodotti, dei fattori, monetario e finanziario). In quest’ultimo caso, come si è precedentemente rilevato, funzionano efficacemente i meccanismi automatici di aggiustamento della bilancia dei pagamenti che, nell’ipotesi di perfetta integrazione del mercato monetario e finanziario e di una condotta autonoma a livello europeo della politica fiscale e monetaria, consentono nel lungo periodo di raggiungere l’equilibrio senza causare notevoli fluttuazioni nel livello del reddito, e quindi dell’occupazione.
D’altra parte, l’esistenza di un mercato integrato dei fattori produttivi (di cui la liberalizzazione dei movimenti della manodopera è soltanto un presupposto) tende a livellare l’evoluzione salariale, anche attraverso una concertazione dell’attività rivendicativa sindacale. Il che non esclude la possibilità di situazioni inflazionistiche originate dal lato dei costi, a causa di tassi di variazione della produttività differenziati per regioni e/o per settori produttivi. Ma in questo caso una politica fiscale flessibile può intervenire efficacemente sia, nel breve periodo, attraverso variazioni differenziate dei parametri che influenzano il livello dei costi del lavoro per unità di prodotto, sia, in più ampia prospettiva, attraverso un sostegno della domanda al fine di stimolare maggiori investimenti e quindi aumenti della produttività, e favorendo infine processi di riconversione dell’attività produttiva direttamente tramite investimenti pubblici o indirettamente tramite una politica di incentivi (o disincentivi).[24]
Nell’ipotesi poi che la situazione inflazionistica sia originata dal lato della domanda, in particolare attraverso uno sviluppo differenziato a livello territoriale della domanda e dell’offerta che può generare squilibri nella bilancia dei pagamenti, l’operatore pubblico può intervenire efficacemente a livello comunitario attraverso sia lo strumento della spesa che quello del prelievo.
 
16. La previsione di un potere fiscale autonomo a livello comunitario può rappresentare inoltre lo strumento adeguato per evitare processi cumulativi di sviluppo e di sottosviluppo nell’ambito europeo.
Sull’esigenza di una politica regionale il Piano Werner richiama più volte l’attenzione, mettendo in rilievo che «la realizzazione di un equilibrio economico globale può essere minacciata gravemente da differenze di struttura. La cooperazione tra i membri della Comunità in materia di politica regionale e strutturale contribuirà a sormontare queste difficoltà e, allo stesso tempo, permetterà di eliminare le distorsioni della concorrenza. La soluzione dei grandi problemi in questa materia sarà facilitata da misure finanziarie di compensazione» (p. 12).
Si mette quindi in evidenza la necessità, per evitare squilibri territoriali, di indirizzare i flussi di capitale in modo da bilanciare le tendenze che derivano dal gioco automatico delle forze di mercato. Ma, in realtà, la logica del Mercato comune ha agito finora in direzione opposta, e il notevole drenaggio di capitali effettuato da imprese americane sul mercato parallelo dell’eurodollaro assume a questo proposito un valore emblematico. In ogni caso, anche nel quadro della prospettata Unione economica e monetaria, la soluzione degli squilibri regionali non può essere conseguita attraverso un semplice coordinamento delle politiche di bilancio. Per restare nel quadro di riferimento italiano, senza una gestione comune della politica economica il problema del Mezzogiorno resta un problema italiano e non europeo; e non solo non si manifestano «misure finanziarie di compensazione» dalle zone più ricche a quelle più povere, ma si accentuano, con il supporto di una anarchica liberalizzazione dei movimenti dei fattori produttivi, le esportazioni di capitali italiani e, come conseguenza inevitabile della grave arretratezza economica di molte regioni italiane, persiste la piaga sociale dell’emigrazione.
 
17. Un brevissimo accenno si può sviluppare in questo contesto con riferimento al problema delle riforme in Italia. E’ evidente che le distorsioni nel processo di sviluppo che si sono manifestate nel passato possono essere recuperate soltanto con una forte concentrazione nell’impiego delle risorse per usi sociali; e questo implica un notevole impegno del bilancio pubblico al fine di supplire al deficit di servizi essenziali per una collettività moderna. Ma questa espansione del prelievo di risorse per impieghi sociali può generare fenomeni inflazionistici; in conseguenza, per rispettare il vincolo della bilancia dei pagamenti, si potrebbe giustificare la rinunzia a sostenere il costo delle riforme.
Questo tipo di ragionamento è evidentemente troppo schematizzato, ma in realtà sembrerebbe costituire il supporto di molte affermazioni avanzate ultimamente in connessione a recenti polemiche sui limiti del disavanzo del bilancio dello Stato. In ogni caso, nel quadro del coordinamento delle politiche di bilancio, le dimensioni quantitative e l’articolazione della spesa verrebbero decise a livello comunitario in funzione dell’obiettivo della stabilità dei cambi. Si presenta quindi, verosimilmente, un dilemma: o la compressione dei bilanci pubblici impedisce l’espansione della spesa per impieghi sociali, e questa soluzione risulta politicamente inaccettabile; ovvero, il ritmo di assorbimento di risorse da parte dell’operatore pubblico in Italia eccede il tasso di espansione dei bilanci negli altri paesi della Comunità, e rischia quindi di mettere in crisi il rapporto di parità fissato. In realtà, il problema del deficit di servizi pubblici in Italia deve essere risolto attraverso una adeguata provvista di mezzi finanziari per far fronte ad eventuali difficoltà nella bilancia dei pagamenti, che conseguano dalla notevole espansione prevista della spesa pubblica. E questo sostegno finanziario da parte della Comunità può essere giustificato, e quindi sostenuto politicamente, proprio nel quadro di interventi strutturali che mirano ad una più adeguata distribuzione delle risorse e dei servizi a livello territoriale.
 
18. A questo punto si possono trarre alcune conclusioni dall’analisi precedentemente svolta. Abbiamo visto che, affinché funzionino efficacemente i meccanismi automatici di aggiustamento della bilancia dei pagamenti, è necessaria l’esistenza di un mercato finanziario perfettamente integrato e di un potere decisionale centralizzato nel settore fiscale e monetario. Nel Piano Werner si prevede che, durante il periodo transitorio, queste condizioni non siano realizzate e si stabilisce unicamente la necessità di un’armonizzazione delle politiche monetarie e fiscali, rimandando alla fase finale la costituzione di un centro di decisione per la politica economica e di un sistema comunitario delle banche centrali.
Questa scelta è teoricamente contraddittoria, e l’esperienza recente sembra confermare questa affermazione. In effetti, se il mercato finanziario è già parzialmente integrato a livello europeo, la politica monetaria perde di efficacia a livello nazionale, rispetto agli obiettivi di stabilità e di sviluppo. E ugualmente, il costo di una politica fiscale anticiclica e di crescita diviene sempre più oneroso in un sistema economico che ha raggiunto un elevato grado di esposizione nei confronti degli altri paesi della Comunità; e, d’altra parte, la libertà di scelta dell’operatore pubblico in materia fiscale è sempre più ristretta, una volta imboccata la via dell’armonizzazione delle strutture impositive e delle politiche di bilancio.
E’ necessario quindi individuare una soluzione che consenta, parallelamente, di affrontare i problemi di equilibrio della bilancia dei pagamenti senza sacrificare la stabilità e lo sviluppo. «All’interno dei singoli paesi si sviluppano squilibri nei pagamenti similmente che all’interno della Comunità. Nei primi esistono meccanismi monetari, oltre che fiscali, i quali consentono di diluire il processo di riequilibrio su un arco di tempo più ampio. La quasi totale assenza di tali meccanismi nei rapporti intercomunitari concentra nel tempo il processo di aggiustamento, rendendolo più acuto, fino al punto da richiedere sacrifici importanti in termini di priorità tra obiettivi di politica economica. Se in questo momento la lotta all’inflazione appare l’obiettivo prioritario, l’Unione monetaria europea non può tuttavia essere imperniata su un meccanismo che tenda a relegare verso il fondo della scala gli obiettivi dello sviluppo e della piena occupazione, cioè ad invertire le scelte accettate dalla generalità dei popoli e dei governi in questo dopoguerra».[25]
 
19. Per garantire la fissità dei cambi, senza sacrificare gli altri obiettivi di politica economica, è necessario trasferire fin dall’inizio alcune competenze a livello sovranazionale, attraverso la creazione (che è attualmente in discussione nell’ambito della CEE) di un Fondo europeo di riserva e di un Fondo europeo di sviluppo regionale. In questo modo sarebbe facilitato non soltanto il processo di aggiustamento della bilancia dei pagamenti, ma anche, attraverso i flussi finanziari verso le regioni economicamente più deboli, il raggiungimento degli obiettivi reali. Questa soluzione, tuttavia, non è ancora sufficiente. «La condizione necessaria affinché l’unificazione monetaria possa realizzarsi è che i paesi membri rinuncino al potere sovrano di condurre una politica monetaria e fiscale indipendente, diretta a conseguire la stabilità interna dei prezzi e dell’occupazione. Tali politiche devono essere affidate ad una autorità monetaria e fiscale centralizzata responsabile della stabilità interna per l’intero gruppo di paesi membri».[26] La costruzione dell’Unione monetaria presuppone quindi la fondazione di un governo europeo, con poteri limitati, ma reali, che sia responsabile del conseguimento degli obiettivi di politica economica che non possono più essere efficacemente perseguiti a livello nazionale. Questa soluzione è difficile da realizzare, per la resistenza da parte degli Stati a spogliarsi di alcune attribuzioni caratteristiche della sovranità. Ma è necessario rendersi conto che il costo di un rifiuto a battere questa strada consiste nella probabile paralisi del processo di unificazione monetaria.


* Questo testo è stato pubblicato in francese in Le Fédéraliste, XVI (1974), col titolo «Compatibilité entre l’équilibre de la balance des paiements et d’autres objectifs de politique économique dans une union monétaire (Une analyse critique du rapport Werner)». La versione italiana che qui pubblichiamo, che presenta qualche differenza nella parte iniziale, è tratta da Le imprese multinazionali (a cura di Dario Velo), Milano, Giuffré, 1974.
[1] «Un’Unione monetaria implica all’interno la convertibilità totale e irreversibile delle monete, l’eliminazione dei margini di fluttuazione dei cambi, la fissazione irrevocabile dei rapporti di parità e la liberazione totale dei movimenti di capitale. Essa può coesistere con i diversi segni monetari nazionali ovvero consacrare l’adozione di una moneta comunitaria unica. Se da un punto di vista tecnico la scelta di una delle due soluzioni potrebbe apparire indifferente, considerazioni di natura psicologica e politica militano a favore dell’adozione di una moneta unica, che affermerebbe l’irreversibilità dell’impresa». Cfr. CEE, Rapporto al Consiglio e alla Commissione sulla realizzazione per fasi dell’Unione economica e monetaria nella Comunità (Rapporto Werner), Supplemento al Bollettino delle Comunità europee, n. 11, 1970, p. 10.
[2] Su questo punto cfr. ad esempio: R. Ossola, «In attesa di un’organizzazione politica dell’Europa», in R. Triffin, R. Ossola, M. Albertini, Verso una moneta europea, Bologna, Il Mulino, 1971, pp. 32-33.
[3] Cfr. F. Forte, «Verso una moneta europea?», in L’Europa, 1970, n. 24-25, p. 90.
[4] L’analisi che segue dei meccanismi di aggiustamento della bilancia dei pagamenti è ripresa dai §§ 2-7, redatti esclusivamente dallo scrivente, della relazione di E. Gerelli, A. Majocchi, «Politica fiscale e meccanismi di aggiustamento della bilancia dei pagamenti», in Società per lo studio dei problemi fiscali, Il Piano Werner e l’armonizzazione fiscale nella CEE, Padova, Cedam, 1971.
[5] Vedi Rapporto Werner, cit., p. 10.
[6] Cfr. P.C. Hartland, «Interregional Payments Compared with International Payments», in Quarterly Journal of Economics, agosto 1949, citaz. p. 393. Sul ruolo strategico della mobilità interregionale dei capitali nel meccanismo di riaggiustamento si veda: T. Scitovsky, Money and the Balance of Payments, Chicago, Rand McNally, 1969, pp. 87 e segg.; Id., «The Theory of Balance of Payments Adjustment», in Journal of Political Economy, agosto 1967, pp. 523-530; Id., «The Theory of the Balance of Payments and the Problem of a Common European Currency», in Kyklos, 1957, pp. 18-38 (ristampato, con qualche modifica, in Economic Theory and Western European Integration, Londra, Unwin, 1962, parte II); J.C. Ingram, «State and Regional Payments Mechanisms», in Quarterly Journal of Economics, novembre 1959, pp. 619-632; M. von Neumann Whitman, International and Interregional Payments Adjustment: A Synthetic View, Princeton Studies in International Finance, n. 19, Princeton, febbraio 1967; J.C. Ingram, The Case for European Monetary Integration, Princeton Studies in International Finance, n. 98, Princeton, aprile 1973.
[7] E’ noto che la distinzione fra movimenti di capitale e di riserve è puramente convenzionale. Per quanto riguarda il problema in esame, tuttavia, il punto che interessa porre in rilievo, al di là di questioni definitorie pur rilevanti ad altri fini, riguarda gli effetti che scaturiscono dall’operare del meccanismo finanziario sopra richiamato. Sui concetti di avanzo e disavanzo della bilancia dei pagamenti, e sulla distinzione fra movimenti di capitale autonomi e compensativi, cfr. ad esempio: F. Machlup, «Three Concepts of the Balance of Payments and the So-called Dollar Shortage», in Economic Journal, marzo 1950, pp. 46 e segg.; F. Masera, Commercio estero e bilancia dei pagamenti, Roma, 1966, pp. 22 e segg.
[8] Gli effetti finali sulla bilancia dei pagamenti dipendono evidentemente dal valore del «moltiplicatore di mercato aperto con ripercussioni». Su questo punto si veda da ultimo: G. Gandolfo, Aggiustamento della bilancia dei pagamenti ed equilibrio macroeconomico. Un’analisi teorica, Milano, Angeli, 1970, parte I, cap. III.
[9] Cfr. su questo punto: A. Lamfalussy, «Le système des taux de change et l’avenir de la CEE», in Revue d’économie politique, luglio-agosto 1970, p. 656; T. Scitovsky, Money and the Balance of Payments, cit., pp. 97-98.
[10] Cfr. N. Kaldor, «The Case for Regional Policies», in Scottish Journal of Political Economy, novembre 1970, citaz. p. 345.
[11] Cfr. P.B. Kenen, «The Theory of Optimum Currency Areas: An Eclectic View», in R.A. Mundell, A.K. Swoboda, Monetary Problems of the International Economy, Chicago, Univ. of Chicago Press, 1969, p. 47.
[12] Cfr. N. Kaldor, «The Case for Regional Policies», cit., p. 345.
[13] «Nel breve periodo gli effetti netti sulla bilancia dei pagamenti dei movimenti del fattore lavoro possono manifestarsi in entrambe le direzioni, ma in generale risulta che la migrazione del lavoro da aree con deficit nei pagamenti a quelle con surplus tende ad aiutare il processo di riaggiustamento». Cfr. T.D. Willett, E. Tower, «Currency Areas and Exchange-Rate Flexibility», in Weltwirtschaftliches Archiv, 1970, 105/1, citaz. p. 53. Si veda anche: T. Scitovsky, Economic Theory and Western European Integration, cit., p. 85.
[14] Cfr. P.C. Hartland, «Interregional Payments Compared with International Payments», cit.
[15] Sull’importanza quantitativa di questi meccanismi di stabilizzazione automatica si veda tuttavia: J.C. Ingram, Regional Payments Mechanisms: The Case of Puerto Rico, Chapel Hill, Univ. of North Carolina Press, 1962, pp. 21-22; M. von Neumann Whitman, International and Interregional Payments Adjustment, cit., pp. 22-23.
[16] Scitovsky dimostra che l’ammontare di fondi pubblici trasferiti a livello regionale è superiore alla mancata contrazione delle importazioni conseguente alla politica di stabilizzazione. In effetti, se è verificata la c.d. condizione di stabilità che viene normalmente assunta nell’analisi degli effetti di reddito sulla bilancia dei pagamenti, ossia m+s <1 (dove m e s sono rispettivamente la propensione marginale all’importazione e alla spesa interna), allora
 
ΔM = m / 1-s ΔG < ΔG
 
ossia le importazioni indotte dall’aumento della spesa pubblica a livello regionale (DM) sono inferiori alla spesa stessa (DG). Cfr. T. Scitovsky, Economic Theory and Western European Integration, cit., p. 93.
[17] Cfr. T. Scitovsky, Money and the Balance of Payments, cit., p. 120.
[18] Cfr. per questa conclusione: R.A. Mundell, «Capital Mobility and Stabilization Policy under Fixed and Flexible Exchange Rates», in Canadian Journal of Economics and Political Science, novembre 1963, pp. 475-485 (ristampato come cap. 18 in R.A. Mundell, International Economics, New York, MacMillan, 1968); R.I. McKinnon, W.E. Oates, The Implications of International Economic Integration for Monetary, Fiscal and Exchange Rate Policy, Princeton Studies in International Finance, n. 16, Princeton, Princeton Univ. Press, gennaio 1966, p. 5.
[19] Cfr. G.K. Shaw, «European Economic Integration and Stabilization Policy», in C.S. Shoup (a cura di), Fiscal Harmonization in Common Markets, New York, Columbia Univ. Press, 1967, vol. II, cap. II.
[20] Vedi Rapporto Werner, cit., pp. 11 e 19.
[21] Questo limite è implicito nella costituzione confederale della Comunità, ed è già stato verificato nel passato. Si veda, ad esempio, il comportamento della Commissione di Bruxelles, in occasione della fase recessiva dell’economia italiana nel periodo 1963-65. Su questo punto cfr.: F. Forte, La congiuntura in Italia. 1961-1965, Torino, Einaudi, 1966, pp. 255 e segg.
[22] Cfr. su questo punto: L. Izzo, A. Pedone, L. Spaventa, F. Volpi, Il controllo dell’economia nel breve periodo, Milano, Angeli, 1970, p. 33.
[23] Cfr. Ibidem, p. 36.
[24] Sulle possibilità di impiego della politica fiscale nell’ipotesi di inflazione da costi si veda: F. Romani, «Tipi di inflazione e politica fiscale», in Moneta e Credito, 1965, pp. 229-251.
[25] Cfr. G. Carli, «Crisi monetaria internazionale e politica di ripresa economica», in Bancaria, 1973, citaz. p. 546.
[26] Cfr. W.L. Smith, «Are There Enough Policy Tools?», in American Economic Review Papers and Proceedings, maggio 1965, citaz. p. 217. Per una conclusione analoga si veda: T. Scitovsky, Economic Theory and Western European Integration, cit. p. 98. Entrambi questi autori mettono in rilievo la difficoltà politica del raggiungimento di questo obiettivo. Su questi aspetti del problema dell’Unione economica e monetaria, si veda: M. Albertini, «Aspetti politici dell’unificazione monetaria», in AA.VV., Verso una moneta europea, cit., pp. 57-64.

 

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