Anno LXII, 2020, Numero 1-2, Pagina 47
LA “REAZIONE” DELLA BANCA CENTRALE EUROPEA E DELL’EUROSISTEMA ALLA PANDEMIA COVID-19
Premessa.
La pandemia da Covid-19 ci ha condotto in una nuova crisi economica oltreché sanitaria. A differenza delle precedenti situazioni emergenziali (2008, con il crack finanziario negli USA, sfociata in una crisi economica anche in Europa, e 2015 con la crisi migratoria) che hanno minato la stabilità dell’unione economica e monetaria europea e la solidarietà tra gli Stati dell’UE, oggi siamo nel pieno di una crisi simmetrica orizzontalmente, perché interessa tutti i Paesi, ma asimmetrica verticalmente, perché la risposta dei singoli non è coordinata né tanto meno uniformata né nei mezzi né nelle risorse messe in campo da ciascuno di essi.
L’Unione europea ha davanti a sé una sfida: reagire con tutti i mezzi a disposizione per salvaguardare la propria esistenza: la credibilità e l’efficienza dell’intervento diventano quindi essenziali.
Una delle prime istituzioni europee a reagire a questa crisi pandemica è stato l’Eurosistema e in esso la Banca centrale europea.
La crisi economica pandemica.
L’arrivo della pandemia Covid-19, con il conseguente lockdown delle attività produttive, ha messo in ginocchio l’economia reale europea portando il livello di crescita, secondo i servizi competenti della Commissione europea di fine marzo, a una flessione del prodotto interno lordo (PIL) del 2,5% nel 2020, ma realisticamente potremmo già dire, secondo il FMI (World Economic Outlook, 14 aprile), che tale flessione non sarà inferiore al 3%. L’economia globale perderà 6,3 punti percentuali rispetto alle stime di gennaio. Fra il 2020 e il 2021, le perdite complessive del PIL mondiale ammonteranno a quasi 9.000 miliardi di dollari (l’equivalente delle economie di Giappone e Germania messe insieme!).
Anche se i rischi sulle prospettive sono al ribasso, supponendo una forte flessione della pandemia nella seconda metà dell’anno, il FMI prevede un rimbalzo del PIL per il 2021 del 5,8%. Ma se così non fosse? Afferma il capo economista del FMI, Gita Gopinath, la contrazione sarebbe ben peggiore: “Se la pandemia non si dirada nella seconda parte dell'anno” il PIL mondiale potrebbe calare di più, un ulteriore 3% nel 2020 se la pandemia si protrarrà di più quest’anno. Se la pandemia continuasse nel 2021, il PIL potrebbe addirittura deprimersi con un altro –8% rispetto allo scenario base.
Le previsioni degli istituti specializzati sul PIL dell’Italia sono andate deteriorandosi velocemente, pur partendo dallo 0,3% del 2019. A causa della pandemia si passa da un –5/-6%, con un deficit pubblico oltre il 5% in rapporto al PIL nella previsione di fine marzo, con il debito pubblico dal 135% al 150% del PIL nel 2020 (come affermato dal Centro studi di Confindustria), al 10% nelle conclusioni prima di Goldman Sachs[1] e poi del FMI, che ha stimato (il 14 aprile) che la contrazione sarà quest’anno del 9,1%. Anche per l’Italia secondo il Fondo è previsto un rimbalzo: nel 2021 ci sarà un PIL in aumento del 4,8%. Rispetto a gennaio 2020, le previsioni per l’Italia nel 2020 sono state riviste al ribasso del 9,6%, mentre quelle per il 2021 sono state alzate del 4,1.
Per quanto riguarda la zona euro il PIL avrà una flessione nel 2020 del 7,5% per poi salire del 4,7% nel 2021, sempre secondo il FMI, con Germania e Francia in contrazione rispettivamente del 7,0% e del 7,2%, mentre la Spagna calerà dell'8%. Il 2021 sarà l’anno della ripresa: una crescita prevista del 5,2% per la Germania, mentre per la Francia del 4,5%, la Spagna del 4,3%.
La proposta di Mario Draghi.
Il 25 marzo Mario Draghi, ex-presidente della Banca centrale europea, ha pubblicato un articolo sul Financial Times,[2] accolto con estremo favore dai commentatori, per le osservazioni formulate e per le soluzioni proposte.
E’ stato precisato[3] come questo intervento sia stato considerato, erroneamente, una “rivincita della cultura economica” di alcuni consiglieri politici ed economisti, che hanno come mantra il “fare” debito pubblico.
Secondo Draghi la questione chiave non è se, ma come lo Stato debba fare buon uso del suo bilancio, come stimolare l’economia, davanti a una crisi non ciclica.
Oggi, nell’immediato, è un altro l’obiettivo: non è più la crescita, ma il mantenimento in uno stato di ibernazione del tessuto economico e questo esige un cambiamento di mentalità. “È già chiaro — ha affermato Draghi — che la risposta deve comportare un significativo aumento del debito pubblico. Gli Stati lo hanno sempre fatto di fronte alle emergenze nazionali. Le guerre — il precedente più rilevante — sono state finanziate da aumenti del debito pubblico”.
Nel suo intervento Draghi non ha fatto riferimento ai nuovi possibili strumenti per finanziare le spese (eurobond, coronabond, meccanismo europeo di stabilità) e non ha mai nominato le banche centrali; ha invece fatto riferimento al settore finanziario, e soprattutto alle banche, assegnando loro il compito tutto politico di dare liquidità a costo zero alle imprese affinché non licenzino: “I diversi paesi europei hanno strutture finanziarie e industriali diverse, l’unico modo efficace per rispondere immediatamente a un crack dell’economia è quello di mobilitare completamente i loro interi sistemi finanziari. E deve essere fatto immediatamente, evitando ritardi burocratici.” Come dire: lo Stato non “crea” moneta, deve garantire il debito pubblico, saranno allora le aziende di credito a riempire di liquidità il mercato.
La politica economica e monetaria europea.
Per comprendere compiutamente quali sono gli strumenti che l’UE ha disposizione per una reazione a livello europeo, ci soffermiamo brevemente sulla politica economica e monetaria europea (prevista dall’art. 119 Trattato sul funzionamento dell’UE, TFUE).
L’azione degli Stati membri e dell'Unione comprende l’adozione di una politica economica fondata sullo stretto coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri, sul mercato interno e sulla definizione di obiettivi comuni, ma anche parallelamente, comprende una moneta unica, l’euro, nonché la definizione e la conduzione di una politica monetaria e di una politica del cambio uniche.
All’interno dell’azione di coordinamento della politica economica (art. 123 TFUE) è espressamente previsto il divieto di concessione di scoperti di conto o qualsiasi altra forma di facilitazione creditizia, da parte della Banca centrale europea (BCE) o da parte delle banche centrali degli Stati membri (BCN) a istituzioni, organi od organismi dell’Unione, alle amministrazioni statali, agli enti regionali, locali o altri enti pubblici, ad altri organismi di diritto pubblico o a imprese pubbliche degli Stati membri, così come l’acquisto diretto presso di essi di titoli di debito da parte della BCE o delle BCN.
La BCE e le BCN costituiscono l’Eurosistema, il sistema di banche centrali dell’area euro. Il principale obiettivo dell’Eurosistema è mantenere la stabilità dei prezzi, ossia salvaguardare il valore dell’euro. Inoltre, la BCE, nell’ambito del Meccanismo di vigilanza unico (insieme alle autorità nazionali competenti), è preposta alla vigilanza prudenziale sugli enti creditizi insediati nell’area dell’euro e negli Stati membri partecipanti non appartenenti all’area. Essa contribuisce in tal modo alla sicurezza e alla solidità del sistema bancario nonché alla stabilità del sistema finanziario nell’UE e in ogni Stato membro partecipante.
Integrità, competenza, efficienza e responsabilità sono criteri intangibili dell’azione della BCE (accountability), nel rispetto della separazione tra i compiti di politica monetaria e di vigilanza.
Il Sistema europeo di banche centrali (SEBC) comprende la BCE e le BCN di tutti gli Stati membri dell’UE indipendentemente dal fatto che abbiano adottato l’euro. L’Eurosistema e il SEBC coesisteranno fintanto che vi saranno Stati membri dell’UE non appartenenti all’area dell’euro.
I programmi di acquisto di attività della BCE.
Conformemente a quanto previsto dall’articolo 18.1 dello statuto del SEBC e della BCE, questa, insieme alle BCN della zona euro, ha la facoltà di operare sui mercati finanziari, tra l’altro, comprando e vendendo a titolo definitivo strumenti negoziabili, al fine di realizzare gli obiettivi del Sistema europeo di banche centrali.
La BCE ha un programma ampliato di acquisto di attività (Asset purchase programme APP) comprendente: il programma di acquisto di attività del settore pubblico sui mercati secondari (PSPP), il terzo programma per l’acquisto di obbligazioni garantite, il programma di acquisto di titoli garantiti da attività e il programma di acquisto per il settore societario.[4]
L’APP coerentemente con l’obiettivo principale della BCE — cioè, si ripete, mantenere la stabilità dei prezzi — punta a migliorare la trasmissione della politica monetaria, a facilitare l’erogazione del credito all’economia dell’area euro, a rendere più accessibili le condizioni di finanziamento di famiglie e imprese e a supportare la costante convergenza dell’inflazione verso livelli inferiori ma prossimi al 2% nel medio termine.
Inoltre, l’APP ha effetti diretti sui rendimenti di mercato dei titoli pubblici e privati. Favorendo il ribasso dei rendimenti di mercato, che si muovono in maniera inversa rispetto ai prezzi delle attività finanziarie, esso produce un miglioramento delle condizioni di offerta del credito e stimola gli investimenti. Inoltre, la liquidità aggiuntiva spinge gli investitori a riequilibrare il proprio portafoglio verso attività finanziarie più redditizie, non direttamente interessate dagli interventi della banca centrale, trasmettendo l’impulso monetario ai diversi strumenti di finanziamento del settore privato. La riduzione dei tassi di interesse, infine, favorisce il deprezzamento del cambio, fornendo un ulteriore stimolo all’attività economica.[5]
La BCE è stata una delle istituzioni dell’Unione europea che ha rilevato la necessità di una “reazione ambiziosa, coordinata e urgente delle politiche su tutti i fronti per sostenere le imprese e i lavoratori a rischio” e che ha voluto introdurre una risposta alla crisi pandemica immediata sul mercato dei titoli in quanto questa “potrebbe compromettere l’obiettivo della stabilità dei prezzi e il corretto funzionamento del meccanismo di trasmissione della politica monetaria e richiede un elevato grado di flessibilità nella sua pianificazione e attuazione rispetto ad APP”.
Gli acquisti nell’ambito del nuovo programma denominato PEPP sono stati distinti dagli acquisti effettuati nell’ambito di APP e si sono aggiunti a questi ultimi: la dotazione complessiva supplementare è di 750 miliardi di euro fino alla fine del 2020.
Il Programma temporaneo di acquisto per l’emergenza pandemica (PEPP).
Gli acquisti di titoli di debito negoziabili idonei emessi dalle amministrazioni centrali, regionali o locali idonee e dalle agenzie riconosciute, saranno condotti in base allo schema per la sottoscrizione del capitale della BCE e delle BCN secondo le allocazioni rispettive previste all’art. 29 dello Statuto del SEBC. “Un approccio flessibile alla composizione degli acquisti nell’ambito del PEPP è pur tuttavia essenziale per impedire che le attuali dislocazioni della curva dei rendimenti dei titoli sovrani aggregata dell’area dell’euro si traducano in ulteriori distorsioni nella curva dei rendimenti privi di rischio dell’area euro, assicurando altresì nel contempo che l’orientamento complessivo del programma comprenda tutte le giurisdizioni dell’area euro. Per rafforzare ulteriormente la flessibilità del PEPP, i titoli di debito negoziabili del settore pubblico con scadenze più brevi di quelli acquistati nell’ambito del PSPP saranno acquistati anche nell’ambito del PEPP”.
Il 18 marzo 2020, il Consiglio direttivo della BCE ha deciso che:
Gli acquisti nell’ambito del PEPP saranno condotti in maniera flessibile, consentendo fluttuazioni nella distribuzione dei flussi di acquisto nel corso del tempo, tra classi di attività e tra giurisdizioni.
Le operazioni concrete della BCE.
La BCE ha acquistato nel mese di marzo titoli per 66,5 miliardi di euro. Si parla praticamente del triplo rispetto agli acquisti effettuati a febbraio (pari a 23,4 miliardi), un intervento mirato a sostenere i Paesi più coinvolti dalla crisi pandemica. Infatti, la BCE si è concentrata particolarmente sull’acquisto di titoli di Stato italiani per un importo pari a 15 miliardi nel solo mese scorso.
Complessivamente la BCE:
— ha acquistato a marzo titoli per 51,1 miliardi attraverso il preesistente programma APP da 20 miliardi mensili,
— ha aggiunto 120 miliardi al termine della riunione del Consiglio del 12 marzo e li ha messi a disposizione per essere utilizzati entro l’anno;
— ha programmato operazioni legate al PEPP, piano di emergenza da 750 miliardi, che viene considerato a parte, per il quale sono stati compiuti acquisti per 30,3 miliardi nella prima settimana, 15,4 miliardi già a marzo (il resto sarà contabilizzato a partire da aprile).
Il dettaglio degli acquisti Paese per Paese, soltanto per APP riscontra 11,8 dei 37,3 miliardi destinati a marzo ai titoli pubblici italiani. Un’accelerazione rilevante questa, visto che a febbraio erano stati riacquistati BTp e simili per appena 2,2 miliardi.
“E anche se nel calcolo occorre tenere conto dei titoli del Tesoro giunti nel frattempo a scadenza (che la BCE deve ricomprare, ma non in un’unica soluzione e anzi distribuendo le operazioni nel corso dell’anno) — è stato osservato[10] — l’ammontare è più che doppio rispetto a quanto sarebbe stato raggiungibile se si fosse seguito il criterio delle quote di partecipazione al capitale dell’istituto centrale”.
Per quanto riguarda gli altri Paesi, Pictet Wealth Management ha così evidenziato gli acquisti della BCE: Francia + 2 miliardi rispetto al mese precedente, Spagna +1,4 miliardi, Belgio +700 milioni, Olanda -1,2 miliardi, Germania -6,9 miliardi per citarne alcuni.
Altro intervento che va registrato è arrivato il 27 marzo scorso, con una raccomandazione eccezionale,[11] che ha stabilito che almeno fino al 1° ottobre 2020, gli istituti di credito non dovranno distribuire dividendi né saranno autorizzati a riacquisti di azioni (buy-back) relativi agli anni 2019 e 2020, finalizzati alla remunerazione degli azionisti durante il periodo di shock economico correlato a Covid-19. Si tratta di un “invito” ma la BCE ha precisato anche che “gli enti creditizi che non sono in grado di conformarsi alla presente raccomandazione perché si ritengono legalmente obbligati a pagare dividendi dovranno immediatamente spiegare le ragioni sottostanti al proprio gruppo di controllo comune”. In questo modo, la BCE conta di trattenere nei fondi delle banche 30 miliardi di capitale aggiuntivo Common Equity Tier 1, patrimonio che darà maggiore capacità di credito “per fare prestiti per 450 miliardi” (come ha affermato Enria).[12]
Altre misure adottate nel sistema bancario.
Altra misura, in tema di liquidità e quindi di istituti di credito, è stata presa il 7 aprile e viene dal Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria (Basel Committee on Banking Supervision, BCBS) che potrebbe nel breve tempo far rilevare un risparmio su costi dovuti all’implementazione dell’Accordo di Basilea sui requisiti patrimoniali delle banche, di cui è stato preventivato[13] lo slittamento dal 2022 al 2023. Tutte le misure adottate dall’Accordo di fine 2017 quando fu trovata l’intesa sulla nuova Basilea 4 o Basilea 3+ sono state rinviate facendo slittare dal 2027 al 2028 l’adozione del c.d. output floor, il meccanismo che serve per riallineare gli effetti (in termini di accantonamento patrimoniali) dell’utilizzo di modelli interni di valutazione rispetto ai modelli standard. La Federazione europea Copenaghen Economics aveva stimato in 400 miliardi i costi aggiuntivi in termini di accantonamenti patrimoniali derivanti da Basilea. L’EBA aveva calcolato in 135 miliardi l’onere aggiuntivo.[14]
Un’ultima azione che merita di essere messa in evidenza è legata alla decisione presa il 7 aprile dal Consiglio direttivo della BCE, che ha adottato un pacchetto di misure temporanee[15] di allentamento delle garanzie per facilitare la disponibilità a partecipare alle operazioni di finanziamento, come le operazioni mirate di rifinanziamento a più lungo termine (TLTRO-III).
Il pacchetto è complementare al PEPP (e alle ulteriori operazioni di rifinanziamento a più lungo termine LTRO) e supporta la fornitura di prestiti bancari, in particolare allentando le condizioni alle quali i crediti sono accettati come garanzia.
Le misure collaterali per facilitare un aumento dei finanziamenti bancari a fronte di prestiti a imprese e famiglie saranno rivalutate entro la fine del 2020; sono così individuate:
Mario Leone
[1] Coronavirus, report Goldman Sachs: “Italia rischia deficit al 10% del Pil”, Il Sole24Ore, 30 marzo 2020, https://www.ilsole24ore.com/art/coronavirus-report-goldman-sachs-italia-rischia-deficit-10percento-pil-ADL8hAH?fromSearch.
[2] Mario Draghi, Draghi: we face a war against coronavirus and must mobilise accordingly, Financial Times, 25 marzo 2020, https://www.ft.com/content/c6d2de3a-6ec5-11ea-89df-41bea055720b.
[3] Riccardo Sorrentino, Un nuovo fiscal compact per affrontare l’epidemia, Il Sole 24Ore, 27 marzo 2020, pag. 2.
[4] Per approfondimenti si vedano: il terzo Covered Bond Purchase Programme (CBPP3, dal 20 ottobre 2014), per l’acquisto di obbligazioni bancarie garantite; l’Asset-Backed Securities Purchase Programme (ABSPP, dal 21 novembre 2014), per l’acquisto di titoli emessi in seguito alla cartolarizzazione di prestiti bancari; il Public Sector Purchase Programme (PSPP, dal 9 marzo 2015), per l’acquisto di titoli emessi da governi, da agenzie pubbliche e istituzioni internazionali situate nell’area dell'euro; il Corporate Sector Purchase Programme (CSPP, dall'8 giugno 2016), per l’acquisto di titoli obbligazionari e, da marzo 2020, commercial paper emessi da società non finanziarie dei paesi dell'area dell’euro.
[5] Banca d’Italia, Programmi d’acquisto di titoli pubblici e privati dell’Eurosistema, https://www.bancaditalia.it/compiti/polmon-garanzie/pspp/index.html.
[6] Si veda l’art. 5 della decisione (UE) 2020/188 della Banca centrale europea (BCE/2020/9).
[7] Nell’ambito del PEPP le banche centrali dell’Eurosistema, salvo che sia altrimenti espressamente disposto nella decisione, acquistano: a) titoli di debito negoziabili idonei nell’accezione di cui alla decisione (UE) 2020/188 della Banca centrale europea (BCE/2020/9) e in conformità alle disposizioni della stessa; b) obbligazioni societarie e altri strumenti di debito negoziabili idonei nell'accezione di cui alla decisione (UE) 2016/948 della Banca centrale europea (BCE/2016/16) e in conformità alle disposizioni della stessa; c) obbligazioni garantite idonee nell’accezione di cui alla decisione (UE) 2020/187 della Banca centrale europea (BCE/2020/8) e in conformità alle disposizioni della stessa; d) titoli garantiti da attività (ABS) idonei nell’accezione di cui alla decisione (UE) 2015/5 della Banca centrale europea (BCE/2014/45) e in conformità alle disposizioni della stessa.
[8] Per facilitare la regolare attuazione, gli strumenti di debito negoziabili con una scadenza residua di 30 anni e 364 giorni sono idonei nell’ambito del PEPP.
[9] Nonostante i requisiti stabiliti nell’articolo 3, paragrafo 2, della decisione (UE) 2020/188 (BCE/2020/9).
[10] Maximilian Cellino, La Bce triplica gli acquisti e dà ossigeno ai BTp, Il Sole 24Ore, 7 aprile 2020, pag.7.
[11] Per approfondimenti si veda: Banca centrale europea, Recommendation of the European Central Bank of 27 March 2020 on dividend distributions during the COVID-19 pandemic and repealing Recommendation ECB/2020/1 (ECB/2020/19), Official Journal of EU, 63 (2020), 30 marzo 2020, https://www.ecb.europa.eu/ecb/legal/pdf/oj_c_2020_102i_full_en_txt.pdf e aggiornamenti si veda: https://www.ecb.europa.eu/ecb/legal/date/2020/html/index.it.html.
[12] Luca Davi, Banche arriva lo stop ai dividendi, Il Sole 24Ore, 28 marzo 2020, pag. 17.
[13] Banca dei regolamenti internazionali, Basel Committee sets out additional measures to alleviate the impact of Covid-19, https://www.bis.org/press/p200403.htm.
[14] Reuters, Basilea 3 può comportare per banche europee 400 mld di carenza di capitale – studio, 21 novenbre 2019, https://it.reuters.com/article/businessNews/idITKBN1XV115.
[15] BCE, ECB announces package of temporary collateral easing measures, 7 aprile 2020, https://www.ecb.europa.eu/press/pr/date/2020/html/ecb.pr200407~2472a8ccda.en.html.
Anno LXII, 2020, Numero 1-2, Pagina 41
COME ENTRARE NELL’ERA DELL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE?
Oggi, e-mail, GPS, forni a microonde e sviluppo dell’intelligenza artificiale sono considerati strumenti del tutto normali nella vita degli individui e nei processi produttivi, ma non lo erano affatto solo una generazione fa o erano considerati addirittura inimmaginabili o troppo costosi da introdurre nel secolo scorso. Tutto ciò non è avvenuto spontaneamente, ma è stato promosso con interventi e politiche promosse da uno Stato, gli USA, in un contesto di progressiva pacificazione, ma anche di confronto a tutto campo fra USA e URSS: Internet è stato il frutto di ricerche promosse dalla DARPA, l’agenzia di ricerca della difesa statunitense;[1] il GPS è stato introdotto a seguito di ricerche promosse dalla marina statunitense; l’impiego delle microonde per scopi civili è avvenuto a seguito di ricerche promosse dall’esercito USA; lo sviluppo della robotica e dell’automazione è avvenuto grazie alle politiche promosse dal governo federale degli USA.[2] Per Alexander Hamilton l’industrializzazione rappresentava la grande impresa da realizzare da parte del nuovo Stato per costruire un’economia in grado di competere a livello mondiale. Oggi i paesi europei devono far fronte ad una sfida analoga per quanto riguarda la diffusione dei processi di automazione in tutti gli aspetti della vita civile e della produzione. Ma, presi singolarmente, essi non hanno né le risorse né la capacità per farlo. Questo è quanto emerge anche da recenti rapporti che sono stati commissionati dalla Commissione europea e da alcuni governi europei, come quello francese,[3] che nel 2018 aveva commissionato ad un gruppo di studiosi, coordinato da Cédric Villani, il compito di studiare le prospettive e le implicazioni dello sviluppo dell’intelligenza artificiale in Francia e in Europa. Queste prospettive ed implicazioni in realtà erano già state indagate dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso da un gruppo di studiosi cecoslovacchi coordinati da Radovan Richta,[4] a partire da un paese, la Cecoslovacchia, con una popolazione che allora doveva gestire una industrializzazione giunta ormai ad un limite oltre il quale era necessario elaborare nuovi modelli economici e politici per produrre dei miglioramenti qualitativi del tenore di vita di una popolazione che, già allora, aveva una produzione pro-capite preceduta solo dagli USA, ma doveva ancora portare a compimento la bonifica di una regione, la Slovacchia, ancora sottosviluppata economicamente. Ed era imprigionato in un sistema burocratico accentrato dominato dall’URSS che mostrava enormi limiti rispetto alle esigenze della nuova fase della rivoluzione industriale. Per fornire un’idea della dimensione di un programma continentale di promozione dell’automazione nel sistema produttivo e nella società attuali, vale la pena ricordare quanto gli USA hanno messo in campo con la National Robotics Initiative 2.0 a partire dalla prima decade di questo secolo, tenendo conto del fatto che le industrie private USA contribuivano per il 70% delle spese per la ricerca e lo sviluppo e fornivano il 90% dei nuovi brevetti USA. L’impegno del governo federale in questo settore parte dai presupposti che:
Dal punto di vista dell’occupazione tutto ciò ha sempre avuto ed ha delle implicazioni. Basti pensare che anche le più affermate imprese su scala globale tendono oggi a ricorrere a sistemi automatizzati di produzione e a contratti di lavoro appaltati a società esterne.[5]
Già negli anni sessanta del secolo scorso la relazione tra automazione ed occupazione era ben presente nella classe politica più consapevole e nel dibattito in generale. Quando alla fine degli anni cinquanta l’economia entrò in crisi, il Congresso USA approvò un Manpower Development and Training Act a seguito del quale il Presidente Kennedy spiegava che questa legge tendeva a fermare lo spreco di risorse umane in campo lavorativo, conseguente al sempre più largo impiego delle macchine. A seguito di questo provvedimento nel 1964 il Presidente Johnson istituiva una commissione sulla tecnologia, l’automazione e il progresso economico per studiare gli effetti dei cambiamenti tecnologici. Tuttavia, a causa dell’aumento dei tassi di occupazione, le preoccupazioni circa gli effetti dell’automazione scemarono, per riaffiorare ancora negli anni ottanta, quando la disoccupazione negli USA raggiunse il dieci per cento della forza lavoro, salvo dimezzarsi dieci anni dopo, e il problema venne nuovamente accantonato. Oggi le aspettative sono che l’automazione, che attualmente copre il 10% di tutte le operazioni produttive, tenderà a svolgere il 25% delle azioni produttive entro il 2025[6] e il tema del rapporto tra automazione ed occupazione sembra tornare d’attualità.
Il fatto è che la progressiva diminuzione del lavoro manuale nella produzione industriale fa sì che il prodotto orario per addetto ormai raddoppi ogni venti anni. In questo lasso di tempo ciò implica che la produzione di beni materiali può mantenersi costante pur dimezzando la forza lavoro impiegata. Certo, il lento aumento della produttività nel settore dei servizi fa sì che l’occupazione tenda ad aumentare in questo settore, ma non in proporzioni tali da compensare la diminuzione in quello industriale.[7]
Questo trend pone all’Europa un serio problema non solo per quanto riguarda la produzione e la regolamentazione nella produzione dei nuovi strumenti messi a disposizione dall’automazione in tutti i campi dell’economia e della produzione, nel consumo e nell’uso di strumenti che impiegano l’intelligenza artificiale, ma anche in relazione al rischio di trovarsi in una situazione di estrema dipendenza da prodotti, standard e tecnologie controllati dalle superpotenze continentali. Un modello di riferimento, come sottolinea il rapporto commissionato dal governo francese, potrebbe essere quello del DARPA creato nel 1958, che era collegato al dipartimento della difesa USA. Tuttavia, sottolineano gli autori del rapporto francese, “chercher à répliquer ce modèle serait un non-sens. De part et d’autre de l’Atlantique, la force de frappe financière, les méthodes, la culture et les mentalités sont différentes. Aussi la réussite de la DARPA tient pour beaucoup à un contexte historique d’intégration très forte du complexe militaro-industriel, dont on ne trouve pas de réel équivalent en France et en Europe”. Sorprendentemente, il rapporto francese non prende però in considerazione il fatto che quando descrive il modello americano fa riferimento ad uno Stato federale di dimensioni continentali e federale mentre la Francia e gli altri paesi europei hanno una dimensione nazionale, e che l’Unione europea è tuttora prigioniera del metodo intergovernativo nella gestione di politiche cruciali in campo fiscale e della politica estera e della difesa! Ma ammette che bisognerebbe creare una ”Agence européenne d’innovation de rupture, permettant de financer des technologies et sciences émergentes, comme l’IA”, nel quadro delle indicazioni fornite dal Presidente Macron nel suo discorso sull’Europa del 26 settembre 2017. Il confronto tra la realtà USA e quella europea è presto fatto. Per dare un ordine di grandezza di quelli che sono i rapporti di forza e di potere e delle risorse in campo, i giganti americani dell’informatica rappresentano un valore di circa 2.200 miliardi di dollari di capitale, contro 1.500 miliardi di capitalizzazione dell’intera borsa francese.
Ecco perché gli investimenti in ricerca ed innovazione in Europa nel campo dell’intelligenza artificiale sono tuttora solo una frazione rispetto a quanto stanno investendo in altre parti del mondo,[8] soprattutto per quanto riguarda quelli nel campo del potenziamento delle strutture educative.[9] Inoltre in Europa si assiste ad un preoccupante ritardo anche sul terreno della definizione delle responsabilità sulle conseguenze di azioni condotte da intelligenze artificiali.[10]
E la necessità di inquadrare istituzionalmente e giuridicamente l’uso degli algoritmi dell’intelligenza artificiale diventa sempre più evidente ed urgente, proprio sulla base delle prime applicazioni per esempio nella selezione di figure professionali o in campo giuridico. Da un lato le industrie europee temono di dover affrontare delle crescenti spese per far fronte ad adeguate regolamentazioni; d’altro lato i consumatori e gli utenti temono che le potenzialità dell’intelligenza artificiale possano essere sfruttate negativamente per promuovere discriminazioni tra sessi e/o etnie o semplicemente per accrescere il potere di controllo diretto sui cittadini da parte dello Stato. Gli algoritmi che stanno alla base del funzionamento dell’intelligenza artificiale possono infatti riflettere la codifica e l’esaltazione di opinioni particolari, pregiudizi e derive psicologiche che potrebbero acuire discriminazioni e/o squilibri. Per questo assume una crescente importanza il sistema giuridico-istituzionale in cui può e deve operare un sistema economico sempre più dipendente da decisioni orientate dall’uso di algoritmi e da procedure sì automatizzate, ma pur sempre riferibili a schemi e modelli formulati da uomini e donne in carne ed ossa. Un problema questo che non può essere affrontato e risolto solo con una procedura giuridica,[11] come alcuni vorrebbero far credere, ma che richiede l’instaurazione di un sistema istituzionale articolato su più livelli di governo. Un sistema tra l’altro più articolato rispetto a quello statunitense, in cui la questione della definizione e dell’uso di algoritmi di ricerca o discriminatori ha sì prodotto degli interventi da parte della Corte suprema, ma senza giungere a conclusioni coordinate, condivise e soddisfacenti.[12]
Il fatto è che mentre la rivoluzione industriale ha potuto nascere e svilupparsi in un quadro nazionale, ed è in quel quadro che per secoli ogni battaglia conservatrice o progressista ha potuto svilupparsi, la rivoluzione scientifica e tecnologica ha sì una dimensione ed un raggio d’azione sovranazionale, ma senza un riferimento di potere adeguato. E laddove il quadro di potere rimane legato alle prerogative nazionali dei sistemi di governo, tendono a prevalere nelle società le spinte e le tentazioni di ricorrere alle ricette del passato e alle chiusure. La Storia ci insegna che i valori e la capacità d’agire si affermano con delle rivoluzioni che sanno tradursi in istituzioni durevoli e adeguate allo stadio raggiunto dal modo di produrre. Questo per gli europei significa fare subito la federazione europea anche per affrontare e governare le conseguenze dell’avvento dell’automazione e delle sue conseguenze.
Franco Spoltore
[1] Defense Advanced Research Projects Agency, https://www.darpa.mil.
[2] La politica USA ha in sostanza continuato a seguire le linee guida tracciate nel 1791 da Alexander Hamilton, allora Segretario al Tesoro, quando presentò al Congresso una relazione sulle manifatture, in cui spiegò: “L’impiego dei macchinari costituisce un elemento di grande importanza nel complesso dell’attività economica nazionale: è una forza artificiale creata in ausilio alla forza naturale dell’uomo; e, a tutti gli effetti del lavoro, costituisce un aumento di braccia, un potenziamento di forze che per di più non è gravato delle spese di mantenimento del lavoratore. Non si può quindi dedurre onestamente che queste occupazioni che offrono più larghe possibilità di impiego di questi mezzi ausiliari, diano un maggior contributo alla massa complessiva dello sforzo lavorativo e di conseguenza al prodotto generale dell’attività produttiva?”, Alexander Hamilton, Relazione sulle manifatture, in Id., Lo Stato federale (a cura di Lucio Levi), Bologna, Il Mulino, 1987 p. 173.
[3] Cédric Villani, Donner un sens à l’intelligence artificielle, mission confiée par le Premier Ministre édouard Philippe, 8 Settembre 2017 – 8 Marzo 2018, Parigi, Conseil national du numérique.
[4] Radovan Richta, Civiltà al bivio, Milano, Franco Angeli, 1972
[5] Robert Kuttner, Why Work is More and More Debased, New York Review of Books, October 23, 2014. Per esempio Apple impiega ufficialmente circa sessantamila dipendenti, ma ha contratti di lavoro gestiti da altre società con circa settecentocinquantamila persone.
[6] Per cogliere l’impatto economico di questo trend possiamo considerare il fatto che un saldatore manovrato da un operaio costa circa 25 dollari l’ora, mentre un robot ne costa 8. Già oggi per esempio un pilota d’aereo opera manualmente per meno di cinque minuti per volo mentre Amazon impiega circa 15.000 robot per gestire e spedire la merce nei/dai magazzini.
[7] L’aumento dei consumi di servizi negli USA, che rappresentano il modello di riferimento del sistema produttivo industriale, ha implicato un aumento delle attività terziarie. Mentre negli anni cinquanta del secolo scorso il consumo di beni materiali delle famiglie americane assorbiva quasi il 70% del reddito familiare, nella prima decade del XXI secolo questa quota era scesa al 42% contro un 58% di spese in servizi come turismo, ristorazione, sanità. Il settore industriale statunitense sostiene ancora circa il 70% delle spese in ricerca e sviluppo ed è all’origine della produzione del 90% dei nuovi brevetti. Per ogni dollaro prodotto in beni industriali, si generano 1,37 dollari in altre attività economiche ed ogni impiego nel settore industriale ne genera tre nel resto dell’economia. Tra la fine degli anni ottanta e la fine della prima decade di questo secolo la produttività è cresciuta del 3,4% nel settore industriale, contro un aumento del 2,2% negli altri settori.
[8] Mentre in Europa si investivano nel 2016 nel campo dell’intelligenza artificiale circa 3.2 miliardi di euro, in Nord America se ne investivano 12.1 miliardi e in Asia 6.5 miliardi, Commissione Europea, White Paper on Artificial Intelligence - A European approach to excellence and trust, 19 febbraio 2020, https://ec.europa.eu/info/sites/info/files/commission-white-paper-artificial-intelligence-feb2020_en.pdf.
[9] In quest’ultima decade gli USA hanno investito circa 200 miliardi di dollari in borse di studio e in crediti di imposta per le tasse universitarie.
[10] “Come gestire le conseguenze di azioni condotte da autovetture autonome? Se per esempio un autoveicolo intelligente dovesse uccidere qualcuno in un incidente, a chi si rivolgerebbe un’assicurazione per reclamare il danno provocato? Al proprietario del veicolo? Al conducente nel momento dell’incidente? Al produttore dell’autoveicolo? Tutte domande cruciali e per ora senza risposta, mentre molti veicoli autonomi stanno già percorrendo milioni di chilometri sulle strade USA”, Morgane Tual, Enquête au cœur de l’intelligence artificielle, ses promesses et ses périls, Le Monde, 29 marzo 2018, https://www.lemonde.fr/pixels/article/2017/12/30/l-intelligence-artificielle-ses-promesses-et-ses-perils_5236008_4408996.html.
[11] La nécessité d’encadrer juridiquement l’usage des algorithmes de l’IA ne fait pas de doute. Le chantier des mesures de régulation paraît indispensable, Nozha Boujemaa, Comment régler l’intelligence artificielle, Le Monde, 18 marzo 2020.
[12] Matthew Steward, The Most Important Court Decision For Data Science and Machine Learning, Towards Data Science, https://towardsdatascience.com/the-most-important-supreme-court-decision-for-data-science-and-machine-learning-44cfc1c1bcaf. “The Google Book Search algorithm is clearly a discriminative model — it is searching through a database in order to find the correct book. Does this mean that the precedent extends to generative models? It is not entirely clear and was most likely not discussed due to a lack of knowledge about the field by the legal groups in this case. This gets into some particularly complicated and dangerous territory, especially regarding images and songs. If a deep learning algorithm is trained on millions of copyrighted images, would the resulting image be copyrighted? Similarly with songs…”
Anno LXI, 2019, Numero 3, Pagina 164
COME GOVERNARE L’EUROPA E IL MONDO
NELL’ERA DELL’INTERDIPENDENZA GOLOBALE?
Entro il 2050 il 70% circa della popolazione mondiale, cioè quasi 7 miliardi di persone, vivrà in aree urbane. Questo trend non ha precedenti nella storia dell’uomo e inciderà sempre più sulle dinamiche internazionali e lo sviluppo di interi paesi e città, soprattutto su quelle più inserite nel processo di globalizzazione. Siamo in presenza di un trend che vede le città sempre più connesse tra loro e in grado di utilizzare tecnologie e infrastrutture che influenzano il modo in cui gli individui consumano lo spazio e il tempo su scala mondiale e in tempi sempre più stretti. Tuttavia né a livello continentale, né a livello mondiale ci sono ancora le istituzioni adeguate per governare il fenomeno della crescente interdipendenza globale. Una interdipendenza di cui sono ben consapevoli coloro i quali devono affrontare le sfide globali di fronte alle quali ci troviamo ma che, per affrontarle, si trovano disarmati.[1] Per questo diventa importante da un lato capire come stanno cambiando le città e, dall’altro lato, analizzare come esse si relazionano tra loro, e in quali quadri istituzionali e in funzione di quali rapporti di potere. Entro il 2040 si prevede che dovranno essere investiti nel mondo l’equivalente di quindicimila miliardi di dollari per sviluppare e governare i flussi commerciali e le interazioni fra le maggiori aree urbane, fra paesi più e meno sviluppati, e tra aree urbane ed aree rurali.[2]
L’Europa, per ragioni geografiche, storiche, politiche ed economiche, si trova al crocevia di queste sfide.[3] Essa dovrebbe aver maturato l’esperienza per affermare un nuovo modello di Stato in cui il coordinamento tra diversi livelli indipendenti di governo può e deve coesistere con il controllo e la partecipazione democratica dei cittadini nel processo decisionale articolato in più livelli. Ma questo nuovo modello istituzionale stenta a prender forma e ad affermarsi. E si assiste a rigurgiti di localismo e di chiusura nei vecchi confini ideologici, nazionali e/o micro-nazionali che, oltre ad essere anacronistici, ostacolano ogni avanzamento verso un sistema istituzionale più integrato, articolato e coordinato su scala sovranazionale. Non mancano né le analisi e gli studi sull’alto grado di interdipendenza raggiunto praticamente in tutti i settori dello sviluppo, né le conferme della necessità di creare istituzioni più adeguate al livello di sviluppo scientifico e tecnologico raggiunto dall’umanità.
Mancano ancora dei modelli politico-istituzionali di riferimento per governare la crescente interdipendenza raggiunta su scala continentale e globale.
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La crescente interdipendenza a livello globale è stata tra gli altri analizzata e ben messa in evidenza in uno studio di Parag Khanna,[4] da cui emerge come connectivity is the most revolutionary force of the twenty-first century. Nella sua analisi Khanna mostra con esempi e dati di fatto quanto alcuni leader politici, come l’ex-Presidente USA Obama, hanno sperimentato nella loro azione di governo.[5] Con ciò Khanna non fa che confermare con dati di fatto quanto qualche decennio fa aveva già intuito lo storico urbanista Lewis Mumford nei suoi studi sulla città, e cioè che, mentre in passato la città era un mondo in sé e per sé, progressivamente il mondo sarebbe diventato un’unica città globale.[6] Perché, come ha lucidamente descritto il giornalista Bastasin, “la sfida di fronte alla quale ci troviamo riguarda proprio il difficile adeguamento delle istituzioni e degli individui alle rapide trasformazioni delle strutture economiche, dei processi di interazione nell’era delle nuove tecnologie, del commercio globale e dello spostamento dall’industria ai servizi. Rispetto a queste trasformazioni sono in atto nelle società due tipi di reazione. Nelle regioni che per motivi geografici e storici sono ben inserite nelle catene produttive globali (come per esempio la Catalogna, il Veneto, la Lombardia, la Great London, l’Olanda, la Baviera) la trasformazione ha provocato un’accentuata mobilità e una crescente autonomia, che li ha resi insofferenti all’inerzia e inadeguatezza degli Stati e di chi vuole vivere al riparo della concorrenza o a trarre vantaggi dallo status quo. D’altra parte nelle periferie del cambiamento globale (come gli Stati centrali degli Stati Uniti, vaste regioni della Russia, il Nord dell’Inghilterra, la Grecia, il Mezzogiorno di Italia e Spagna, la Germania orientale) si è sviluppata la paura di un arretramento e dell’impotenza. In queste regioni la trasformazione industriale è stata aggravata dal declino degli investimenti e del supporto dell’industria pubblica degli anni Cinquanta-Settanta o dei bacini di materie prime ad alta intensità di lavoro. Contemporaneamente, in quasi tutte queste regioni è diventata più pressante, sia culturalmente sia geograficamente, la mobilità degli individui che ha implicato anche una perdita di radici ed ha alimentato un sentimento di vittimistica nostalgia” di una mitizzata ed immaginaria età dell’oro del passato.[7]
La conseguenza è che due fenomeni contrapposti si stanno contrapponendo su scala mondiale: quello della frammentazione e quello dell’integrazione delle politiche commerciali, economiche, industriali dei vari livelli di governo, con gli staterelli europei che sono diventati al tempo stesso vittime e protagonisti di questo processo.[8]
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Il fenomeno della crescente interconnessione ed interazione diretta fra grandi città ha creato l’illusione di poter fare a meno delle istituzioni statali, inadeguate per quanto riguarda la loro dimensione e la loro capacità d’azione nazionali, ancora immature per quanto riguarda il livello sovranazionale, ad uno stadio embrionale ed inadeguato per promuovere e governare la crescita, lo sviluppo ed il progresso.
In termini medici, abbiamo ormai una buona diagnosi, una prognosi discutibile, ma nessuna cura all’altezza del problema. Come anni fa aveva osservato Jane Jacobs a proposito del governo delle città,[9] siamo ancora al livello delle cure mediche pseudoscientifiche con il salasso anziché con efficaci terapie e medicine: abbiamo sì delle buone diagnosi, ma delle prognosi ancora approssimative, e nessun efficace metodo di trattamento del problema. In questa situazione hanno buon gioco le forze populiste e demagogiche nel far leva sul malcontento popolare per promuovere l’ascesa di personalità e formazioni politiche che, lungi dall’essere in grado di affrontare e risolvere davvero i problemi, si affermano come forze anti-sistema che fanno leva sul malcontento popolare nei confronti dei poteri e delle istituzioni esistenti, su quelle fasce della popolazione che si sentono solo vittime, e non anche protagoniste, degli effetti della globalizzazione, della rivoluzione tecnologica e che temono di essere marginalizzate economicamente e socialmente dalle ondate migratorie. Così i fenomeni di frammentazione e quelli dell’integrazione politica ed economica si intrecciano sempre più fra loro. Né gli stimoli fiscali, né quelli monetari adottati finora dai vari governi nel tempo sono in grado di risolvere sul piano economico e su quello politico questa contrapposizione, alimentando un circolo vizioso in cui la decomposizione dei quadri politici e la crisi sociale si alimentano a vicenda, a tutti i livelli. Intanto l’era delle connettività globale avanza, al punto che si prevede che nei prossimi quarant’anni si costruiranno nel mondo più infrastrutture che negli ultimi quattromila anni mentre ogni giorno 150.000 individui si urbanizzano.[10] E l’ordine mondiale fondato sui rapporti di forza e di potere fra Stati è sempre più intaccato e messo in discussione da attori privati che tendono ad agire al di fuori di istituzioni e regole controllate democraticamente.[11] Contemporaneamente, i nuovi principi che influenzano il governo e l’evoluzione dell’ordine mondiale sembrano sempre più fondarsi non sui rapporti di forza fra Stati, ma sulla connettività diretta tra i centri urbani e sul controllo da parte delle nuove grandi multinazionali delle catene di approvvigionamento delle materie prime necessarie ad alimentare il nuovo modo di produrre. In questo quadro, l’area del mondo in cui la contrapposizione fra processi di frammentazione e di integrazione si sta più palesemente manifestando è l’Europa, cioè il continente che è allo stesso tempo al centro dei processi produttivi e commerciali globali, preda di tentazioni nazional-sovraniste e in cui è in atto il più avanzato processo di costruzione di un nuovo potere sovranazionale: Ma la potenza in cui sono sempre più evidenti le contraddizioni commerciali e produttive del nuovo modo di produrre globale, che rischiano di produrre nuove tensioni e conflitti, è la Cina.[12]
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L’impatto delle attività umane sull’ambiente, dei suoi effetti sugli equilibri ecologici e sulla vivibilità dell’ambiente in cui viviamo è diventato una questione cruciale nella gestione delle politiche economiche in tutti i paesi del mondo. Il fatto è che, proprio a seguito della globalizzazione del fenomeno dell’urbanizzazione, ogni attività economica, produttiva e di consumo dei beni si traduce in un breve lasso di tempo in una potenziale minaccia per l’ambiente. Lo abbiamo sperimentato con i gas utilizzati per la refrigerazione, i CFC, considerati prima un innocuo e indispensabile strumento per la conservazione degli alimenti e, successivamente, una minaccia per gli equilibri atmosferici e responsabili del deterioramento dello strato d’ozono; oppure con la diffusione dell’uso dei materiali plastici per il confezionamento, la commercializzazione e la conservazione di cibi e beni di consumo, lo smaltimento dei quali rappresenta ormai un grave problema. Il problema evidentemente non risiede semplicemente nel regolamentare su scala regionale e/o nazionale la produzione, la commercializzazione e l’uso di questi come di altri materiali che sono stati e saranno inventati, ma nel promuovere ed applicare accordi e norme vincolanti nel consumo dei prodotti su scala continentale e globale per governare le emergenze ambientali.[13] Perché in un mondo sempre più interconnesso, interdipendente, densamente popolato e urbanizzato ogni bene prodotto e consumato è destinato ad avere nel tempo un impatto ambientale globale. Da questo punto di vista è fondamentale instaurare un nuovo ordine istituzionale che colleghi e coordini tutti i livelli di governo.
In Europa si sono sviluppati nel tempo diversi modelli di distribuzione urbana e territoriale legati a istituzioni sempre più complesse ed articolate. Questo ha fatto sì che il panorama urbanistico istituzionale europeo comprendesse sia dei modelli accentrativi esclusivisti, come Londra, Parigi, Vienna e Berlino; sia delle realtà policentriche molto collegate al rispetto dell’ambiente, come in Olanda e Germania renana; sia realtà con diverse stratificazioni gerarchiche orientate allo sviluppo del mercato come in Baviera e Lombardia. Il modello accentrativo si è affermato a seguito delle situazioni storiche e politiche che hanno portato al consolidamento di realtà istituzionali nazionali. Quello policentrico, tipico dei Paesi Bassi, fa tuttora capo a pochi grandi poli, come Rotterdam, Amsterdam, Utrecht e L’Aja, ben collegati tra loro da efficienti reti di trasporto, minimizzando la mobilità del lavoro e con grande mobilità delle merci, mantenendo buone aree verdi di separazione fra i poli urbani. Per contro il modello orientato alle esigenze del mercato ha favorito l’accentramento e la concentrazione di attività economiche e produttive in un numero ridotto di poli, come nel caso del triangolo industriale nel Nord Italia formato da Torino, Milano e Genova.[14] è dunque in Europa che il problema della qualità della vita e del governo della crescente interdipendenza tra grandi aree urbane ha assunto un’importanza particolare, mettendo in evidenza l’esigenza dell’attuazione di una programmazione che sia articolata, democratica e sovranazionale. Una programmazione che evidentemente non può essere realizzata nel quadro degli Stati nazionali esistenti, ma che richiede una struttura istituzionale di tipo federale, che consenta l’espressione e l’esercizio della volontà generale a più livelli di governo. Una struttura che non può rifarsi a vecchi modelli, come quello della convivenza di una moltitudine di Stati nazione, o di città- o regioni-Stato che interagiscono fra loro, come sembrano tuttora suggerire alcuni, ma ad un modello di Stato federale articolato su più livelli e su scala continentale e, in prospettiva, globale.[15] Uno Stato federale in cui non ci siano solo due livelli di governo, ma una pluralità di livelli, i cui ambiti territoriali dovranno coincidere con le naturali sfere di influenza dei beni e servizi centrali dei diversi ordini di complessità e di specializzazione, e delle “istituzioni” che li forniscono.[16]
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Per approfondire l’indagine sulle cause degli squilibri territoriali, è utile infine richiamare alcuni elementi della teoria del geografo tedesco Walter Christaller e al metodo da lui usato per comprendere le relazioni spaziali fra i vari insediamenti, partendo dalla constatazione che ogni processo economico e produttivo ha una dimensione spaziale, da cui deriva la distribuzione delle centralità di beni e servizi offerti,[17] distribuzione che storicamente presenta delle regolarità nella dispersione urbana e per quanto riguarda le dimensioni demografiche e le manifestazioni economiche, politiche e culturali. Christaller partì da uno studio regionale tedesco, e cercò di estendere successivamente la sua analisi anche su scala europea, ma con scarsi risultati a causa della scarsezza di dati di cui disponeva. Scopo dei suoi studi era quello di verificare nella pratica che “la vocazione principale, o anche la caratteristica fondamentale della città è quello di essere il punto centrale di un territorio (…). Per tale motivo parleremo d’ora in poi, di località centrali (Zentralen Orte). Tuttavia per determinare l’importanza centrale di un punto occorre scegliere un metodo che traduca quantitativamente la sua qualità di essere centrale”.[18] Ora, questo metodo per essere credibile e il più possibile oggettivo, deve basarsi sulla determinazione del flusso di dati e informazioni scambiato da e verso i centri urbani. Infatti, mentre per il successo economico del commercio di beni centrali si può usare l’indice del reddito di chi offre e usufruisce di questi beni, lo stesso non accade per esprimere il reddito di un ente per l’offerta di servizi come l’istruzione e la sicurezza. Per questo Christaller propose di risolvere il problema con il metodo dei telefoni: “occorre contare gli allacciamenti telefonici di una località, scriveva Christaller, il cui numero corrisponde con abbastanza precisione a ciò che intendiamo per importanza di una località”.[19] In questo modo Christaller, con rigorose formule che mettevano in relazione il numero di abitanti con il numero di telefoni allacciati, ridisegnò la mappa delle località della Germania meridionale, identificando le località centrali in modo ben diverso da quello che si otteneva con il metodo del numero degli abitanti, mettendo in evidenza le notevoli differenze di importanza.[20] Christaller era ben consapevole dei limiti della sua analisi, in quanto “né la raffigurazione dell’importanza attraverso il numero dei telefoni, né il sistema per calcolare la centralità sono esatti in senso matematico, tuttavia i valori così ottenuti corrispondono all’importanza centrale di una località in misura assai maggiore che il numero degli abitanti o magari i valori relativi alle persone attive nel commercio, nei trasporti o nelle libere professioni centrali”.[21] In ogni caso, attraverso questa indagine Christaller riuscì a mettere in evidenza come la centraltà di una località corrisponde all’eccesso di importanza che questa località ha nei confronti del territorio circostante. Dove l’eccessiva importanza di una località centrale in una determinata regione non farebbe che bilanciare un equivalente deficit di importanza da parte delle località disperse. La correzione di questo eccesso di importanza avverrebbe storicamente, secondo Christaller, in base a tre principi: il principio dell’approvvigionamento (Versonungprinzip), o principio del mercato (Marktprinzip); il principio del traffico (Verkehrsprinzip); e il principio dell’amministrazione (Verwaltungsprinzip) o dell’isolamento (Absonderungsprinzip). A proposito di quest’ultimo principio Christaller aveva ben presente quali enormi conseguenze derivano dai cambiamenti di confine amministrativi e politici nei confronti del destino dei centri urbani, avendo vissuto i cambiamenti innescati dal crollo dell’impero austro-ungarico all’indomani della prima guerra mondiale, in particolare nelle aree di frontiera della Germania e nel distretto urbano Vienna, Budapest, Bratislava, molto integrato amministrativamente, economicamente e per quanto riguarda il sistema dei trasporti fino al 1918.[22] Questo tema è stato successivamente ripreso ed approfondito in un’ottica federalista da Francesco Rossolillo.[23]
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Il fatto che le grandi città siano sempre più collegate direttamente fra loro economicamente, commercialmente e per quanto riguarda lo scambio di dati, informazioni e persone, rappresenta un potente volano per la produzione ed il consumo di beni e servizi e dell’energia su scala globale[24]. Anche considerando il solo aspetto economico, già nel 2017 le dieci città più grandi nel mondo generavano insieme un prodotto interno lordo più grande di quello aggregato di Giappone, Francia, Germania ed Italia[25] e alcuni studi indicano che entro i prossimi vent’anni l’80% della ricchezza mondiale verrà prodotta nelle città. Mentre per quanto riguarda il controllo dell’inquinamento, per definizione quello che può risultare innocuo per l’ambiente e l’umanità in piccole quantità, può diventare nocivo e pericoloso quando si diffonde su scala globale [26] Tutto ciò, oltre a generare un diffuso senso di consapevolezza dei grandi benefici e vantaggi che potrebbero derivare da un buon governo di questo fenomeno, sta alimentando anche un diffuso senso di disorientamento e di crisi della rappresentanza politica nei cittadini a tutti i livelli. Con la pericolosa illusione, abilmente alimentata e sfruttata da alcuni, di poter instaurare una sorta di democrazia diretta globale attraverso l’uso dei nuovi canali social via Internet.[27] Proprio per questo sarebbe importante mostrare, partendo dal consolidamento politico-istituzionale nell’eurozona di almeno un primo nucleo di paesi che ha già rinunciato alla sovranità monetaria, che è possibile instaurare un nuovo modello di Stato sovranazionale basato su molteplici livelli di governo indipendenti e coordinati in un quadro federale.
Franco Spoltore
[1] Si veda in proposito l’intervento della Cancelliera Merkel il 16 febbraio 2019 alla conferenza sulla sicurezza a Monaco laddove si riferisce alla intuizione di Humboldt sul fatto che tutto è interdipendente: ”Alles ist Wechselwirkung” https://www.bundeskanzlerin.de/bkin-de/aktuelles/rede-von-bundeskanzlerin-merkel-zur-55-muenchner-sicherheitskonferenz-am-16-februar-2019-in-muenchen-1580936. Anche l’ex-Presidente USA Obama ha recentemente sottolineato come “the world is more interconnected than ever before, and it’s becoming more connected every day. Building walls won’t change that…”, https://www.patheos.com/blogs/progressivesecularhumanist/2016/05/obama-mocks-trumps-anti-intellectualism/?fbclid=IwAR0zwdBHEesI8PjOUCo5O0UoI1alu7_SbZ0vc2nBt0hS3rHWUlyNDqYjxrk.
E’ di un certo interesse anche l’intervento del 3 Aprile 2012 dell’attuale Sindaco di Milano Sala: https://www.ispionline.it/it/eventi/evento/dialoghi-sul-futuro-le-citta.
[2] Stefano Riela e Alessandro Gili, The Future of Infrastructure: Which Options for Public-Private Cooperation?, Milano, Dossier dell’Istituto per gli studi di politaca internazionale, Dossier, 17 giugno 2019, https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/future-infrastructure-which-options-public-private-cooperation-23309.
[3] Secondo un rapporto Eurostat, già nel 2012, nei 28 Paesi UE circa il 40% della popolazione viveva in città di media o grande dimensione. https://www.casaeclima.com/ar_9855__ITALIA-Ultime-notizie-eurostat--ue--popolazione--citt-Il-40-degli-europei-vive-nelle-citt.html.
[4] Parag Khanna, Connectography, Mapping the Future of Global CIvilization, New York, Random House, 2016.
[5] Ecco come si è espresso l’ex-Presidente degli USA Barak Obama: “Let me be clear as I can be: In politics and in life, ignorance is not a virtue. It’s not cool to not know what you’re talking about. That’s not keeping it real or telling it like it is. It’s not challenging political correctness (…) that’s just not knowing what you’re talking about (…). The world is more interconnected than ever before, and it’s becoming more connected every day. Building walls won’t change that”. (https://www.patheos.com/blogs/progressivesecularhumanist/2016/05/obama-mocks-trumps-anti-intellectualism/?fbclid=IwAR0zwdBHEesI8PjOUCo5O0UoI1alu7_SbZ0vc2nBt0hS3rHWUlyNDqYjxrk).
[6] Lewis Mumford, The City in History, New York, Harcourt Brace and World, 1961.
[7] Carlo Bastasin, E’ l’antagonismo centro periferia a nutrire i populismi, Il Sole 24ore, 13 ottobre 2017.
[8] Milena Gabanelli e Fabio Savelli, Le città connesse saranno sabotabili: chi non protegge i nostri dati e perché, Corriere della Sera, 14 giugno 2019, https://www.corriere.it/dataroom-milena-gabanelli/smart-city-sicurezza-dati-5g-italia-rischi-furti-cyberattacchi/366c6500-8ec4-11e9-aefd-b9bfecbb01f9-va.shtml.
[9] Jane Jacobs, The Death and Life of Great American Cities, New York, Random House USA Inc, 1993.
[10] Parag Khanna, op. cit., p. 11.
[11] Come mostra il caso della proposta di introdurre una nuova moneta globale virtuale, la Libra, controllata da Facebook.
[12] La Cina già nel 2015 importava il 34% di tutti i componenti elettronici prodotti nel mondo ed era la più grande esportatrice di tecnologie dell’informazione, Parag Khanna, op. cit., p. 153.
[13] Come ha spiegato Lewis Mumford, agli albori dell’era industriale era ancora il legno, e non il metallo, il materiale più utilizzato per produrre beni artigianali ed industriali, persino nella costruzione delle caldaie e delle stoviglie, in cui solo la parte esposta al fuoco veniva rivestita e protetta con il metallo. Si veda in proposito Lewis Mumford, Technics and Civilization, New York, Harcourt Brace Company, 1934, p. 120.
[14] Un’approfondita analisi di questi modelli e del loro sviluppo è stato svolto in una serie di lezioni tenute all’Università di Pavia negli anni settanta e ottanta del secolo scorso, non pubblicate, da Gianfranco Testa. Di parte del materiale cartografico elaborato dal Testa si trova traccia nel suo intervento al Convegno nazionale sulla difesa della natura. Aspetti economici, urbanistici, giuridici, La difesa della natura a livello di problema urbano, svoltosi a Pavia nel 1970, pubblicato in Atti della Camera di Commercio I.A.A. di Pavia, Pavia, febbraio 1972.
[15] Parag Khanna, che pure ha svolto un’approfondita analisi della crescente interdipendenza su scala globale, sembra indulgere nella possibilità di ripristinare il ritorno alle città Stato nell’era moderna in La Rinascita delle città-Stato – Come governare il mondo al tempo della devolution, Roma, Fazi Editore, 2017. Nella prefazione di questo suo libro si legge infatti: “Una tecnocrazia diretta è il modello migliore per la governance del XXI secolo, laddove combina un esecutivo a presidenza collettiva e un Parlamento multipartitico di tipo svizzero con un’amministrazione pubblica come quella di Singapore”. Con ciò Khanna ricade nell’errore, già fatto a suo tempo da una illustre studiosa dei fenomeni urbani, come Jane Jacobs, la quale, dopo aver efficacemente messo in luce l’importanza dell’evoluzione delle strutture urbane per promuovere un’efficace e positiva vita sociale e lo sviluppo economico e produttivo, aveva ipotizzato nel suo libro Cities and the Wealth of Nations (Vintage, New York, 1985) l’instaurazione di un sistema di città sovrane, a partire dalla moneta, in libera competizione tra loro. Si veda in proposito la mia nota I rimedi casalinghi della Jacobs, Il Federalista, 29 n. 1 (1987), https://www.thefederalist.eu/site/index.php/it/note/353-i-rimedi-casalinghi-della-jacobs.
[16] Si tratta di un’indicazione che ci viene fornita dall’analisi della struttura del territorio in Europa fatta da Walter Christaller in Le località centrali della Germania meridionale, pubblicato in italiano a Milano da Franco Angeli nel 1980.
[17] Walter Christaller, op. cit.: lo studio del Christaller risale agli inizi degli anni trenta del secolo scorso. La sua opera cominciò ad essere apprezzata già alla fine degli anni trenta negli Stati Uniti e solo molto più tardi anche in Europa.
[18] Walter Christaller, op. cit., p. 44.
[19] Walter Christaller, op. cit., p. 183.
[20] Walter Christaller, op. cit., p. 186.
[21] Walter Christaller, op. cit., p. 193.
[22] Un approfondito studio sull’influenza dei confini degli Stati per quanto riguarda la distribuzione delle località centrali è stato fatto nel 1939 da un altro geografo tedesco August Lösch, consultato in The economics of location, Yale, Science Editions paperback, Yale University Press, 1967. Particolarmente laddove Lösch ha spiegato come e perché “Larger market areas are always transformed along political frontiers, and all areas are changed where the borders represent merely man-made obstacles to trade. We can classify these changes into: first, destruction of locations or their removal away from a boundary, which in the absence of disturbing influences together create the border wasteland; and second, removal of locations across the border”, p. 203.
[23] “Da tutto ciò deriva l’opportunità di adeguare l’articolazione costituzionale della federazione alla struttura che tende spontaneamente ad assumere la distribuzione dei luoghi centrali, e dei relativi territori, in assenza di fattori perturbanti. Il che significa che i territori dei livelli di autogoverno localizzati ai margini dei territori dei livelli immediatamente superiori non dovranno essere delimitati in modo da essere interamente compresi in uno di essi, bensì in modo da intersecarne due o più. In tal modo questi territori passeranno dallo status di periferia a quello di cerniera: assumeranno cioè il ruolo attivo ed evolutivo di aree di giunzione e di scambio tra due o più ambiti territoriali di ordine superiore. Se, per far un esempio, ipotizzassimo l’esistenza, in un quadro federale europeo o mondiale, di una regione Sicilia e di una regione Calabria, il territorio di Messina e quello di Reggio dovrebbero costituire un solo comprensorio, la cui funzione è resa di immediata evidenza dall’opportunità di gestire con criteri coerenti i problemi connessi con l’esistenza dello stretto. Ad analoghe conclusioni si potrebbe giungere con riferimento ad una ipotetica macro-regione che comprendesse tutti i territori rivieraschi del Reno. E così via”. Francesco Rossolillo, Città, territorio e istituzioni, Napoli, Guida editori, 1983, http://www.fondazionealbertini.org/sito/rossolillo/vol_i/RI-5-5-Il%20modello%20istituzionale.pdf.
[24] In base ad uno studio condotto dalla Cisco (Cisco Visual Networking Index: Forecast and Trends, 2017–2022 White Paper, https://www.cisco.com/c/en/us/solutions/collateral/service-provider/visual-networking-index-vni/white-paper-c11-741490.html), il traffico di dati via Internet fra i vari centri urbani è destinato a triplicare nei prossimi tre anni.
[25] Tobia Zevi, Global Cities as a Challenge for the 21st Century, Milano, Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI), 2018, https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/global-cities-challenge-21st-century-21551.
[26] Come abbiamo visto nel caso dei gas CFC usati per la refrigerazione, considerati innocui fino a quando non si è constatato l’impatto negativo dell’enorme quantità di essi immessa nell’atmosfera sul mantenimento di un adeguato strato di ozono.
[27] Una situazione, questa, denunciata esplicitamente, tra gli altri, anche da Ulrich Beck in Potere e contropotere nell’età globale, Roma-Bari, Laterza, 2010, laddove scrive che “l’Europa, così come si continua a concepirla, è un ibrido tra mercato e burocrazia, ma non è un’entità politica dotata di una forza visionaria, né per ciò che riguarda la forma del mondo degli Stati europei, né per ciò che si riferisce alla posizione dell’Europa rispetto alle altre regioni del mondo”, p. 300.
Anno LXI, 2019, Numero 1-2, Pagina 60
NUOVE TECNOLOGIE, GLOBALIZZAZIONE
E IL FUTURO DELL’EUROPA DOPO IL 2020.
Nel Rapporto Global Trends,[1] presentato lo scorso 8 aprile al Parlamento Europeo, venivano indicati i mega-trend principali che dovranno essere presi in considerazione nella determinazione dell’obiettivo politico-strategico dei prossimi anni dell’Ue. Accanto a cambiamenti climatici, demografia e urbanizzazione, di particolare importanza sarà anche l’incidenza delle nuove tecnologie nell’economia globalizzata e nelle relazioni tra Stati in uno scenario geo-politico in rapida riconfigurazione.
E’ iniziata la “quarta rivoluzione industriale” i cui sviluppi sono destinati a configurare un cambiamento epocale tra il secolo scorso e il nuovo millennio e le cui conseguenze incideranno radicalmente sui prossimi trend economici, sociali, politici e sulle relazioni internazionali.
Che cosa sta accadendo? Quali i nuovi scenari? Chi sono i principali competitors nell’era della globalizzazione? Quale è il ruolo dell’Europa?
Cambia il volto della produzione, dell’economia e delle professionalità.
Il tutto parte dalla rapida trasformazione del mondo della produzione di dotarsi ed avvalersi di nuove tecnologie, della digitalizzazione e di robot per potersi garantire la possibilità di diventare sempre più concorrenziale, di creare ingenti quantità di prodotti di alta qualità in pochissimo tempo, di eliminare alla radice ogni errore umano.
Non c’è industria manifatturiera competitiva sui mercati internazionali che non abbia innovato e che non si avvalga come punti di forza delle tecnologie “Industria 4.0” (automazione industriale che integra alcune nuove tecnologie produttive per migliorare le condizioni di lavoro, creare nuovi modelli di business e aumentare la produttività e la qualità produttiva degli impianti) e della “Robotica Collaborativa” (Cobot). Si parla di “fabbriche intelligenti” dove tutto è interconnesso dall’Ufficio progettazione, al magazzino, alla linea di produzione, al collaudo, alla gestione clienti e alla spedizione del prodotto (il tutto con grande efficacia, riduzione estrema di sprechi e giacenze dei materiali, flessibilità e personalizzazione del prodotto), alla sicurezza.
In questi ultimi anni, tra le 10 società a maggiore capitalizzazione, le posizioni di top sono appannaggio delle aziende di ricerca ed innovazione nell’informatizzazione ed ingegnerizzazione tecnologica.
Così la graduatoria nel 2017 sui mercati internazionali: 1) ExxonMobil (idrocarburi); 2) General Electric (conglom); 3) Microsoft (inftech); 4) Fitigroup (finanziario); 5) AT&T (telecom); 6) Bank of America (banche /finanza), tutte USA; 7) Toyota Motor (auto), Giappone; 8) Gazprom (idrocarburi), Russia; 9) PetroChina (idrocarburi), Cina; 10) Shell (idrocarburi), Olanda.
Nel 2018 si registra questa profonda modificazione: 1) Apple (inftech); 2) Amazon.com (inftech); 3) Alphabel (inftech); 4) Microsoft (inftech); 5) Facebook (inftech), tutte USA; 6) Alibaba (inftech), Cina; 7) Berkshire Hathaway (banche/finanza), USA; 8) Tencent (inftech), Cina; 9) JPMorgan Chase, (banche/finanza) USA; 10) ExxonMobil (idrocarburi), USA.[2]
Gli effetti dell’avvio della quarta rivoluzione industriale si ripercuotono, anche con risvolti traumatici, sul mercato del lavoro e delle professionalità, sulla società.
Alla domanda, rivolta ad un giovane, su: quale lavoro dovrà aspettarsi da qui ai prossimi 20 anni?, la risposta non potrà che essere data sulla base di tre “certezze”: che in questo arco di tempo la sua vita si snoderà fra almeno due o tre mestieri diversi; che molti di questi lavori che dovrà affrontare oggi non esistono, mentre alcune professioni attuali, sono destinate a scomparire; che la chiave del futuro sarà l’adattabilità, perché nel mercato globale e delle tecnologie tutto cambia di continuo.
Competizione tra nazioni alla conquista delle tecnologie per il dominio.
Lo “spazio cibernetico” (cyberspace), composto da comunicazioni e sistemi informativi interconnessi, è lo spazio di un nuovo dominio, creato dall’uomo, che ha una natura “non naturale” e che trascende i confini naturali.
Il cosiddetto “dominio cibernetico” si è aggiunto ai tradizionali domini di Terra, Mare, Cielo e Spazio; una dimensione nuova dell’agire umano di rilevanza esponenzialmente crescente.
Le tecnologie digitali, per effetto di processi di digitalizzazione sempre più estesi e pervasivi, sono onnipresenti e proprio per questo assumono rilevanza strategica in un sistema internazionale che negli ultimi anni sta rapidamente modificando il panorama mondiale uscito dalla Seconda guerra mondiale e per anni caratterizzato economicamente e militarmente da una sorta di equilibrio tra le potenze vincitrici e dalla marginalità dei paesi asiatici e del Terzo mondo.
La realtà è che quanto nasce e si sta sviluppando all’interno della competizione commerciale si sta anche trasformando in un “vecchio” e – al tempo stesso – “nuovo” capitolo di una contesa che riguarda l’egemonia globale. Obiettivo della competizione e dell’egemonia tecnologica: identificare e gestire a proprio vantaggio la miriade di opportunità/vulnerabilità digitali che caratterizzano sia la vita quotidiana sia gli ambienti tecnologicamente più avanzati.
La battaglia Usa/Cina del XXI secolo, con l’insinuazione di Russia (che per ora gioca le sue carte con le interferenze cyber in Occidente) è già e, in prospettiva, ancor di più sarà relativa al dominio delle tecnologie basate sull’intelligenza artificiale (AI).
Da due/tre anni a questa parte, Pechino ha investito massicciamente in questi settori – che includono fra l’altro 5G, big data, robotica – sfidando il predominio americano. Il “caso Huawei” (con l’arresto in Canada, su mandato di Washington, della figlia del fondatore della compagnia di telecomunicazioni cinese) segna l’inizio ufficiale della “guerra fredda tecnologica” (Cold War 2.0) del XXI secolo.
La Cold War 2.0 fra Pechino e Washington investirà più in generale i nessi fra economia e sicurezza nazionale e finirà per produrre, come la guerra fredda Usa-Russia del secolo scorso, una competizione per le rispettive sfere di influenza. Non è un caso che, dopo il Canada, i paesi più collegati agli Stati Uniti da accordi di intelligence (il c.d. gruppo dei five eyes, che include Gran Bretagna, Australia, Nuova Zelanda, oltre a Canada e Stati Uniti) abbiano estromesso Huawei dai propri mercati domestici nei settori industriali sensibili del 5G.
In gioco, non ci sono soltanto questioni di natura commerciale ma questioni decisive di “sicurezza” e futuri “equilibri geopolitici”.
La sfida del XXI secolo investirà anche i sistemi politici, gli equilibri interni alle società contemporanee: secondo la definizione di Foreign Affairs, così come la guerra fredda del secolo scorso è stata caratterizzata dalla contrapposizione ideologica fra capitalismo e comunismo, la Cold War 2.0 vedrà la contesa fra democrazia liberale (resa più vulnerabile dalla competizione tecnologica) ed una nuova forma di “autoritarismo digitale”.
La “competizione tecnologica” … e i suoi competitor (di oggi).
Lo scenario geo-economico e politico internazionale vede due agguerriti protagonisti: USA e Cina ed inoltre la presenza di Russia e di una Unione europea dalle interessanti ma inespresse potenzialità.
Ancora oggi gli Stati Uniti d’America mantengono un netto primato nel settore dell’intelligenza artificiale, grazie al tasso di investimenti privati e a un ecosistema accademico molto dinamico.
La Cina – impegnata in un rapido e massiccio ammodernamento militare – sta però concentrando investimenti pubblici e ricerca nel tentativo di recuperare il ritardo entro un decennio circa.
La Russia, apparentemente defilata, non potendo contare sui mezzi delle altre due potenze, per il momento gioca le sue carte con le interferenze cyber in Occidente.
L’Europa è in ritardo e in difficoltà. In teoria, l’UE ha sì punti di forza, quali ricerca scientifica e un vasto mercato digitale, ma senza investire risorse più rilevanti nelle tecnologie dell’intelligenza artificiale e senza creare una capacità industriale high-tech capace di competere realmente sul piano globale, il Vecchio continente resterà schiacciato della competizione fra Stati Uniti e Cina.
L’Europa, peraltro, costituisce il mercato più appetibile per le tecnologie made in Usa e made in Cina perché è un mercato che, con più di 500 milioni di “consumatori” e oltre 23 milioni di imprese è la più grande area economica del pianeta dove merci e persone possono circolare liberamente. Perché l’Europa pesa per il 35 per cento del totale dell’export mondiale di beni e servizi e il 20 per cento del valore aggiunto manifatturiero, genera il 50 per cento del welfare del globo. Perché tra i primi 20 paesi al mondo per integrazione nei mercati globali… ben 18 sono membri dell’Unione europea.[3]
Di conseguenza – ne va della sua sovranità – l’Unione europea deve recuperare celermente un ruolo da co-protagonista ed essere in grado di controllare autonomamente le tecnologie chiave che condizionano la crescita nei settori più avanzati. Controllarle significa possederle o svilupparle e poi mantenerle nel tempo: da una parte, quindi, devono essere rese disponibili, dall’altra devono essere preservate.
Germania e Francia, hanno ben consapevolezza di questa necessità, e lo scorso 22 gennaio hanno firmato il “Trattato di Aquisgrana” con l’impegno di portare avanti e di imporre “linee guida etiche per le nuove tecnologie a livello internazionale”.
Grazie anche a questo Trattato e a motivo delle preoccupazioni per l’intensificarsi della “competizione” tra USA e Cina, nonché per l’apprensione derivante dall’accelerazione e dal diffondersi degli accordi bilaterali promossi dalla Cina con paesi europei (“Via della Seta”), la Commissione europea, agli inizi di aprile, ha preso l’iniziativa di indicare, sulla base degli oltre 500 contributi inviati a Bruxelles dai diversi Settori coinvolti, le linee guida, o raccomandazioni, sull’intelligenza artificiale.[4]
Si tratta di 7 principi con al centro l’ “uomo” (ndr. l’ “umanesimo” è un valore intrinseco e distintivo alla cultura europea):
Il 7 giugno di quest’anno il Consiglio dell’Unione ha adottato le Conclusioni sul futuro digitale dopo il 2020 con l’obiettivo di accrescere in tutta l’UE la competitività digitale ed economica e la coesione in tutta l’Unione.[5]
Le Conclusioni del Consiglio mettono in luce le principali priorità e sfide per un’Europa forte, competitiva, innovativa e altamente digitalizzata, facendo riferimento all’importanza di sostenere l’innovazione e promuovere le principali tecnologie digitali europee, rispettare i valori e i principi etici nell’intelligenza artificiale, rafforzare le capacità europee in materia di cybersicurezza, migliorare le competenze digitali e sviluppare la società dei gigabit, compreso il 5G.
Tra i sub-obiettivi viene espressamente previsto anche quello di accrescere la partecipazione delle donne nel settore e di “far sì che tutti i gruppi vulnerabili sfruttino i vantaggi della digitalizzazione, così che nessuno resti escluso”.
L’iniziativa della Commissione e quella conseguente del Consiglio dell’Unione, oltremodo necessarie, rischiano tuttavia di risultare depotenziate a causa dell’atteggiamento riottoso degli Stati sovranisti che antepongono propri protagonismi di facciata anche a costo di consegnare le loro nazioni alla prospettiva di sudditanza verso Cina o USA.
Per questo la situazione permane emergenziale e la realizzazione delle linee guida sull’intelligenza artificiale ha bisogno di un contesto di più ampia ed unitaria condivisione sotto il profilo politico tra i paesi europei che ne assicuri la tenuta complessiva.
E’ allora fondamentale una convergenza di volontà politiche per una riforma che consegni all’UE autodeterminazione e poteri per affrontare adeguatamente le sfide indicate nel Rapporto Global Trends.
In altri e più semplici termini: scrivere al più presto una “agenda” per il futuro degli europei che consenta una transizione rapida verso una “Europa con istituzioni federali”. Un progetto di respiro europeo post-nazionale e federale del Vecchio continente con una vision e una coerente ed incisiva governance in grado di dar vita ad una nuova Europa capace di interloquire con autorevolezza con i paesi che intendono affermare il loro dominio economico, politico e militare.
La globalizzazione (delle tecnologie, così come della finanza e dell’economia) è irreversibile. Non è possibile resisterle. E’ possibile piuttosto cercare di influenzarla e questo è il ruolo dei paesi dell’Eurozona: unitariamente dare avvio ad una “globalizzazione alternativa” che faccia perno e che premi i valori sociali di una economia e di uno sviluppo che siano inclusivi, rispettosi della dignità della persona e del lavoro e dell’eco-sostenibilità.
Un obiettivo certamente ambizioso ma ancorché possibile a condizione che trovi concreta e rapida attualizzazione l’autorevole ed accorato monito del presidente Macron: “ll solo modo per garantire il nostro avvenire è la rifondazione di un’Europa sovrana, unita, democratica”.
Piero Angelo Lazzari
[1] European Strategy and Policy Analysis System (ESPAS), Global trends 2030: Can the EU meet the challenges ahead?, https://ec.europa.eu/epsc/sites/epsc/files/espas-report-2015.pdf.
[2] Mario Deaglio, Il mondo cambia pelle?, Milano, Guerini e Associati, 2018.
[3] Konjunkturforschungsstelle (KOF), ETH Zürich, Index of Globalization 2017, https://www.kof.ethz.ch/globalisation/.
[4] Independent High-Level Expert Group on Artificial Intelligence set up by the European Commission, Ethics guidelines for trustworthy AI, https://ec.europa.eu/digital-single-market/en/news/ethics-guidelines-trustworthy-ai.
[5] European Council, Boosting digital and economic competitiveness across the Union and digital cohesion, https://www.consilium.europa.eu/en/press/press-releases/2019/06/07/post-2020-digital-policy-council-adopts-conclusions/.
Anno LXI, 2019, Numero 1-2, Pagina 66
L’ACCORDO TRA LA GRECIA E LO STATO MACEDONE
Alla Macedonia si pensa spesso facendo riferimento alla lunga diatriba tra quanti la ritengono l’erede dell’antica patria di Alessandro Magno e quelli per i quali essa rappresenta un vero e proprio furto culturale. Ci riferiamo naturalmente alla disputa con la Grecia sul nome del paese, ma non solo. Anche in questo piccolo paese possiamo cogliere gli effetti del grande scontro tra identità nazionale e identità spontanea, e del tentativo russo di preservare la sua storica influenza sui Balcani (una porta sul centro del Mediterraneo) contro eventuali allargamenti dell’UE e della NATO.
Tali contrapposizioni si sono potute osservare a seguito dello storico accordo tra Grecia e Macedonia sulla denominazione dello Stato, firmato il 17 giugno 2018 sul confine, presso il lago di Prespa. Con questo accordo, una freccia dell’arco del nazionalismo, l’esasperata vocazione identitaria, sembrava essere stata smussata in favore di un’apertura verso l’Occidente. Questa svolta è stata guidata dall’attuale primo ministro, Zaev, esponente del partito socialdemocratico e leader di una coalizione di centrosinistra, che ha saputo approfittare di due tendenze del paese. La prima è la grande impopolarità della principale politica di sviluppo economico varata dal precedente governo di centro destra, chiamata “Skopje2014”. Tale progetto, che prevedeva la riqualificazione della capitale per rilanciarne il turismo, tra ritardi (doveva concludersi nel 2014) e lievitazione dei costi, si è rivelata un pesante fardello per l’economia e causa di un ulteriore logoramento delle relazioni con la Grecia. Infatti Atene ha da subito considerato la costruzione di numerosi edifici in stile neoclassico e, soprattutto, l’elevazione di una statua al “guerriero macedone” come una provocazione inaccettabile. La seconda è il forte potere suggestivo e quasi taumaturgico che possiede la parola Europa nella popolazione.
L’azione del governo macedone si è incentrata quindi da un lato sullo smantellamento parziale della politica Skopje2014 negli aspetti che più irritavano la Grecia, soprattutto la ridenominazione dell’imponente statua di Alessandro Magno per onorare la rinnovata “amicizia greco-macedone”. Ciò è stato uno dei presupposti per il raggiungimento dell’accordo. Dall’altro ha cercato di fare leva sulla fascinazione esercitata dall’Europa, orientando in questo senso il quesito referendario per sottoporre al giudizio cittadini la firma dell’accordo: infatti la domanda sulla scheda chiedeva: “Siete a favore dell’adesione all’Unione Europea e alla NATO, accettando l’accordo tra la Repubblica di Macedonia e la Repubblica di Grecia?”
Tutto ciò non ha avuto però il risultato sperato: il referendum consultivo non ha raggiunto il quorum previsto della metà più uno degli elettori (anche se la percentuale del “sì” tra i votanti è stata quasi del 95%). Vi è innanzi tutto da dire che l’accordo, già alla stipula, appariva molto fragile. Il principale partito macedone di centrodestra, che da sempre fa leva sul sentimento identitario e nazionalista (anzi, si può dire che l’abbia creato) era fortemente contrario; così come, in Grecia, lo è la stragrande maggioranza della popolazione e il partito conservatore (Nuova Democrazia), da poco tornato al potere. Il governo macedone è riuscito a tenere in vita l’accordo, avviando l’iter di approvazione legislativa, anche di fronte alle accuse di “tradimento” e di voler imporre ai macedoni una nuova identità costruita a tavolino per ingraziarsi un governo straniero; accuse lanciate durante un’imponente manifestazione dell’opposizione, per protestare contro il governo reo, secondo loro, di non rispettare la decisione popolo. Chi invece ha votato massicciamente a favore di questo accordo è stata la minoranza albanese, nella speranza che la fine dell’isolamento della Macedonia possa portare a un miglioramento della sua situazione. Rimane vivo infatti nel ricordo degli albanesi l’irruzione nel 2017 di un gruppo nazionalista macedone in parlamento e la seguente furiosa rissa a seguito dell’elezione alla presidenza dell’assemblea di un esponente del partito albanese.
Il nazionalismo macedone affonda le sue radici anche in un’interpretazione molto parziale e forzata della storia. Ammesso infatti che l’identità di un popolo vissuto 2000 anni fa sia condivisa dal popolo che ora abita negli stessi luoghi, la popolazione dell’attuale Stato macedone, benché faccia parte della regione che i Romani chiamarono Macedonia, a causa delle migrazioni slave, è molto lontana dagli antichi macedoni. I greci hanno mantenuto molti contatti, non solo linguistici, con le varie stirpi che oggi chiamiamo “greche antiche” (tra cui figurano anche i macedoni). Inoltre molte antiche città macedoni, fondate vicino al mare, si trovano ora in territorio greco. Con ciò, ovviamente, non pretendiamo di liquidare una disputa molto più complessa che dura da quando nel1991 lo Stato macedone si è costituito come paese sovrano. La questione è però qui un’altra: la repubblica di Macedonia, appena nata, aveva necessità di procurarsi in fretta una coscienza comune dopo la caduta del collante federale Jugoslavo. Costruendosi una narrazione a partire dal proprio nome (che già aveva come parte della Jugoslavia), la Macedonia è rimasta al riparo dalle lotte intestine dopo l’indipendenza ed è riuscita a mantenere rapporti non troppo tesi con la minoranza musulmana albanese (se si eccettua il periodo della guerra nel Kosovo).
Per quanto riguarda invece le interferenze russe, esse si legano alla politica russa nella regione, che risale alla fine della Repubblica jugoslava. La contemporanea caduta dei regimi comunisti in Russia, Jugoslavia e Albania ha infatti portato sin dagli anni Novanta la Russia a cercare spazi di influenza nella regione balcanica. Mosca ha cercato di approfittare della frantumazione della ex-Jugoslavia per cercare di legare a sé i nuovi Stati venutisi a formare; anche se l’attrazione esercitata dall’UE è stata poi molto più forte e ha portato la quasi totalità degli Stati balcanici a firmare accordi di associazione con l’UE e a diventare membri della NATO. Bulgaria, Romania, Slovenia e Croazia, ormai paesi membri, si sono progressivamente sottratti dall’influenza russa. In questo quadro, paradossalmente, la Macedonia è sempre stata il paese balcanico meno vicino alla sfera di influenza russa: gli investimenti sono sempre rimasti residuali rispetto ai paesi vicini; oggi tuttavia è uno dei pochi paesi ancora contendibili per Mosca, che ha concentrato la sua strategia soprattutto attorno al tentativo di intorbidire le acque, sollevare accuse di violazioni nell’iter di approvazione dell’accordo con la Grecia e a fomentare manifestazioni violente contro di esso. Secondo l’intelligence americana, ci sarebbe proprio un oligarca russo di lontana origine greca, Ivan Savvidis, al centro di un’attività volta a far saltare l’accordo tra Macedonia e Grecia. Questo personaggio era salito agli onori delle cronache per una foto che lo vedeva protagonista di un’invasione di campo durante una partita della squadra di calcio, il PAOK di Salonicco, di cui è proprietario, armato di pistola. In seguito a questo avvenimento, il governo greco aveva deciso di sospendere il campionato di calcio nazionale. In base ad intercettazioni telefoniche è emerso che Savvidis finanziava gruppi, soprattutto ultrà di squadre macedoni, tradizionalmente di orientamento ultraconservatore e nazionalista, per organizzare manifestazioni violente contro l’accordo. Data la sua estrema popolarità a Salonicco, egli potrebbe aver promosso anche la manifestazione organizzata nella città contro la firma dell’accordo, a cui molti hanno partecipato indossando la maglia del PAOK. Inoltre Savvidis fa anche parte di un consorzio che ha comprato il porto della città, il secondo porto greco dopo il Pireo e uno dei principali asset strategici del paese.
Contro tutto questo, i leader di Grecia e Macedonia hanno, però, mostrato una forte determinazione. La Grecia, solitamente molto vicina a Mosca, ha espulso alcuni diplomatici russi, accusandoli di aver tentato di corrompere “funzionari” greci e fomentare proteste, con lo scopo di far naufragare l’accordo. Ancora più determinati sembrano essere gli stessi cittadini macedoni: in fondo quasi il 95% dei votanti al referendum ha scelto di appoggiare l’accordo. Tuttavia i passaggi parlamentari sono stati molto difficoltosi. Il parlamento macedone ha dovuto approvare due volte l’accordo, a causa del rifiuto della ratifica posto dal Presidente della Repubblica Ivanov (esponente del partito di opposizione), che accusava la maggioranza di attentare all’identità nazionale macedone. Dopo l’approvazione parlamentare (5 luglio 2018), la costituzione è stata emendata con il cambio del nome dello Stato (11 gennaio 2019). Sull’altro fronte, quello greco, la ratifica parlamentare ha portato ad una crisi di governo: il partito dei Greci Indipendenti (ANEL), un partito di destra populista vicino a SYRIZA per il comune sentimento anti-austerità, ha ritirato i propri ministri e il sostegno al governo. Dopo aver respinto un voto di sfiducia, il parlamento greco ha ratificato l’accordo il 25 gennaio 2019.
A seguito della ratifica bilaterale, la Grecia ha ritirato il veto per l’adesione della Macedonia all’UE e alla NATO. Il 6 febbraio 2019 i membri del Patto Atlantico hanno firmato un protocollo di adesione, mentre la strada per l’adesione all’UE sembra ancora in salita. Sciolto il principale nodo politico si dovevano affrontare una quantità di aspetti tecnici. Dopo la raccomandazione incondizionata della Commissione, il Consiglio Europeo non ha aperto i negoziati, ma, su pressione della Francia e dei Paesi Bassi, ha posto, già qualche giorno prima della firma dell’accordo, alcune pregiudiziali (con riferimento all’economia, al sistema giudiziario, alla lotta contro la criminalità e la corruzione) per un’eventuale apertura dei negoziati di adesione nel giugno 2019. Questa è la situazione attuale, con questi aspetti tecnici fatti propri dalla politica, perché, mentre le condizioni richieste non sono ancora state pienamente soddisfate, la Francia e i Paesi Bassi hanno deciso di rimandare la discussione in attesa dei risultati delle elezioni europee.
In realtà c’è un fattore che, in questo momento, ha peso più degli altri: il nazionalismo, risvegliatosi ormai da molto tempo, che ora sta raccogliendo i suoi frutti più maturi. L’indizio forse più importante di questa ingombrante presenza consiste nel fatto che, in entrambi i paesi, chi si oppone all’accordo fa uso della stessa obiezione: si tratterebbe di un attentato all’unità e alla sicurezza nazionale. Pesante è stato il suo impatto sull’opinione pubblica, non solo durante manifestazioni di piazza (ricordiamo la grande protesta sotto il parlamento greco, in cui le frange più violente si scontrarono ripetutamente con la polizia), ma soprattutto nel dibattito pubblico, in termini di violenza e ipocrisia.
Della nascita, recente, ma non per questo meno violenta, del nazionalismo macedone abbiamo già parlato. Invece il nazionalismo greco ha una storia più articolata. La sua origine può essere fatta risalire all’inizio dell’Ottocento in concomitanza della lotta di indipendenza contro l’Impero Ottomano. Ma ciò che ha avuto più influenza nella storia contemporanea è la dottrina politica della Μεγάλη Ιδέα (Grande Idea) che ha visto come principale fautore Eleutherios Venizelos. Essa si basava, sostanzialmente, su un primitivo concetto di “spazio vitale” e prevedeva la volontà di annettere allo Stato greco tutti i territori abitati da popolazione di “etnia greca”. Ovviamente la scarsa chiarezza di tale espressione ha portato le rivendicazioni territoriali ad espandersi ulteriormente includendo anche la parte meridionale di Albania e Bulgaria, l’intera regione della Macedonia, la Tracia con Costantinopoli e l’Anatolia occidentale. Il momento in cui la Grecia fu più vicina a perseguire questo obiettivo è stato nel 1921-22 quando, col trattato di Sèvres, essa ottenne parte della Tracia e la regione di Smirne. Il cocente fallimento di questo progetto maturato — dopo la perdita del sostegno e dell’interesse da parte degli alleati occidentali — sul campo di battaglia contro la Turchia ha lasciato segni tuttora presenti: innanzitutto uno strascico nei pessimi rapporti con gli Stati vicini tra cui il diffuso timore che ogni concessione sia il preludio di una cessione territoriale. A ciò dobbiamo aggiungere il diffuso sentimento nell’opinione pubblica (soprattutto dopo la crisi del debito sovrano) che l’interesse della Grecia fosse messo sempre in secondo piano rispetto all’interesse degli attori internazionali. In questo contesto, ha trovato spazio anche la recriminazione sul fatto che il nome “Macedonia”, considerato alla stregua di una proprietà, fosse stato “ceduto, senza ricevere nulla in cambio”. Ricordiamo anche che la struttura farraginosa del sistema scolastico e del libro di testo di storia (pubblicato dal Ministero dell’Istruzione, unico in tutto il territorio nazionale e molto reticente nell’affrontare pagine negative della storia greca quale fu la guerra civile e la dittatura del Colonnelli) priva i cittadini di occasioni per maturare strumenti critici e di riflessione per contrastare il ritorno del nazionalismo. Nazionalismo che viene quindi nuovamente usato, come all’interno di un circolo vizioso, come strumento per raccogliere consenso e che ha avuto molto peso anche nelle recentissime elezioni nazionali. Il nuovo primo ministro Mitsotakis è infatti espressione del partito di centrodestra ND che ha cavalcato, in modo spesso ambiguo e con grande superficialità, la forte opposizione popolare all’accordo (più del 60% secondo i sondaggi d’opinione) riuscendo anche ad attrarre elettori della destra radicale. Ora, però, alla guida del governo, con una congiuntura economica tutto sommato positiva, sarà costretto a ritrattare le sue affermazioni più radicali. Probabilmente la posizione greca sarà, almeno in questo primo momento, di attesa poiché i negoziati di accessione all’UE sono generalmente molto lunghi, e non è ancora chiaro come si muoverà l’opinione pubblica in futuro.
Da parte sua, la Macedonia ha dimostrato una seria dedizione nel seguire le clausole dell’accordo. È ora nell’interesse della Grecia e dell’UE convincere i paesi europei (principalmente Francia e Paesi Bassi) a mettere da parte la riluttanza nell’aprire i colloqui di adesione. Infatti il perdurare dello stallo consentirà a terze parti di sottolineare l’inutilità degli sforzi della Macedonia di entrare nell’UE con lo scopo di mantenere instabile l’area balcanica. I cittadini macedoni non devono essere lasciati soli in questa battaglia contro il nazionalismo perché questa è la campagna di tutti quelli che riconoscono il valore della pace e della libertà e della democrazia. In quanto cittadini europei, questo è ora un nostro impegno inderogabile.
Paolo Milanesi
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